Di fatto, i semi offrirono ai primi esseri umani il nutrimento e al tempo stesso l’ispirazione per ridisegnare il mondo naturale in base alle loro esigenze. Diecimila turbolenti anni di civilizzazione si sono dispiegati dal lieve sonno del seme.
Harold McGee, McGee on Food and Cooking, 2004.
Avere un’infarinatura in materia di semi può essere una cosa deliziosa. Stanchi della haute cuisine? Provate la oat cuisine, la cucina a base di avena. Conoscere le proprietà dei semi che utilizzate come ingredienti vi permetterà di preparare saporito pane di grano o di granoturco, inventare insalate nutrienti, cuocere alla perfezione riso, fagioli e lenticchie e capire perché i popcorn scoppiettano o l’erba medica (alfalfa) germoglia. I semi sono stati progettati dall’evoluzione come magazzini di riserve nutritive per le piantine giovani: ecco la chiave per comprendere tutte le proprietà che hanno in qualità di cibo per gli esseri umani. Possono essere conservati così facilmente senza deteriorarsi proprio perché sono concentrati di energia stoccata sotto forma di amido o grasso; perché spesso hanno un alto contenuto proteico; e anche perché spesso si difendono con sostanze velenose o repellenti. La scienza della cucina con i semi è una grande campagna basata su una scaltra «reinterpretazione» dei doni che una pianta madre fa alla sua progenie. È un intelligente atto di saccheggio e pirateria.
E sottolineo intelligente. Sugli effetti nutritivi dei semi sono state dette fandonie di ogni genere. Tra le mie preferite c’è quella dell’inventore dei Graham, i primi cracker integrali; il reverendo Sylvester Graham era convinto che la sua ricetta a base di farina integrale avrebbe contribuito ad affievolire il desiderio sessuale tra i suoi fedeli.188 Una vera cracker-tinata, ma innocua. Non altrettanto innocua fu la «dieta macrobiotica» che diventò un vero e proprio culto nell’America del Nord negli anni sessanta del XX secolo. I macrobiotici seguivano un regime strutturato in dieci passi che eliminava gradualmente sempre più alimenti dalla dieta finché, nell’ultima fase, le uniche cose concesse erano riso integrale, sale e tisane. Furono in pochi a raggiungere quest’ultimo stadio, e alcuni di loro morirono di denutrizione.
Come per molte mode alimentari, c’è un chicco di verità nell’efficacia di una dieta basata su cereali integrali. Studi medici su vasta scala hanno dimostrato che chi include nella propria dieta una quantità significativa di cereali integrali è assai meno esposto al rischio di disturbi cardiovascolari.190 Il dottor Sylvester Graham sicuramente ci sarebbe rimasto male scoprendo che i benefici cardiovascolari dei cereali integrali implicano che puoi fare più sesso, non meno. All’interno di una dieta bilanciata, un maggior consumo di cibi integrali come riso selvaggio, popcorn, avena, riso integrale, orzo e pane integrale è senz’altro benefico.
Ma esaminiamo più nel dettaglio questa oat cuisine. Nel primo dizionario della lingua inglese, pubblicato nel 1755, il suo compilatore, il dottor Samuel Johnson, così definiva l’avena: «Cereale che in Inghilterra viene in genere dato in pasto ai cavalli, ma che in Scozia pare sia impiegato come alimento primario per le persone». Dato che il dottor Johnson è famoso anche per aver dichiarato che «la più nobile prospettiva che uno scozzese potrà mai scorgere è l’eccelsa strada verso l’Inghilterra», le sue opinioni, proprio come il porridge, andrebbero prese cum grano salis . Da un punto di vista pratico, l’avena (Avena sativa) ha più di una virtù: resiste al clima umido dell’Europa nordoccidentale e i suoi semi hanno un notevole valore nutritivo, essendo costituiti per circa il 15 per cento di proteine e per l’8 per cento di grassi. Come dichiara il poeta scozzese Robert (Rabbie) Burns, il porridge d’avena è il «re dei cibi scozzesi». Per fortuna i tempi di Burns — quando la povertà nelle aree rurali costringeva molti abitanti delle Highlands a cibarsi soltanto di porridge acquoso — sono ormai lontani. Oggi possiamo apprezzare le qualità culinarie e nutritive dell’avena senza essere schiavi della miseria o del pregiudizio.
L’avena è una buona fonte di fibre alimentari solubili, che hanno molti effetti benefici sulla salute, tra i quali un abbassamento del rischio di coronaropatie e della più diffusa forma di diabete (di tipo 2). Tali fibre conferiscono al porridge d’avena quella consistenza densa e cremosa tanto apprezzata dagli intenditori; vengono anche utilizzate come addensante per zuppe e stufati. Queste proprietà dell’avena derivano dai carboidrati non digeribili che assorbono l’acqua, i beta-glucani: si concentrano nello strato (detto aleurone) posto immediatamente sotto la buccia (tegumento) che avvolge il seme. La funzione naturale dei beta-glucani è assorbire e immagazzinare acqua quando il seme germina: noi esseri umani li rubiamo all’avena per sfruttarne le proprietà igroscopiche in cucina.
Ogni anno, a Carrbridge, nella contea di Inverness, in Scozia, i partecipanti al World Porridge-Making Championship si contendono il titolo di autore del miglior porridge del mondo e il premio finale, il Golden Spurtle (lo spurtle è lo strumento per mescolare il porridge, simile al nostro bastone da polenta). In realtà, la ricetta per ottenere un buon porridge non è poi così misteriosa. Lo si può preparare soltanto con farina d’avena e acqua e cuocerlo sul fuoco o nel microonde; se invece lo si vuole più cremoso, bisogna metterci il latte. La vera sfida sta nell’utilizzare farina d’avena integrale per creare qualcosa di diverso. Heston Blumenthal, chef e titolare del Fat Duck — eletto miglior ristorante del mondo nel 2005193 e insignito di tre stelle Michelin -, ha inventato il porridge di lumache, che è presto diventato uno dei suoi cavalli di battaglia. Su Internet potete trovarne la ricetta completa,194 ma l’elemento distintivo è l’uso del porridge d’avena al posto del riso in quello che altrimenti sarebbe un classico risotto con le lumache. Il porridge viene preparato con il brodo di cottura delle lumache; poi va mantecato con burro all’aglio, arricchito a sua volta con un battuto di funghi, scalogni, senape di Digione, mandorle macinate e prosciutto di Parma. A questo punto vanno aggiunte le lumache: in parte saranno sminuzzate e incorporate al porridge e in parte disposte sul piatto finito, insieme a un bello strato di prosciutto a straccetti e sottilissime fettine di finocchio condite con aceto e olio di noci. Sicuramente il dottor Johnson avrebbe fatto qualche commento icastico sul porridge di lumache, ma io che l’ho provato posso assicurarvi che di golden spurtles ne merita parecchi.
Nonostante i semi — che si sono evoluti per garantire nutrimento alle giovani piantine — costituiscano un alimento davvero salutare per gli animali, noi compresi, è molto difficile che riescano a soddisfarne tutte le esigenze nutrizionali. Otteniamo il massimo dai semi quando nella nostra dieta ne combiniamo specie diverse. Un’alimentazione basata esclusivamente sul granoturco o sui fagioli risulterebbe carente; ma se questi due elementi vengono combinati, si completano a vicenda in una partnership nutritiva che per millenni ha sfamato e sostenuto le civiltà mesopotamiche che per prime li domesticarono.
I cereali come frumento, riso e granoturco contengono tutti gli otto amminoacidi essenziali; ma due di essi (la lisina e la treonina) compaiono in una quantità insufficiente per la dieta umana. Legumi come fagioli di soia, piselli o lenticchie contengono percentuali adeguate di questi amminoacidi; ma in compenso sono poveri di cisteina e metionina, altri due amminoacidi. Dunque, un regime alimentare o un singolo pasto in cui si abbinino determinati cereali e legumi risulta bilanciato grazie alla complementarità dei loro amminoacidi. Molte cucine tradizionali hanno il loro modo peculiare di combinare cereali e legumi, consentendo anche alle fasce più povere della popolazione di cavarsela con poca o senza carne: fagioli e tortillas in Messico; riso e piselli nei Caraibi; hummus (una salsa cremosa a base di ceci e semi di sesamo) e pane pita in Medio Oriente; dal (lenticchie) e riso in India; ceci e couscous (a base di semola di grano) in Nordafrica; riso e tofu in Cina e Giappone.
Ma bisogna andarci piano prima di dare per scontato che gli alimenti che vanno bene per una cultura siano per forza adatti anche a un’altra. Per esempio, i vegani, che non consumano carne, rischiano una carenza di vitamina B12 che può avere conseguenze gravi. A metà degli anni settanta del XX secolo si osservò un’alta incidenza di anemia perniciosa (o megaloblastica) tra gli induisti di stretta osservanza che avevano vissuto per un certo periodo in Inghilterra: in India la medesima dieta vegana non aveva dato loro alcun problema.195 La causa fu attribuita a una carenza di vitamina B12 che in India non si era verificata grazie alla presenza di insetti nei cereali. I medesimi alimenti acquistati in Inghilterra, non essendo contaminati, non potevano fornire B12 di provenienza animale. In realtà, né gli animali né le piante sono in grado di produrla, perciò tutti gli animali ricavano la dose necessaria di questa vitamina essenziale direttamente o indirettamente dai batteri, gli unici organismi in grado di produrla.
Il motivo per cui un seme in grado di soddisfare le esigenze nutrizionali di una giovane piantina raramente può bastare a un qualsivoglia animale è che le piante, da un punto di vista nutritivo, sono molto più autosufficienti. Se possono contare su alcune sostanze basilari e sull’energia fornita da un seme o dal sole, sono in grado di produrre tutte le molecole complesse necessarie, compresi i venti amminoacidi richiesti per la costruzione delle proteine. Le piantine possono prepararsi da sole ciò che non trovano nel kit d’avviamento fornito dalla madre. Noi esseri umani, invece, possiamo produrre soltanto dodici di quei venti amminoacidi; ma per produrre questi dodici le nostre cellule hanno bisogno di quegli altri otto che non sono in grado di sintetizzare. Dunque dobbiamo ricavare dal cibo le tessere mancanti. In pratica, ogni tipo di carne è in grado di fornirceli, ma esiste un seme che contiene il pacchetto completo di quegli otto amminoacidi. È il seme della quinoa (Chenopodium quinoa), una pianta che appartiene alla stessa famiglia degli spinaci.
La quinoa fu domesticata sulle Ande circa settemila anni fa e costituiva l’alimento base degli inca. Un cibo così perfetto ha bisogno di proteggersi dagli animali, perciò non dovrebbe stupirci il fatto che molte varietà di semi di quinoa si difendano grazie alla presenza di sostanze dal sapore amaro nel rivestimento esterno. Tali sostanze possono essere rimosse lavando e strofinando per bene i semi in acqua fredda. Una volta disarmati, i minuscoli semi della quinoa possono essere cucinati come altri cereali più comuni (il riso, per esempio), fritti e mescolati a zuppe o insalate oppure fatti scoppiare per ottenere popcorn lillipuziani.
Le proprietà nutritive dei cibi si combinano con il loro sapore attraverso una relazione evolutiva così profonda da aver modellato la fisiologia e la psicologia della percezione del sapore. I cinque tipi di recettori del gusto presenti sulla nostra lingua ci avvertono se un cibo è potenzialmente commestibile o velenoso. Due diversi recettori riconoscono il sapore acido (aspro) e quello amaro, associati al cibo andato a male o velenoso; i recettori del salato, del dolce e dell’umami rimandano invece a cibi nutrienti. L’umami (termine giapponese che significa «saporito») è il sapore — simile a quello della carne — di alcuni amminoacidi, e si associa ad alimenti che contengono proteine. È soprattutto il glutammato monosodico (MsG) a stimolare i recettori per l’umami, ed è per questo che viene utilizzato come esaltatore di sapidità. L’MsG si trova in natura nella pasta di soia fermentata, da cui si ricavano il miso e la salsa di soia utilizzati per insaporire le pietanze cinesi e giapponesi. Tuttavia, il sapore è qualcosa che va ben al di là dei cinque gusti base che stimolano gli specifici recettori presenti sulla lingua.
Le sensazioni legate al sapore sono un raffinato mosaico che si viene a creare nel cervello grazie alla combinazione di input forniti da tutti e cinque i sensi. Proprio come i tre recettori del colore nella retina ci consentono di distinguere migliaia di colori, così il nostro senso del gusto può contare su un repertorio ben più vasto dei cinque sapori base, ovvero salato, acido, dolce, amaro e umami. Bisogna tener conto anche dell’esistenza delle centinaia di recettori olfattivi posti nel nostro naso. Se vi siete già accorti di come il sapore del cibo sembri diverso e insulso quando si ha il naso chiuso per il raffreddore, avrete già capito quanto il senso dell’olfatto sia importante anche per la percezione del sapore. Se volete fare un esperimento, provate ad assaggiare qualcosa tappandovi il naso: non arrivando aria nelle narici, l’aroma di ciò che avete in bocca non potrà raggiungere la parete superiore della cavità nasale, dove si trovano le cellule che fungono da recettori degli odori. Anche tenendovi il naso tappato, comunque, dovreste riuscire a percepire un sentore del salato, poiché va a stimolare uno dei cinque tipi di recettori presenti sulla lingua. Anche gli altri quattro sapori base risulteranno più o meno percepibili, ma altri — come la vaniglia, per esempio — non lo saranno.
Il colore, la sensazione del cibo nella bocca e perfino il suono che produce quando lo si mastica sono tutti fattori che influenzano la nostra percezione del sapore. La sensazione in bocca contribuisce parecchio alla soddisfazione che proviamo mangiando del cioccolato. Il grasso (burro di cacao) estratto dai semi di cacao utilizzati per prepararlo conferisce al cioccolato quella consistenza vellutata che tanto amiamo. Questa consistenza potrebbe indurre nel chocoholic — il cioccolato-dipendente — perfino più dipendenza dell’effetto farmacologico indotto dalla teobromina, un alcaloide (come la caffeina) presente nel cioccolato. Potete facilmente verificarlo da soli. La cioccolata liquida o il cacao in polvere zuccherato contengono tutti gli elementi farmacologici e gli zuccheri presenti in una tavoletta di cioccolato tranne il burro di cacao. Se vi viene una voglia spasmodica di cioccolato, provate a vedere se una cioccolata in tazza riesce a togliervela; oppure provate a mangiare del cioccolato bianco, che contiene lo zucchero e il burro di cacao ma non gli elementi farmacologici presenti in quello normale. Esperimenti di questo tipo hanno evidenziato che il cioccolato bianco dà più soddisfazione del cacao, ma (e non ci sorprende) il cioccolato scuro resta il non plus ultra.
Dato che la nostra percezione del mondo deriva dal modo in cui il cervello interpreta gli input inviati da diversi tipi di recettori, la manipolazione di tali recettori può creare effetti illusori. Per esempio, la bacca del Synsepalum dulcificum (un albero originario dell’Africa occidentale), nota anche come «frutto miracoloso», contiene una proteina che interferisce con i recettori della lingua e fa sì che i cibi aspri siano percepiti come dolci. 197 Negli anni settanta fu condotto un programma di ricerca su vasta scala per tentare di sfruttare questa bacca miracolosa come dolcificante ipocalorico, ma il progetto fallì perché la proteina cui si deve la magia è instabile: soltanto le bacche fresche funzionano. Presumibilmente la bacca riesce ad abbindolare gli insetti facendo loro credere che stanno mangiando un frutto dolce e nutriente: disperderanno i semi contenuti nella bacca senza che l’albero debba pagare il solito obolo sotto forma di prezioso zucchero. In realtà, si è scoperto che i sensori del dolce sulla lingua si lasciano ingannare facilmente: dolcificanti artificiali come la saccarina e l’aspartame riescono a farlo senza problemi, e perfino un pizzico di sale su una fetta d’ananas può farla sembrare più dolce.
Un’insolita illusione ottica riguardo al cibo è creata dalle proprietà del tutto uniche dell’olio di semi di zucca, una specialità di Austria e Ungheria, dove viene usato per condire le insalate. Il colore dell’olio sembra passare dal rosso brillante quando è nella bottiglia al verde smeraldo quando finisce in un piatto o viene mescolato allo yogurt; ma si tratta solo di un’illusione ottica, non di una reale trasformazione chimica. La spiegazione di questo fenomeno risiede nella retina dell’occhio umano e nelle specifiche proprietà spettrali dell’olio.198 Come ricorderete, nel capitolo 9 abbiamo parlato di come la nostra percezione dei colori dipenda da tre recettori distinti: uno sensibile alle lunghezze d’onda brevi (blu), uno a quelle medie (verde) e uno a quelle lunghe (rosso). L’olio di semi di zucca ha nel suo spettro una finestra stretta che lascia passare la luce verde e una ampia per il passaggio di quella rossa. Uno strato sottile di olio convoglia abbastanza luce verde per stimolare quei recettori più intensamente di quelli del rosso. Ma se lo strato d’olio ha uno spessore che supera gli 0,7 millimetri, trasmetterà una quantità relativamente inferiore di luce verde, perciò i recettori del rosso saranno più stimolati. Uno strato di 0,7 millimetri esatti convoglierà una luce che stimola con pari intensità i recettori del verde e del rosso: in questo caso, l’olio apparirà giallo.
«Ondivago» è il termine che più si addice all’interesse che il cervello umano manifesta nei confronti degli odori. Alla sua prima comparsa, un odore suscita una reazione forte, ma la maggior parte di essi diventa rapidamente impercettibile. Gli odori sembrano sparire nonostante non vi sia stato alcun effettivo cambiamento nella concentrazione delle molecole odorose. Forse tutti si sono accorti di questo fenomeno, ma in quanti si sono chiesti perché accade? Un odore nuovo manda al cervello un segnale di allerta a cui possiamo reagire in modo adeguato; ma se non facciamo nulla che modifichi la nostra esposizione all’odore, il cervello si comporterà come se l’informazione in esso contenuta fosse superflua, perciò l’odore verrà presto ignorato. In un’ottica di pura sopravvivenza, è un comportamento del tutto sensato, poiché ci consente di restare in stato di allerta — e accorgerci di nuove minacce o opportunità — senza farci distrarre da dettagli irrilevanti provenienti dall’ambiente che ci circonda.
Tuttavia, dal punto di vista dello chef, la tendenza dei recettori del gusto e dell’odore a stancarsi facilmente deve rendere il tentativo di prendere i clienti per le papille gustative simile a quello di allenare una squadra di vecchietti suonati per una partita di campionato. Una soluzione è creare «micro-bombe» di sapore incapsulando gli alimenti in modo che possano deflagrare nel palato, tenendo costantemente sveglio il sistema gusto-olfattivo. Heston Blumenthal, lo chef del già menzionato Fat Duck, per intrappolare i sapori utilizza cubetti di gelatina. Ma anche le gocce di cioccolato nei biscotti, i canditi nelle torte e i semi lasciati interi nel pane sfruttano lo stesso identico principio: una bella sferzata alle papille gustative.
I semi sono per definizione capsule di sapore, ma di solito, perché il loro potenziale possa esprimersi appieno, richiedono la tostatura. Come abbiamo visto nel capitolo 16, questo procedimento accresce parecchio il numero di componenti del sapore nel caffè, producendo quell’aroma celestiale. La tostatura ha gli stessi effetti benefici sull’aroma e sul sapore di altri semi, tra i quali spezie come il cumino e il coriandolo, arachidi e semi di girasole o di zucca, castagne, mandorle e molti altri ancora. Il rilascio del sapore e dell’aroma è indotto dall’effetto fisico della tostatura che rompe le cellule, consentendo agli oli fragranti di sprigionarsi attraverso una serie di trasformazioni chimiche possibili ad alte temperature. La principale è la reazione di Maillard che, unendo zuccheri e amminoacidi, produce composti aromatici in quantità. Particolari versioni di questa reazione producono le molecole responsabili dell’inconfondibile profumo del pane appena sfornato, l’odore noccioloso delle arachidi tostate, l’aroma di popcorn e altre golosità evocative, come l’odore di patatine fritte. La natura chimica di questa reazione, responsabile anche dell’allettante colore bruno della carne e di altri cibi arrostiti, fu stabilita dal chimico francese Louis-Camille Maillard nel 1912. In un articolo di sole settantasette righe (titolo compreso), Maillard descrisse i meccanismi delle interazioni tra zuccheri e amminoacidi, i metodi che aveva utilizzato negli esperimenti e tutte le implicazioni della scoperta, compreso il suo ruolo potenziale — oggi ben assodato — nelle patologie indotte dalle varie forme di diabete. Purtroppo il suo lavoro era talmente all’avanguardia per la sua epoca da rimanere ignorato per oltre vent’anni, quando ormai Maillard era gravemente debilitato da un’infezione da tifo contratta lavorando su quella malattia durante la Prima guerra mondiale. Ma, proprio come gli aromi, il suo nome persiste, rievocato da ogni fresca scoperta di nuovi casi di reazione di Maillard.
Non soltanto il sapore, ma perfino la consistenza dei semi può essere radicalmente alterata dal processo di tostatura. Nell’inverno del 1842, Henry David Thoreau, profeta della vita nei boschi del New England, botanico, filosofo, poeta e sostenitore della fede nel potere dei semi, scrisse nel suo diario: «Stasera ho fatto scoppiare il granoturco, che per il seme è soltanto un più rapido sbocciare sotto un caldo più intenso di quello di luglio. Il chicco che sboccia è un perfetto fiore invernale, e richiama gli anemoni e le houstonie […] Dal mio cuore caldo spuntarono questi fiori di cereale; era quello l’argine dove crebbero». In quei fiori di cereale potrebbe racchiudersi un significato ancora più importante di quanto Thoreau immaginasse: esiste la prova archeologica che far scoppiare i chicchi di cereali nelle braci potrebbe essere stato il più antico metodo di cottura del granoturco in Messico. La cosa che lascia sbalorditi è che alcuni chicchi recuperati da depositi vecchi di migliaia di anni possano ancora scoppiare. 201 I primi fiori di popcorn, dunque, segnarono uno dei passaggi epocali dell’intera vicenda umana: i primissimi germogli dell’agricoltura nel Nuovo Mondo.
Si possono far gonfiare o scoppiare molti chicchi di cereali, ma il titolo di endosperma più esplosivo spetta alla Zea mays everta. Questa varietà di granoturco ha piccoli chicchi ammassati e costretti in una spessa camicia di forza di fibre di cellulosa che trasmettono efficacemente alla minuscola pentola a pressione posta al loro interno il calore proveniente dall’esterno. Quando il cuore del chicco si scalda, l’umidità che vi è contenuta evapora e l’endosperma si ammorbidisce. La pressione interna al chicco sale fino a sette volte quella dell’atmosfera prima che la camicia di forza esploda. Quest’improvviso rilascio di pressione provoca l’esplosione dell’endosperma ammorbidito, facendolo prima gonfiare e poi indurire quando si raffredda. Se volete preparare degli ottimi popcorn sul fornello, lasciate scostato il coperchio sulla padella in modo da non sigillarla: se ciò accadesse, lo sbalzo di pressione che provoca l’esplosione dell’endosperma risulterebbe inferiore e vi ritrovereste con un mucchio di popcorn duri e gommosi invece che leggeri e vaporosi.
In ogni capitolo di questo libro abbiamo incontrato esempi dei modi in cui l’evoluzione trova utilizzi nuovi per vecchi strumenti e sovverte di continuo lo stratagemma messo a punto da un organismo per concedere un vantaggio a un altro. È proprio vero: la scienza supera la fantasia. Pensate a come il tubetto pollinico che rilascia lo spermatozoo al suo appuntamento con l’ovulo nel letto nuziale del fiore si sia evoluto dall’arnese con cui il maschio parassita succhiava cibo dall’ovulo non fecondato: non sembra la trama di un romanzo gotico? Quale bizzarro capriccio del fato alimentò la fantasia malata dei cacciatori di streghe di Salem con la segale infetta che rese rosso sangue il pane eucaristico? Eschilo avrebbe visto la vendetta di Zeus nella sorte del triste cipresso del Sahara che percorre il viale del tramonto evolutivo verso l’estinzione? Certo, gli sarebbe parsa la giusta punizione divina per un sistema riproduttivo in cui il polline usurpa il diritto di nascita del seme.
Ma altri ingannatori abbondano, come gli insetti che salgono senza biglietto a bordo dell’intricato sistema d’impollinazione delle yucche o dei fichi, oppure i trasposoni egoisti che si moltiplicano nel genoma del granoturco come in quello degli esseri umani. Pensate alla battaglia per il controllo sulla germinazione tra la ghianda e lo scoiattolo, o al modo in cui i lieviti avvelenano con l’alcol i semi d’orzo in fermentazione negandone i contenuti nutritivi ad altri microorganismi. Per migliaia di anni, e per soddisfare il nostro palato, abbiamo messo a frutto questa particolare strategia del lievito. Anche la cucina è sovversione evolutiva. Se vi piacciono i semi, potrete gustarveli ancora di più dedicando un pensiero all’affascinante viaggio evolutivo che li ha condotti fino al vostro piatto.
Letture
Se siete interessati alla scienza del cibo e della cucina, dovete assolutamente procurarvi una copia dell’ineguagliabile McGee on Food and Cooking di Harold McGee, Hodder & Stoughton, London 2004: è una meravigliosa commistione di scienza, storia e gastronomia. Anche Kenneth F. Kiple e Kriemhild C. Ornelas (a cura di), The Cambridge World History of Food, University of Cambridge Press, Cambridge 2000, è una fonte altrettanto indispensabile: spazia ben al di là di una semplice storia del cibo, e con i suoi due volumi saprà soddisfare ogni vostra possibile e immaginabile curiosità. Esistono moltissimi libri dedicati ai singoli ingredienti, ma vorrei consigliarvene due in particolare. Uno è di Ken Albala, Beans. A History, Berg, Oxford 2007; l’altro è di Betty Fussell, The Story of Corn, University of New Mexico Press, Albuquerque 2004.
tratto da: Jonathan Silvertown, La vita segreta dei semi, trad. it. Daria Restani, Torino 2010.
Titolo originale An Orchard Invisible. A Natural History of Seeds, Chicago 2009.