Pavese: paese e paesaggio
«Le poète est l’homme qui parle à la place de tout ce qui se tait au-tour de lui… Virgile ne serait pas compréhensible pour nous sans la Lombardie, Rembrandt sans ce Centrum d’Amsterdam, Edgar Poe sans ces étranges étangs funèbres de la Caroline… J’ai appelé Verlaine le fils de l’ardoise et de l’Ardenne […]» P. Claudel, Sur Paul Verlaine, in Œuvres en prose, éd. J. Petit, La Pléiade, p. 498 .[1]
«Quale il mio paese, tale io» annota Pavese l’11 ottobre 1935 a Brancaleone Calabro, dove si trova al confino dal mese di agosto[2]. Nell’affermazione, che probabilmente non era una nuova scoperta, si avverte l’effetto della lontananza, della nostalgia e di un’incapacità di adattarsi a nuovi paesaggi e atmosfere, in un contesto psicologico poco favorevole[3]. Di fronte a un mare vero, il poeta dei Mari del sud si preoccupa della difficoltà di «fare poesia su materia non piemontese di sfondo» (M. di V., 10 ott. 35). Il suo stupore deriva, almeno per quanto si legge nel diario, da un’inquietudine nei confronti di uno scenario la cui bellezza reale il “confinato” non si sente in grado di rendere: «Questa sera sotto le rosse rocce lunari pensavo come sarebbe d’una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe.» La bellezza del Mar Ionio, qui vissuta sotto il profilo culturale – non a caso Pavese parlerà poi di Ulisse – viene negata nelle lettere. Di per sé il mare è un elemento ostile. L’amico pittore Sturani ravvisa un taglio coloristico nella lettera del 27 novembre 1935: «Il mare, già antipatico d’estate, d’inverno poi è innominabile: alla sera tutto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d’Ulisse: figurarsi gli altri». I colori sono verosimilmente di tutt’altro genere rispetto alla gamma cromatica della terra, e se il «verde tenerello» suscita rabbia è a causa della sua natura acquatica. Più pittoresca la lettera al professor Monti dell’11 settembre 1935: «Lei sa come odî il mare; mi piace nuotare però mi serviva molto meglio il Po. Ma a parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odor di pesce.» L’annotazione finale è interessante; senza che il poeta lo espliciti a chiare lettere, il «basso orizzonte» si contrappone con tutta evidenza alle curve della collina natale, che fanno presagire un “oltre”. È curioso come impressioni molto simili si ritrovino nello Zibaldone di Leopardi: al mare, che ha nell’immensità la sua essenza, manca, secondo il poeta, una qualità intrinseca, la varietà. Inoltre, la vastità marina non stimola la fantasia, perché non conosce la prospettiva. «Le idee relative al mare sono vaste e piacevoli, ma non durevolmente.»[4] Il testo leopardiano menziona l’assenza di varietà dello spettacolo così come Pavese parla del «perenne giochetto delle onde». Questa apoeticità del mare riappare ne Il carcere, il romanzo più autobiografico di Pavese, dove la spiaggia è rappresentata in prevalenza come desolata, «e lo riprese l’amarezza della spiaggia»[5], e il mare come monotono, livido, sporco… Diversi anni dopo, ne Il diavolo sulle colline, sul filo di un ricordo balneare il narratore esplicita il motivo per cui il mare resterà sempre per lui un elemento estraneo: «In fondo, il mare così grande e inafferrabile non mi diceva gran che; mi piacevano i luoghi ristretti che avevano una forma e un senso – insenature, viottoli, terrazze, uliveti.»[6]
I paesaggi marini suscitano un senso di estraneità riconducibile in secondo luogo, tanto in Leopardi quanto in Pavese, a un dato accidentale: tali paesaggi non appartengono al mondo familiare dell’infanzia. Alle immagini del mare infatti, si legge nello Zibaldone, mancano due qualità, la varietà e «l’esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana, agli oggetti che ci circondano, alle nostre assuefazioni, rimembranze (dico di chi non è marinaio ec. di professione) ed anche alle nostre cognizioni pratiche». Nel passo già citato de Il mestiere di vivere del 10 ottobre 1935, Pavese continua a interrogarsi: «Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro significato.» In tutti gli scritti di Pavese si legge in filigrana la rivendicazione esplicita di una sorta di diritto di sangue sulla terra d’origine. La terra natia è vissuta come materia, ben presto assimilata e divenuta sostanza corporea, sangue e ossa, da La spiaggia («Quello che importa, ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie»[7]) a La luna e i falò dove il narratore, figlio bastardo, ritorna nella provincia in cui è cresciuto, alla vana ricerca di un’identità: «Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi […]»[8] Allo stesso modo, nel racconto “La Langa”, fortemente autobiografico, pubblicato in Feria d’agosto: «[…] il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla.» Con tutta evidenza, tale sentire, oscuro, porta in sé una voracità insoddisfatta, una specie di pulsione orale mai appagata. Così Pavese annota nel suo diario il 1° maggio 1948: «[…] Spiegato a M.L. davanti alla collina – stupenda – che m’incarogniva non poterne far nulla, essere costretto ad ammirarla e basta. L’idea di possederla, di farla propria, di berne il segreto, d’incarnarmela, non riuscivo neanche ad esprimerla. Mi spiegai col paragone del frutto: come un frutto si mangia e assimila, così la collina.»
Sette anni dopo, in tutt’altra situazione, sulla via del ritorno in treno da Roma, Pavese si meraviglia ancora una volta dell’impressione che gli suscita la vista della costa ligure, piacevole ma anche frivola, e pertanto indegna di essere una vera fonte di ispirazione. «10 febbr. [1942] Davanti al mare della Pineta: […] essa non è però per te né un ricordo, né una costante fantastica e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non intime come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo.» Come nel 1935, Pavese sa che si tratta di un limite delle sue capacità creative. «Se ne deduce che moltissimi mondi naturali (mare, landa, bosco, montagna[9], ecc.) non ti appartengono perché non li hai vissuti a suo tempo e dovendoli poetare non sapresti muoverti in essi con questa segreta ricchezza di sottintesi, di sensi e di appigli, che dà dignità poetica a un mondo.» Lo scrittore finisce col dare l’impressione di una vita autarchica, di mondi che si sfiorano senza alcuna possibilità di compenetrazione. «29 apr. [43] Quando si capita in un luogo nuovo – nuova regione, altra natura, altri usi, altre case e facce, – molte viste mi colpiscono che se avessi vissuto sempre nella regione, sarebbero ora ricordi d’infanzia. Perciò ho l’impressione aggirandomi, di scostare e violare sogni altrui.» Pavese diffida fortemente della letteratura esotica («2 agosto [42] la noia indicibile che ti danno nei diari le pagine di viaggio.») poiché lo spaesamento è segno di inautenticità. Quello che rende straordinaria l’opera di Melville è il suo apparentamento con il mito. Il mare è in Melville «il volto visibile, infinitamente ricco d’analogie dell’arcana realtà delle cose» (Simboli e miti in Moby Dick).
Nel corso di quegli anni, Pavese continua ad accettare la supremazia della materia piemontese, ma si impegna a elaborarne la sostanza: usando ogni sorta di strategia, a poco a poco il paese e il paesaggio si distinguono l’uno dall’altro. Infatti solo alcuni luoghi dell’infanzia hanno il privilegio di diventare «luoghi unici» – si potrebbe parlare qui di paesaggio[10] – e in tal senso costituiscono una mitologia personale. Pavese scrive nel suo diario l’11 settembre 1943: «I luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria a ciascuno consacrati nelle stesso modo; in essi accaddero cose che li hanno fatto unici e li trascelgono nel resto del mondo con questo suggello mitico.» Il 17, alla ricerca di quel che Barrès chiama “i luoghi in cui soffia lo spirito” («les lieux où souffle l’esprit», ne La colline inspirée, 1913), corregge l’annotazione in: «Il luogo mitico non è quello individualmente mitico […] ma bensì quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la radura che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc. e tutti li anima del suo brivido simbolico.» Altrove, la mitologia torna a essere strettamente personale e incontrollabile, come nel caso delle «povere cose del passato» rievocate nel saggio “Del mito, del simbolo e d’altro”[11], o della riflessione disincantata di “Stato di grazia”: «La scelta avviene secondo motivi che si direbbero capriccio.» Prendendo esplicitamente l’esempio di Leopardi e del suo gusto per la «veduta ristretta e confinata» – il paesaggio consisterebbe allora a estrarre una parte da un tutto –, Pavese parla anche di sé[12]. Ma la scelta della parte estratta è legata a un contesto artistico al quale si fa spesso allusione nel diario e che fa del «paesaggio» un fatto più culturale che geografico. Interrogandosi in questo stesso testo sull’«estasi della finestra», Pavese ipotizza che si potrebbe trattare della finestra della scuola in cui il bambino – allude a se stesso? – frequentava i poeti. Ne Il mestiere di vivere, annota il ruolo svolto sia dall’architettura che dalla pittura in questo destarsi all’elemento paesaggistico – «30 sett [44] Gli archi colonnati delle logge creano paesaggi stilizzati incorniciandoli» –, aggiungendo che questa impressione richiama anche i polittici del Trecento «scompartiti a colonne arcuate». Lungi dall’essere, come poteva sembrare, un’emozione cieca e viscerale appartenente all’infanzia, il paesaggio d’elezione passa per la favola, la poesia, la pittura. Il discorso critico contemporaneo ha battezzato “artializzazione”[13] questa percezione della natura mediatizzata da un’operazione artistica, letteraria, pittorica o di altro genere. Pavese colloca tale operazione nell’infanzia stessa e non necessariamente in un ambiente colto.
«31 ag. [42] Il bambino s’impara a conoscere il mondo non come parrebbe con immediato e originario contatto con le cose ma attraverso i segni delle cose: parole, vignette, racconti.» Pavese scopre ciclicamente che un paesaggio ne cela un altro, sorta di palinsesto ricolmo di molteplici scritture. Può essere Omero come D’Annunzio (10 luglio 1943). Bisogna dire però che la citazione può anche rivelarsi fallace e confermare, pertanto, che il legame meccanico fra la terra e l’arte da cui deriverebbe in realtà non esiste. Il poeta si rende conto di aver letto la campagna piemontese attraverso la lente del Lazio di Virgilio (osservazione approssimativa, poiché i paesaggi virgiliani sono compositi, lombardi e meridionali, ma mai romani): «31 maggio [46] Visto molte cose giungendo in Piemonte da Roma. Le piante della campagna e la loro collocazione (ontani, querce, orni, salici, viti e grandi file, a quinta teatrale, nelle pianure) sono quelle di Virgilio e di altre letture classiche della mia adolescenza. […] Strano perché gli alberi dei classici erano certo quelli di Roma, e io invece li ho visti piemontesi, e li ritrovo qui soltanto. Sarà perché leggevo in Piemonte.» Splendido esempio di assimilazione che si basa a un tempo su una geografia, un’epoca (la giovinezza) e una lettura. Questa mobilità del riferimento mitologico indica la perdita dell’aura degli antichi dèi, come pure l’inizio di un’era personale dove non c’è altro dio all’infuori di sé. Nella lettera a Mario Sturani del 20 settembre 1935, a proposito degli dèi assenti del Mar Ionio si legge: «Voi sapete per avermi aiutato nel trasloco che l’Elicona è ormai solo sulla collina di Torino (e le ninfe fanno il bagno nel Po e Diana va a caccia sui corsi e il Partenone è la torre littoria).»
Alle riflessioni estetiche del diario corrispondono chiaramente le creazioni del poeta e del romanziere. Trattare del paesaggio nell’opera di Pavese, tuttavia, travalicherebbe i confini di questa riflessione, e, soprattutto, non aggiungerebbe nulla di nuovo agli eccellenti studi di Bàrberi Squarotti, Musumeci, Gioanola, ecc. Possiamo dire en passant che Pavese, se non pone ancora la questione della «morte del paesaggio», afferma nondimeno la morte della descrizione del paesaggio… In modo lapidario, scrive il 27 giugno 1942 a F. Pivano: «Descrivere un paesaggio è cretino», asserzione confermata da diverse annotazioni de Il mestiere di vivere in cui Pavese preferisce una rappresentazione effettuata in genere dal personaggio. «5 dic. [48] Un luogo che ti piace […] non va descritto entusiasticamente come facevi da giovane, bensì va rappresentato in modo netto e chiaro la vita che conduce chi ci vive, chi ne è espressione.» Ma è possibile anche l’inverso: la difficoltà di rendere un personaggio sarà superata con l’introduzione di un paesaggio che possieda affinità segrete con colui che lo frequenti. «[…] misi invece insieme un paesaggio di alta e bassa collina, contrapposte e movimentate, e centro animatore della scena, un eremita alto e basso superiormente burlone e a dispetto dei convincimenti anti immaginifici “color di felci bruciate”.»[14] Questo spiega, in particolare nella poesia, come sia difficile distinguere i ritratti dalle scene e dai paesaggi, come avviene negli otto «paesaggi» di Lavorare stanca. Sarebbe tuttavia assurdo affermare che il paesaggio non sia presente nei romanzi di Pavese, quando le pagine più famose restano a giusto titolo quelle che “descrivono” la collina. Fra gli elementi che uniscono l’esistenza del paese autobiografico con la resa paesaggistica vi è il modo in cui Pavese investiga la campagna, che darà a quest’ultima una conformazione ben determinata: come ricorre in molti testi, la collina si percorre a piedi[15]. I due amici de La spiaggia tornano a esplorare le colline, con lo zaino in spalla[16]. Il motivo viene ripreso tale e quale ne Il diavolo sulle colline: «Sapevo che in automobile si traversa, non si conosce una terra. “A piedi” avrei detto a Pieretto “vai veramente in campagna, prendi i sentieri, costeggi le vigne, vedi tutto”.»[17] Ne La casa in collina, Corrado predilige le passeggiate con il cane, che introduce una dimensione più segreta e selvaggia nel paesaggio, quella del bosco, con le sue radici, i suoi cespugli, le sue tane. I ricordi delle scampagnate in collina con gli amici, fatte di giochi, chiacchiere, complicità silenziosa e scoperte sensoriali, compongono le pagine più suggestive di Pavese. Attraverso il filtro della memoria, il paesaggio presente nasce dalla pratica del paese dell’infanzia e il camminare conferisce al ricordo la fisionomia di una scoperta. È stato notato in questi testi il reiterato uso degli avverbi di luogo (al basso, ai piedi, di là, ecc.), i quali scandiscono un percorso che prende, a volte, un tono vagamente iniziatico. È ciò che avviene in certe pagine de Il diavolo (cap. XI), quando i ragazzi raggiungono la cima della collina: «Traversai la stoppia riarsa e li raggiunsi sul cocuzzolo. Sembrava d’essere nel cielo […] Veniva voglia di saltare di collina in collina, di abbracciare tutto con lo sguardo.» La vista dalle colline è di rado panoramica poiché resta sempre qualcosa in più da scoprire, un oltre, il mai compiuto «salto nel vuoto» di cui si legge nella lettera stupenda che Pavese scrive a Fernanda Pivano il 25 giugno 1942, da Santo Stefano Belbo: «[…] ma presentivo di là dal salto, a grande distanza, dopo la valle che si espande come un mare, una barriera remota (piccina tanto è remota) di colline assolate e fiorite, esotiche. […] mi sono messo per questa strada e ho camminato verso il salto e ho intravisto le colline remote e ripreso cioè la mia infanzia al punto in cui l’avevo interrotta.» Probabilmente è questo il motivo per cui Pavese sceglie anche i punti di vista dal basso, che lasciano aperta all’immaginazione ogni possibilità. «Eravamo seduti sull’argine della vigna e alzando gli occhi si vedevano i tralci oscillare. Guardando una vigna dal basso, che sale verso il cielo, sembra d’essere fuori del mondo. Si hanno ai piedi le zolle calcinate, i frusti contorti, e negli occhi la fuga dei festoni verdi, le canne uguali che toccano il cielo.»[18] Siamo nuovamente molto vicini alla ricerca leopardiana di una «veduta ristretta e confinata» che suscita il desiderio di infinito.
L’attaccamento al paese è un’ulteriore spiegazione della geografia delle colline elaborata dallo scrittore come un mondo, ennesimo pretesto per non uscire dalla «materia piemontese» che forma un microcosmo: «Ciascuna collina era un mondo, fatto di luoghi successivi, chine e piane, seminati di vigne, di campi, di selve. C’erano case, ciuffi di bosco, orizzonti.»[19] La collina ideale, nei romanzi di Pavese, è un armonioso accostamento di avvallamenti e pianure, di boschi e stagni, di campi coltivati e fattorie, un mondo che, come dètta una tradizione preromantica[20], esclude la montagna e il mare. L’inizio de La casa in collina esprime una sorta di essenza della collina, che pone sullo stesso piano le colline torinesi e le Langhe natie. «Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Per esempio non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade cascine e burroni.»[21] Eppure, ne Il diavolo, le colline appaiono diverse: quella del Greppo, ghermita dalle sterpaglie, testimonia l’abbandono in cui l’hanno lasciata i proprietari e la decadenza della borghesia. «Anche la collina del Greppo era un mondo […] Ma quello che stupiva era il groviglio, l’abbandono: dopo qualche vigna deserta, mangiata dall’erba, nella selva s’accavallavano piante da frutto, fichi e ciliegi coperti di rampicanti, salici e gaggie, platani, sambuchi […] in un disordine che dava alle casuali radure l’aria di solitudine esotica.»[22] In questa natura all’abbandono, le attività sono fatalmente regressive: il corpo offerto al calore del sole, o che sprofonda nel fango. In compenso, l’amore degli eroi pavesiani per gli alberi da frutto, per la vigna, è il segno di un lavoro assurto a dignità di arte: «[…] rimuginavo che non c’è niente di più bello d’una vigna ben zappata, ben legata con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto.»[23] «Queste piante di mele, di pesche, che d’estate hanno foglie rosse o gialle, mi mettono gola ancora adesso, perché la foglia sembra un frutto maturo e uno si fa sotto, felice. Per me tutte le piante dovrebbero essere a frutto; nella vigna è così.»[24] Per questa ragione i giardini che producono solo fiori sono poco apprezzati, come quello di Elena, ne La casa in collina, dove crescono fiori «scarlatti, carnosi, osceni» (cap. VI), o quello alla Mora (La luna e i falò ), di cui sono le signorine a occuparsi: «Se avessi osato, avrei fatto in giardino un massacro di fiori.»[25] Il diavolo sulle colline rende un omaggio esplicito al lavoro della terra.«Ripensavo alle vigne di Mombello, al volto brusco del padre di Oreste. Per amare una terra, bisogna lavorarla e sudarla.»[26] Pavese nel suo diario mette sullo stesso piano «le prose di coltivazione» e «le segrete realtà mitiche» della campagna delle Georgiche di Virgilio.
Parallelamente all’evocazione lirica del paesaggio dell’infanzia, Pavese, come abbiamo visto, cercava di scoprire un simbolismo nei suoi luoghi preferiti, una mitologia nella campagna, i cui risultati, oggi, possono apparire meno felici del resto[27]. L’aspetto “ubertoso” della collina è uno dei motivi più intensi e affascinanti fra quanto illustrato in precedenza. È probabilmente questo che, sotto forma di “simbolo”, Pavese ha reso con l’immagine della «collina-mammella», presente per la prima volta in Paesi tuoi – e tanto sgradevole agli occhi del professor Monti…[28] Pavese commenta l’immagine, il 10 dicembre 1939 nel suo diario, come espressione di una realtà segreta, «[…] la mammella dei Paesi tuoi – vero epiteto che esprime la realtà sessuale di quella campagna.» L’immagine è usata da Guido, ne La bella estate, come motivo pittorico. Lungi dall’essere un peccato di gioventù o un’importazione americana, la formula è ripresa nella lettera a Fernanda Pivano, «quella [collina] enorme e ubertosa come una grande mammella»[29]. Sarà quindi ancora più interessante vedere nella ricerca delle vette di cui abbiamo parlato una semplice «punta della collina» o un «cocuzzolo» (Il diavolo sulle colline) tanto più evocativo nella sua ricchezza semantica. Tutto ciò che la terra (della collina) rappresenta di inquietante nel suo ritorno a forze non controllate della natura si rapprende spesso in una problematica del selvaggio, del sangue, che giustifica l’omicidio di Gisella in Paesi tuoi («pensare uno che perde sangue nella stoppia sembra più naturale»). La casa in collina, in genere considerata come un romanzo della lucidità, resta ancora in bilico fra una mitologia nefasta del selvaggio («Il sangue sparso era assorbito dalla terra. Le città respiravano. Soltanto nei boschi nulla mutava, e dove un corpo era caduto riaffioravano radici»[30]) e una sensibilità quietista («Dopo aver sparso il sangue, bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso.»[31]). La volontà dell’autore di concettualizzare le sue intuizioni, «ridurre a chiarezza i suoi miti»[32], e l’elaborazione del mito in simbolo appesantiscono molte pagine di Pavese, trasformando in paesaggio intellettuale, se non addirittura esoterico, l’insostituibile rigogliosità del paese dell’infanzia[33].
È possibile uscire dal paese dell’infanzia quando è stato trasformato in un serbatoio di ricordi? Alcune asserzioni sono inquietanti: «Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo.» (Feria d’agosto). Tuttavia, Pavese si preoccupa di questa incapacità di uscire dai suoi «quattro tetti» (La Langa), come già espresso a Brancaleone (10 ottobre 1935): «Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione dell’immagine naturalmente rappresentata dai miei legami d’origine con l’ambiente.»[34] Sette anni dopo l’interrogativo non è mutato: M. di V., 10 feb. [42]: «Resta da vedere se, nei due campi, l’attivo e il creativo, devi limitarti a scavare e comprendere sempre più a fondo la realtà che ti è già data o se sia proficuo affrontare continuamente cose figure situazioni decisioni a te estranee, amorfe e dall’urto e dallo sforzo trarre un continuo potenziamento e incremento delle tue capacità.» Con una formula efficace, Pavese si domanda nello stesso passo se si debba vivere della propria rendita o accrescere il capitale… Di nuovo, nell’agosto del 1949, in procinto di scrivere La luna e i falò, in una sorta di autocritica Pavese annota nel suo articolo “L’arte di maturare”, che sarà pubblicato postumo: «Il secolo si è dimenticato che la genesi è soltanto un punto di partenza, che si nasce per vivere e invecchiare […]».
Di fatto, a partire dal 1942, anno in cui lo scrittore elabora – e potremmo dire, fissa – la sua teoria dell’infanzia mitica, «il più sicuro vivaio di simboli», le possibilità di «maturare» e di aprirsi a un universo nuovo si fanno più ridotte. Eppure, l’unico privilegio del ricordo di infanzia è di poter essere filtrato, decantato attraverso il lavoro della memoria, e visto nella sua realtà la seconda volta. In teoria quindi, «a qualunque età possiamo battezzare» (M. di V., 15 giugno [43]), termine curioso che Pavese usa per esprimere la scelta del «luogo unico» da parte di una sensibilità giovane o meno. Ma da nessuna parte viene esplicitato veramente che l’adulto conservi il potere di meravigliarsi attribuito da Pavese all’infanzia e che sia possibile «l’invenzione di nuovi paesaggi» (“L’adolescenza” in Feria d’agosto). L’opera smentisce questa riflessione? I tentativi di uscire dalla vena piemontese esistono, alcuni dei quali imposti dal «destino»: la scrittura de Il carcere corrisponde al confino in Calabria,ed è l’unico romanzo dell’esilio. Altrove, con una scelta deliberata, il paesaggio piemontese funge da contrappunto a una realtà altra, la costa ligure ne La spiaggia, Roma ne Il compagno, dove Pavese ha abitato durante il temporaneo trasferimento delle edizioni Einaudi (da gennaio a luglio 1943), la costa californiana ne La luna e i falò (l’unico paesaggio immaginario dei romanzi di Pavese). Gli stessi protagonisti sono qualche volta leggermente decentrati: il narratore de Il diavolo sulle colline, che proviene da una campagna «di oche e orti irrigui», vede le colline come una scoperta. Ma lo sforzo più grande dello scrittore rimarrà probabilmente il fare del protagonista de La luna e i falò (1950), un bastardo, un uomo senza radici. «Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”», dicono le prime righe del romanzo, sorta di decalco negativo dell’incipit del racconto “La Langa”. L’autore, per una volta, tenta di rompere con i vincoli di sangue, ma quelli della terra[35] rimangono alla fine immutati, visto che l’infanzia del personaggio è vissuta nell’eterna geografia pavesiana, mai stata così topograficamente presente: «I nomi cadenzano la pagina come le voci di un rito litanico.»[36]
Queste pagine non piemontesi sono state lette dai critici in modo diverso, a volte perfino discordante. A nostro avviso, l’unica elaborazione del tutto riuscita delle pagine esogene si trova ne Il carcere, come se odiare un paesaggio fosse anche un modo di sceglierlo. Oltre al mare, che aureola il romanzo del confino con la sua presenza ostile, la vegetazione della Calabria, rappresentata principalmente dai fichi d’India, si impone secondo lo stile tipicamente pavesiano, con una resa realistica aperta questa volta verso la metaforizzazione e non verso il simbolo[37]. La terra arida produce inspiegabilmente una sostanza grassa e velenosa, alleanza contro natura fra mondo vegetale e mondo animale che sfocia in una proliferazione oscena. «Erano atroci quelle siepi grasse, ammassate carnosamente come se l’aridità di quella terra non conoscesse altro verde, e quei fichi giallicci che incoronavano le foglie fossero davvero brandelli di carne.»[38] Tutta l’amarezza della vita, del paesaggio si identifica con le spine dei frutti che avvelenano il narratore con una linfa simile al liquido seminale. «Pensò che forse da mesi la salsedine, i fichi, i succhi di quella terra gli mordevano il sangue tirandolo a sé.» Se ci si abbandona al solo piacere del testo, sembra difficile trovare nell’episodio romano de Il compagno una pagina che abbia un fascino paragonabile a quelle dell’atmosfera piemontese. Ma le differenze spesso si attenuano: «Tutti i paesi visti sotto una collina sono uguali.» (Cap. XII) Il compagno rappresenta, nonostante tutto, il tentativo commovente di liberarsi da un paesaggio cambiando ideologia. Come è noto, i Dialoghi con Leucò sono frutto del soggiorno romano, e il segno della loro “estraneità” si può ravvisare nella risposta del mendicante a Edipo, ossimorica per una sensibilità pavesiana: «Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia»[39]. Quanto all’evocazione, nel capitolo XI de La luna e i falò, della notte passata in un deserto, probabilmente californiano, sembra assolutamente artificiale: Pavese, grande estimatore e traduttore di romanzi americani, non poteva ricreare niente di efficace sulla base di una conoscenza puramente libresca.
In qualche modo Pavese è sempre prigioniero di due immagini, quella delle radici («innumerevoli segrete radichette di riferimenti che danno il sangue e la vita alle creazioni» (M. di V., 10 febbraio 1942), e quella dello «stampo», tutte e due immancabilmente legate al paese dell’infanzia[40]. Il testo de “L’adolescenza”, che sembra anticipare la possibilità di una «invenzione di paesaggi» in età matura («età ben più provetta»), e parla di «nuove ammirazioni», resta del tutto ambiguo poiché si potrebbe giungere a tali scoperte «portando alla luce con sforzo gli stampi istintivi del suo essere», ipotesi subito smentita da Pavese, che aggiunge: «Ma questo accade di rado.» Sembra di assistere ancora una volta a una predeterminazione che ostacola qualsiasi possibilità di rinnovamento, dando all’ultimo testo di Pavese, La luna e i falò, l’apparenza di un rimuginio di cui l’autore aveva fatto in parte la sua estetica: «narrare è monotono»[41].
Pensiamo a Leopardi a Firenze, nel luglio del 1827. Il poeta si rende conto che «l’assuefazione» non è solo cosa dell’infanzia e che in qualsiasi età c’è una possibilità di «naturalizzazione»[42], per il solo «successo di tempo». Ravvisiamo qui una sorprendente uscita dall’infanzia, o piuttosto la possibilità di un’infanzia ritrovata, di una rinascita attuata nell’alveo di una sedimentazione temporale. «Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento e affezionato a qualunque luogo. Colla rimembranza egli mi diveniva quasi il luogo natio.» Fu meno arduo lasciare il «borgo selvaggio», Recanati, che, per il Piemontese, Santo Stefano Belbo.
Muriel Gallot, Pavese : paese et paesaggio, in “Chroniques italiennes”, spécial Pavese, 68 (2001), pp. 62-76.
Per gentile concessione di Muriel Gallot.
Traduzione dal francese di Tiziana Camerani.
[1] Il poeta è l’uomo che parla al posto di tutto ciò che tace intorno a lui… Non sarebbe possibile comprendere Virgilio senza la Lombardia, Rembrandt senza il Centrum di Amsterdam, Edgar Poe senza le inquietanti, funeree paludi della Carolina… Ho chiamato Verlaine il figlio dell’ardesia e delle Ardenne […]
[2] Le citazioni qui presentate sono tratte dall’edizione del 1990 de Il Mestiere di vivere, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi.
[3] «Come potete parlarmi d’ispirazione in terra d’esilio.» Lettera a Mario Sturani, 20 settembre 1935, in Lettere (1924-1944), a cura di L. Mondo, Torino, Einaudi, 1966.
[4] Zibaldone, II: 1828, (3 ottobre 1821).
[5] C. Pavese, Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2000, p. 346.
[6] Tutti i romanzi, ibid., p. 594. Il mare, tuttavia, non è mai completamente assente dall’opera di Pavese, «vivaio d’immagini poetiche» (Gioanola), purché sia una realtà sognata e irraggiungibile. Può esistere soltanto come “oltre”, desiderio dell’altrove, impossibile da descrivere perché sempre virtuale: «Mi bastava sapere che il mare c’era dietro discese e paesi, e pensarci camminando dietro le siepi.» Cfr. “Il Mare”, Feria d’agosto, Milano, A. Mondadori, 1961, p. 88. Ne Il compagno a Ostia si incontrano esempi del tutto diversi, in un ambito di rinnovamento morale.
[7] Tutti i romanzi, Ibid., p. 95.
[8] Ibid, p. 783.
[9] Pavese a Gressoney, in un paesaggio montano, prova esattamente la stessa reazione che comunica a Fernanda Pivano in una lettera del 30 agosto 1942: «Ora io non ho ricordi di questi luoghi, di questa natura, di questa realtà : per me è un mondo gratuito, vuoto, ogget-tivo come persona veduta per la prima volta. È evidente che non ho nulla da dire su di esso.»
[10] Vedi la bella definizione di René-Louis de Girardin, artefice del parco di Ermenonville, dove fece collocare la tomba di Rousseau: «Le long des grands chemins, et même dans les tableaux des artistes médiocres, on ne voit que des pays ; mais un paysage, une scène poé-tique est une situation choisie ou créée par le goût et le sentiment. » [Lungo le strade maestre, e anche nei quadri degli artisti mediocri, si vedono null’altro che paesi; ma un paesaggio, una scena poetica è una situazione scelta o creata dal gusto e dal sentimento.] De la composition des paysages, ou des moyens d’embellir la nature autour des habitations, Genève-Paris, 1777, poi Éd. du Champ urbain, 1979, p. 55.
[11] «Così ognuno di noi possiede una mitologia personale […] che dà valore, un valore assoluto al suo mondo remoto e gli riveste povere cose del passato con un ambiguo e se-ducente lucore dove pare come un simbolo riassumersi il senso di tutta una vita.» “Saggi letterari”, Torino, Einaudi, p. 271.
[12] «Mi piacevano i luoghi ristretti che avevano una forma e un senso.» Il diavolo sulle colline, op. cit., p. 594.
[13] L’espressione è tratta da Montaigne (III 5), in un contesto completamente diverso e di segno negativo: «Je naturaliserais l’art autant comme ils artialisent la nature.» [Io naturalizzerei l’arte come loro artializzano la natura] Cfr. al riguardo l’opera collettiva, Mort du paysage? Philosophie et esthétique du paysage, diretta da Fr. Dagognet, Champ Vallon, 1982, p. 96.
[14] Citato nelle note de Il mestiere di vivere, op. cit., p. 442.
[15] Vedi la testimonianza di Tullio Pinelli in Biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi, a cura di F. Vaccaneo, Torino, Gribaudo, 1989, p. 33.
[16] «Anni e anni prima che lui si sposasse, avevamo fatto, a piedi e col sacco il giro di tutta la regione, noi soli, spensierati e pronti a tutto.» op. cit., p. 96. La citazione ricorda il modo di viaggiare di Goethe e Nietzsche. Vedi sul tema del Wanderer: Jean Lacoste, Voyager avec Friedrich Nietzsche, L’éternel départ, éd. Louis Vuitton, 2014. “Nur wo du zu Fuß warst, bist du auch wirklich gewesen.” [Sei stato davvero in un posto solo se ci sei stato a piedi] (Goethe).
[17] Ibid, p. 584.
[18] Il diavolo sulle colline, op. cit., p. 609. Cfr. anche la lettera del 25 giugno 1942: «È come quando stesi nel prato, si guarda l’erba: chiude il cielo e sembra una foresta.»
[19] Op. cit., p. 620.
[20] «On comprend que l’océan, relique menaçante du déluge, ait pu inspirer de l’horreur, tout comme la montagne, autre trace chaotique de la catastrophe, « pudenda de la Nature », déplaisante et agressive verrue poussée à la surface des nouveaux continents. » In A. Corbin, Le territoire du vide (L’Occident, et le désir du rivage, 1750-1840), Aubier, 1988, p. 16. [È comprensibile che l’oceano, minacciosa reliquia del diluvio, abbia potuto ispirare orrore al pari della montagna, altra traccia caotica della catastrofe, «pudenda della Natura», sgradevole e aggressiva verruca spinta alla superficie dai nuovi continenti.]
[21] Op. cit., p. 369.
[22] Ibid., p. 620. Si può fare riferimento ai tre tipi di paesaggio analizzati da A. Musumeci ne L’impossibile ritorno, Ravenna, Longo ed., 1980, “Diagnosi della collina”.
[23] La luna e i falò, op. cit., p. 812.
[24] Ibid., p. 804.
[25] Ibid., p. 848.
[26] Ibid., p. 637. Piero Camporesi scrive: «Vista dagli stranieri come la più bella parte, la più ricca e la più civile che ritrovar si possa, l’Italia era percepita dai suoi abitanti come organismo produttivo e fertile terra di lavoro.» Le belle contrade, nascita del paesaggio italiano, Milano, Garzanti, 1992, p. 79.
[27] B. Van Den Bossche analizza la ricchezza ma anche la confusione di questa terminologia nel suo libro, «Nulla è veramente accaduto» – Strategie discorsive del mito nell’opera di Cesare Pavese, Firenze, Franco Cesati ed., 2001.
[28] In A. Dughera, Tra le carte di Pavese, Roma, Bulzoni, 1992.
[29] Ricordiamo che Robbe-Grillet denunciava nel suo Manifeste pour un Nouveau Roman l’ossessione materna che imperversa nella letteratura di paesaggio, villaggi annidati in fondo alle valli, ecc… In una lettera del 22 giugno 1942, Pavese innalza il tono del testo con l’introduzione di elementi mitologici: «La grande collina mammella dovrebbe essere il corpo della dea, cui la notte di San Giovanni si potrebbero accendere i falò di stoppie e tributare culto. […] Il campo nudo e tremendo in vetta al colle più alto, desolato, di là dagli alberi e dalle case [sarebbe] una specie di altare dove scendono le nubi e si dànno ai loro connubî con i mortali più intelligenti.» Foscolo è uno degli ultimi (con D’Annunzio) ad aver maneggiato la mitologia con eleganza: ma era nato a Zante, da madre greca…
[30] La casa in collina, op. cit., p. 398.
[31] Ibid., p. 484.
[32] L’espressione, famosa, si trova in «Del mito, del simbolo e d’altro» (Feria d’agosto, 1946). È già presente nel Taccuino segreto, scritto fra il 1942 e la fine del 1943, in parte durante la Repubblica di Salò, in cui Pavese si rallegra del manifesto di Verona e della scelta fatta in gioventù – detestare la monarchia – che anticipava il futuro: «Nei pensieri dell’adolescenza, c’è già tutto: basta saperlo dedurre e ridurre a chiarezza.» Nello stesso passo, l’aver imparato il tedesco nel 1940 è interpretato come un destino, «Amor fati», cosa che lascia scettici sul potere chiarificatore di Pavese in quel periodo. (Pubblicato da L. Mondo, ne La Stampa, 8 agosto 1990.)
[33] G. Bàrberi-Squarotti, nel suo articolo “Pavese, o la fuga nella metafora”, analizza gli effetti nefasti di una scrittura simbolica che conduce alla «genericità» e alla «sentenziosità». Ma sarebbe meglio parlare di «linguaggio simbolizzante» piuttosto che di «metaforizzazione del discorso», poiché Pavese ha sempre privilegiato il simbolo, con il suo pesante carico normativo, e non tratta mai della metafora, probabilmente per il rapporto di quest’ultima con il viaggio, con il trasporto (metaphora), nulla di più ripugnante per lo spirito dello scrittore torinese. In Sigma, «Pavese», n. 3/4, dicembre 1964, Silva ed. «Noi abbiamo nulla in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri», scrive nella prefazione ai Dialoghi con Leucò.
[34] Olivier Rolin (autore di Paysages originels, Seuil, 1999), scrive: «Les paysages originels, ce sont les espaces sentimentaux par quoi nous sommes attachés au monde, les isthmes de la mémoire : mais l’écriture aspire aussi d’être de nulle part, et d’être ou-blieuse. » Le Monde, 30 agosto 1999. [I paesaggi originali sono gli spazi sentimentali con cui siamo legati al mondo, gli istmi della memoria: ma la scrittura aspira anche a non avere radici, e a dimenticare]
[35] Nel 1943, sempre nel Taccuino segreto, Pavese riprende con interesse la famosa espressione tedesca «Blut und Boden» (sangue e terra), per definire «il destino di un popolo di cui [fa] parte.»
[36] E. Gioanola, Cesare Pavese, La poetica dell’essere, Milano, Marzorati, 1971, p. 374.
[37] Si potrebbe anche citare l’ulivo del racconto La spiaggia, immagine della permanenza della terra accanto al paesaggio friabile della spiaggia, che non diventa mai simbolico, perché non appartiene all’infanzia.
[38] Op. cit., p. 334.
[39] «La strada»; cfr. L. Mondo, Cesare Pavese, Milano, Mursia, 1961, p. 81.
[40] Viene in mente la bella formula di Olivier Rolin: «Aucune œuvre digne de ce nom ne se laisse enfermer dans un déterminisme du terroir. Être enraciné, laissons cela aux betteraves.» Le Monde, op. cit. [Nessuna opera degna di questo nome si lascia rinchiudere in un determinismo del territorio. Avere radici è cosa da lasciare alle barbabietole.]
[41] Infatti Nuto, sorta di eroe positivo, ha le stesse caratteristiche di Amelio e Gino Scarpa de Il compagno, mentre Cinto potrebbe essere un Dino storpiato e alcune pagine della vita delle signorine a La Mora appartengono a un corpus diventato classico dopo le migliori pagine di Verga, e perfino di Fogazzaro.
[42] «Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno, o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, fintantoché io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case ch’io frequentava.» (II: 4 287).
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