Claude Lévi-Strauss non voleva accordare un’intervista che riassumesse la sua carriera e il suo pensiero, ma, in occasione dell’Anno del Brasile in Francia, che comincerà in marzo, voleva tornare sul suo rapporto con il «Paese dal legno color brace». Con estrema cortesia, ci riceve nella sua biblioteca, in abito scuro e cravatta con nodo metallico ornato di motivi indigeni – «un banale artigianato», dice. Fra i volumi rilegati, un totem dell’Oceania, molti oggetti asiatici, un rotolo di preghiere tibetane.
Dal 1935, ha insegnato sociologia proprio all’Università di San Paolo. Cosa significa per lei oggi il Brasile?
«Rappresenta l’esperienza più importante della mia vita: per la lontananza e il contrasto, ma anche perché ha determinato la mia carriera. Mi sento profondamente in debito verso questo Paese. L’ho lasciato all’inizio del 1939 e l’ho rivisto solo nel 1985, quando ho accompagnato il presidente Mitterrand in una visita ufficiale di cinque giorni. Sebbene brevissimo, quel viaggio ha suscitato dentro di me una vera e propria rivoluzione mentale: il Brasile era diventato interamente, totalmente, un altro Paese. La città di San Paolo, che avevo conosciuto quando raggiungeva a stento un milione di abitanti, ne contava già più di dieci milioni. Le tracce e le orme dell’epoca coloniale erano scomparse. Era diventata una città spaventosa, con chilometri di torri. Avevo deciso di rivedere, non tanto la casa dove avevo abitato – che probabilmente non esisteva più -, ma almeno la strada che avevo percorso per anni. Invece, ho passato la mattinata bloccato nel traffico senza potervi arrivare».
È tornato dai suoi amici, gli indiani Caduveos, Bororó o Nambicuara che aveva studiato in Brasile?
«Nel 1985 Brasilia era una delle tappe del viaggio presidenziale. Il quotidiano O Estrado de Sao Paulo mi ha proposto di riportarmi presso i Bororó, un viaggio che nel 1935 m’era costato molta fatica ma che, in aereo, si poteva fare in qualche ora. Un mattino siamo quindi saliti su un piccolo aereo che poteva portare solo tre passeggeri: mia moglie, una collega brasiliana ed io. L’aereo ha sorvolato i territori Bororó, e abbiamo addirittura potuto scorgere alcuni villaggi con ancora le loro strutture circolari, ma ciascuno dotato, adesso, di un terreno d’atterraggio. Dopo averli sorvolati, il pilota ci ha detto: potrei atterrare, ma le piste sono così corte che forse non potrei ripartire! Abbiamo quindi rinunciato e siamo rientrati a Brasilia, attraversando un temporale spaventoso. Ho pensato che mai la nostra vita era stata così esposta al rischio, neanche all’epoca delle mie spedizioni. Tutto questo mostrava quanto il Paese fosse cambiato. Quindi, non ho rivisto i Bororó in carne ed ossa, ma il loro territorio; ho sorvolato quel Rio Vermelho, un affluente del fiume Paraguay, che avevo impiegato parecchi giorni a risalire in piroga e che, adesso, era costeggiato da una strada asfaltata».
Si può essere segnati fisicamente e per sempre da un Paese?
«Sicuramente. Come le dicevo, quello che mi ha colpito di più arrivando in Brasile è stata la natura, come la si poteva ancora contemplare sulle pendici della Serra do Mar; poi, quando ho potuto addentrarmi nell’interno, di nuovo, fu una natura così totalmente diversa da quella che avevo conosciuto… Ma esiste anche una dimensione alla quale non sempre prestiamo attenzione e che per me è stata capitale: quella del fenomeno urbano. Quando sono arrivato a San Paolo si diceva che veniva costruita una casa all’ora. E c’era una compagnia britannica che, da quattro o cinque anni soltanto, apriva i territori ad ovest dello Stato di San Paolo. Costruiva una linea ferroviaria e pianificava una città ogni 15 chilometri. Nella prima, la più antica, c’erano 15 mila abitanti, nella seconda cinquemila, nella terza mille, poi 90, poi 40 e, nella più recente, uno soltanto, un francese. In quel periodo, uno dei grandi privilegi del Brasile era di poter assistere, in modo quasi sperimentale, alla formazione di quel fantastico fenomeno umano che è una città. Da noi, la città è il risultato talvolta di una decisione dello Stato, ma soprattutto di milioni di piccole iniziative individuali prese nel corso dei secoli. Nel Brasile degli anni Trenta, tale processo era più breve, si verificava in qualche anno. Certo, poiché praticavo l’etnografia, gli indiani sono stati per me essenziali, ma questa esperienza urbana ha contato molto; un Brasile e l’altro coabitavano, però a debita distanza. Quando sono andato verso il Mato Grosso per la prima volta, Brasilia non esisteva ancora, ma c’era già stato un primo tentativo di creare una città dal nulla, Gioiania, che non è andato in porto. L’altopiano centrale, il Planalto, è magnifico: lì il cielo attrae più d’ogni cosa».
Mario de Andrade aveva immaginato con molto umorismo Macunaïma, un indiano Tapanhuma d’Amazzonia bugiardo e pigro: diventato con il matrimonio imperatore della foresta vergine, sbarcò nella città di San Paolo per recuperare un amuleto prima d’essere trasformato in costellazione, la Grande Orsa. Questo spirito indigeno, questo legame fra città, foresta e mito perdura ancora? Ha seguito la sua evoluzione?
«Seguo l’evoluzione degli indigeni, che allora avevo studiato regolarmente, con il pensiero, e grazie a colleghi molto più giovani di me, come quelli dell’università di Cuiaba, nel Mato Grosso, che fra l’altro lavorano presso i Nambicuara. Mi scrivono e mi mandano i loro lavori. Questi popoli hanno subito sofferenze terribili. Sono stati più o meno sterminati, al punto che solo il 5 o il 10 per cento della popolazione originale era sopravvissuta. Ma quel che accade oggi è d’immenso interesse. Questi popoli si sono messi in contatto fra loro. Ormai sanno quello che per lungo tempo hanno ignorato: non sono più soli sulla scena dell’universo. Sanno che in Nuova Zelanda, in Australia o in Melanesia esistono individui che, in epoche diverse, hanno attraversato le loro stesse difficoltà. Sono consapevoli della loro comune posizione nel mondo. Beninteso, l’etnografia non sarà mai più quella che ho ancora potuto praticare ai miei tempi, quando si trattava di ritrovare testimonianze di credenze, di formazioni sociali, d’istituzioni nate in completo isolamento rispetto alle nostre, che dunque costituivano un apporto insostituibile al patrimonio dell’umanità. Adesso siamo, per così dire, in un regime di “mutua compenetrazione”. Andiamo verso una civiltà su scala mondiale, dove probabilmente appariranno certe differenze. Perlomeno, lo speriamo. Differenze che non saranno più le stesse, saranno interne e non più esterne».
La rapidità di spostamento, la velocità di propagazione delle culture, la comunicazione sono fattori determinanti…
«Una volta, con i miei colleghi prendevamo cargo misti che, dopo molti scali, impiegavano diciannove giorni per arrivare in Sud America, fermandosi lungo le coste spagnole, algerine, africane. Del resto, dell’Africa conosco soltanto i luoghi dove abbiamo sostato all’andata e al ritorno dal Brasile».
La fotografia, che lei ha praticato come testimoniano i suoi numerosi cliché pubblicati, può fissare questi mondi perduti?
«Non ho mai dato grande importanza alla fotografia. Fotografavo perché era necessario, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo, una perdita d’attenzione. Eppure, da adolescente, ho amato la fotografia. Mio padre faceva il pittore e si occupava molto di fotografia. Per me, è un mestiere a parte. Il mio, è stato un lavoro da fotografo di livello zero. Nel 1994, ho pubblicato un libro di foto, Saudades do Brasil , che si può tradurre “Nostalgia del Brasile”, perché sollecitato. L’editore ha scelto, fra tanti altri, un po’ meno di duecento cliché. Durante la prima spedizione presso i Bororó, mi ero portato una piccolissima cinepresa. Mi è capitato ogni tanto di premere il bottone e di riprendere qualche immagine, ma ben presto ne sono rimasto disgustato perché, con l’occhio dietro all’obbiettivo, non si vede cosa accade e ancor meno si capisce. Ne sono rimasti spezzoni che in totale corrispondono a un’ora di film. Sono stati ritrovati in Brasile, dove li avevo abbandonati, e una volta sono stati mostrati al Beaubourg. Devo confessarle che i film etnologici mi annoiano enormemente».
Lei è un melomane. Mitologiche comincia con un’ouverture e si conclude su un finale. Il Crudo e il cotto , il primo dei quattro volumi di Mitologiche , comincia con il racconto di un canto Bororó, il motivo dello scopritore d’uccelli. Ha analizzato la loro musica?
«No, non sono un etnomusicologo; non ho studiato i loro canti. A volte mi hanno colpito, altre commosso. Una delle mie prime emozioni risale alle cerimonie in occasione del mio arrivo presso i Bororó. Accompagnavano i loro canti agitando certi gingilli con un virtuosismo simile a quello di un grande direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Mesi fa ho ricevuto la visita di due indiani Bororó in compagnia di due ricercatori dell’università di Campo Grande del Mato Grosso, dove insegnano. Di loro iniziativa, hanno voluto, nel mio ufficio al Collège de France, cantare e danzare. Ed ecco, appunto, uno dei paradossi in cui viviamo: quei colleghi Bororó conservavano in tutta la loro freschezza e autenticità canti e musiche che avevo udito settant’anni prima. Era veramente commovente. Detto questo, la musica è il più grande mistero con il quale ci confrontiamo. Ai miei tempi, la musica popolare brasiliana era molto gradevole».
Cosa può dirmi sul futuro?
«Non me lo chieda. Siamo in un mondo al quale già sento di non appartenere. Quello che ho conosciuto, che ho amato, aveva un miliardo e mezzo d’abitanti. Il mondo attuale ne conta sei. Non è più il mio. E quello di domani, con nove miliardi di uomini e donne – anche se ci assicurano, per consolarci, che si tratterà del punto più alto della parabola – mi proibisce di fare qualsiasi predizione».
Tratto da: VERONIQUE MORTAIGNE, Le Monde – The New York Times Syndicate – Agenzia Volpe, Traduzione di Daniela Maggioni.
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