La filosofia nasce in Grecia, dice Maria Zambrano, in quell’istante in cui una rosea luce d’alba comincia a rischiarare il paesaggio di ulivi selvatici, mirti e cipressi: la timida luce, priva di violenza, che trionfa sulle tenebre con il suo semplice mostrarsi. È da questo chiarore che sono apparsi, tersi e allo stesso tempo opachi, come se fossero fatti anche di materia umana, gli dèi omerici. Il sole, divinizzato come un monarca assoluto, si affermerà più tardi, imponendo un ordine rigoroso alla Terra. Di questa luce d’alba è figlia l’idea di physis.
Il modo migliore per tradurre physis è «natura». Ma nel pensiero di Eraclito e dei primi filosofi greci la physis non è quello che la natura è per noi, ovvero tutto ciò che non appartiene alla sfera dell’umano, alberi, animali, acqua o vento… La physis è molto di più. È l’essere e il movimento. È tutto ciò che cresce e si manifesta nel tempo. L’immagine che lo esprime in modo più trasparente è un fiore che si schiude, fa irruzione sulla scena del mondo dispiegandosi nello spazio, poi appassisce e infine scompare. La physis comprende ciò che noi chiamiamo «natura» ma anche gli uomini e le stesse divinità. E nel contempo i sogni, le idee, il possibile, il visibile come l’invisibile, le cose assenti insieme a quelle presenti. In una parola, la vita.
La physis non è quindi molto lontana da quello che in Cina era chiamato tao: la via, il flusso ininterrotto che scorre in ogni cosa presente nell’universo, principio e fine, e al di fuori del quale nulla può esistere.
*
I saggi taoisti, già diversi secoli prima di Cristo, avevano messo in guardia: l’uomo porta sempre in sé la tentazione di vedersi al di fuori del mondo vivente, rischiando sempre di smarrirsi. Occorre resistere alla presunzione dell’io, abbandonarsi al flusso di vita per restare nella virtù.
Sappiamo che le cose sono andate diversamente. La storia dell’Occidente è la storia del nostro allontanamento progressivo dal nostro ambiente. La tradizione giudaico-cristiana pone i figli di Dio al di sopra, e quindi fuori, della natura. Nel mondo romano l’uomo già non appartiene più a quel kosmos che per Pitagora era «ordine» e «bellezza», e la parola latina «natura» designa il mondo del non-umano: quel mondo colmo di misteri da spiegare che va padroneggiato e che finirà per diventare, nella modernità, oggetto. E forse non poteva andare diversamente: il mondo della physis l’umanità lo ha lasciato alle sue spalle, come fa ognuno di noi con la propria infanzia, dimenticando il primo semplice stupore di fronte ai fenomeni e al meraviglioso.
Ma se i primi filosofi greci avevano ragione; se, malgrado la polarità natura/cultura sulla quale abbiamo fondato la nostra concezione e il nostro uso del mondo, non siamo che creature della physis, è da noi stessi che abbiamo finito per separarci.
L’individuo moderno, smarrito nel labirinto della sua stessa mente, senza più riferimenti in un universo ormai privo di frontiere, condannato a cercarsi e a definire senza sosta il proprio posto nel mondo, è il prodotto finale di questo sradicamento. La parte più profonda di lui, quella che egli vede ancora, non senza imbarazzo, come natura, cioè la vita del corpo e il suo puro esistere animale, resta muta. Se si esprime lo fa con suoni inarticolati, come ogni animale ferito. Lamenti che incutono paura perché ad ogni istante minacciano di trasformarsi in grido.
Così, alienati dalla natura di cui siamo diventati «padroni e possessori», come voleva Cartesio, abbiamo perduto quella capacità di abitare poeticamente la Terra di cui parla Hölderlin in una celebre poesia. E cosa vuol dire abitare poeticamente se non rispondere con creatività alla creatività costante della vita; accettare il mistero dell’esistenza non come limite ma come apertura, come promessa; riscoprire il nostro appartenere al mondo, al visibile e all’invisibile, e il nostro essere radicati nel suolo, anche se con la testa tra le nuvole, non molto diversamente dagli alberi. E provare, comme suggerì l’ecologo Aldo Leopold, a «pensare come una montagna».
*
Ecco che si delinea allora la nostalgia moderna delle origini, il ricordo di un tempo, sogno o realtà, in cui gli esseri umani vivevano in armonia con il cosmo che come una matrice li conteneva: l’Eden perduto per peccato d’orgoglio, l’Età dell’oro, l’infanzia felice, il bosco delle origini…
Per William Wordsworth – il poeta che sognava di ridiventare «un pagano nutrito di religioni antiche» – occorreva abbandonarsi alle suggestioni della natura per ritrovare il proprio posto nel flusso vitale del cosmo:
Udivo mille note confuse fra di loro,
mentre in un bosco stavo sdraiato,
in quel dolce umore quando gradevoli pensieri
portano tristi pensieri alla mente.
Alle sue belle opere la Natura univa
l’anima umana che scorreva in me;
e il mio cuore si affliggeva pensando
a ciò che l’uomo ha fatto dell’uomo.
Perché l’unità ritrovata con la natura non dura. I pensieri e i sentimenti che suscita il bosco, capaci di curare corpo e anima, conducono inevitabilmente alla malinconia. L’innocenza è perduta per sempre e il felice paganesimo dei tempi antichi è da troppo tempo alle nostre spalle. Nulla, dice il poeta, può riportare «l’ora di splendore nell’erba». Non restano allora che questi preziosi istanti in cui il bosco si è fatto musica o quelli in cui c’è stata poesia, come un risorgere momentaneo della natura in noi.
*
L’ecologia riapre oggi la questione del nostro posto nel cosmo presentandola come emergenza, una crisi che esige una risposta da ognuno di noi. Ma invano tentiamo di reagire al naufragio ambientale utilizzando in modo più parsimonioso le «risorse naturali», preservando spazi di natura incontaminata o cercando di rimediare tecnologicamente agli squilibri che grazie alla tecnologia continuiamo a introdurre nel mondo.
Invano, perché l’unica risposta possibile sarebbe tornare ad abitare poeticamente la Terra: ritrovare il nostro posto in seno al vasto ecosistema che è la realtà in cui siamo immersi, la sola veramente nostra. E ristabilire un sentimento di fratellanza con tutto ciò che vive su questa Terra, sull’esempio del monaco zen Ryo¯kan o, più vicino a noi, Francesco, il santo che conosceva la lingua degli animali, delle piante e persino quella del fuoco o dell’acqua.
Questo ci offre il giardino. Un ritorno al mondo incantato della physis. La possibilità di abitare la Terra con umiltà, come suoi figli, affidando alle piante, all’acqua e agli animali la cura dell’anima mutilata. Una poiesis: un agire poetico.
Tratto da: Marco Martella, Tornare al giardino, Ponte delle Grazie editore