Mi hanno chiamato al telefono per dirmi che Lafcadio Hearn è morto. È morto a Tōkyō, ieri o forse stanotte, o stamattina: la notizia viaggia veloce sul filo, già stasera alcune persone sparse per la Germania, e qualche centinaio più a ovest, e qualche migliaio ancora più a ovest, sanno ormai che è morto l’amico a cui devono così tanto, pur non avendolo mai incontrato. Nemmeno io l’ho mai visto, né mai lo vedrò, e le sue mani, ora rigide, non riceveranno la lettera che tanto spesso avrei voluto scrivergli.
E il Giappone ha perso il suo figlio adottivo. Giorno dopo giorno, a migliaia va perdendo i suoi giovani. I cadaveri giacciono impilati l’uno sull’altro, frenano il corso dei fiumi, finiscono sul fondo del mare con occhi sbarrati, e intanto in moltissime case si prepara un piccolo banchetto, si accende un amorevole lume in memoria dei morti, con pietà silenziosa e fiera, senza pianti o lamenti. Adesso è morto anche il forestiero, l’immigrato che tanto amava il Giappone. Forse l’unico europeo che abbia davvero conosciuto e amato quella terra. Non con l’amore dell’esteta o la passione dello studioso, ma con un sentimento più intenso, più raro e completo: con l’amore di chi prende parte alla vita interiore del paese. Il suo sguardo abbracciava tutto, e tutto era bello, ricolmo di un afflato vitale proveniente dall’intimo di ogni cosa: l’antico Giappone che continua a vivere nei giardini segreti, nelle impenetrabili dimore dei gran signori e nei più remoti villaggi con i loro piccoli templi; e il nuovo Giappone, percorso dalla ferrovia e pervaso dalle febbri dell’Europa; il solitario mendicante che va in pellegrinaggio di Buddha in Buddha, e il grande esercito, armato di nuove tecniche, animato da un antichissimo sprezzo della vita; il piccolo sepolcro, costruito vicino alla strada da fanciulli che giocano con fango e pezzetti di legno, e la grande Ōsaka, l’imponente città industriale e le sue centinaia di migliaia di abitanti, dediti al commercio con la stessa appassionata abnegazione con cui altri si dedicano alla guerra, negli sconfinati depositi di seta dove i commessi dai volti pallidi stanno chini dietro alle merci per mesi interi, schiavi di un senso del dovere che conferisce a una realtà sordida quasi i tratti di una fiaba, «un commesso nel negozio delle sete».
E i suoi orecchi comprendevano bene quel che veniva detto: nei suoi libri a centinaia risuonano le parole dei bambini, le parole delle nonne ai nipoti, le dolci parole pronunciate da donne innamorate o da donne afflitte, frasi che, lievi come un cinguettio, sarebbero altrimenti volate via tra le pareti di carta delle piccole stanze, e le parole di antichi sapienti, di regnanti misericordiosi, di uomini di grande ingegno dei nostri giorni, simili alle parole del più colto e intelligente europeo, con accenti in nulla diversi da quelli su cui grava il peso di tutto il sapere che abbiamo ereditato.
Sono inesauribili questi libri. Quando li sfoglio, non riesco a comprendere come possano essere ancora quasi sconosciuti qui da noi. Eccoli, uno accanto all’altro: Gleanings in Buddha fields e Glimpses of unfamiliar Japan, e il prezioso Kokoro, forse il più bello fra tutti. Nelle pagine del libro si trova non già la vita esteriore, ma la vita interiore del Giappone: per questo sono raccolte sotto il titolo di Kokoro (cuore). Nei caratteri giapponesi la parola significa anche «senso», «spirito», «animo», «decisione», «sentimento», «affetto», «significato interiore» – un po’ allo stesso modo in cui noi parliamo dell’essenza o del «cuore delle cose». Davvero troviamo il cuore di ogni cosa in questi quindici capitoli, e nello scorrere i titoli mi accorgo di come non si possa dare un’idea precisa del loro contenuto, proprio come è impossibile descrivere un profumo o il timbro di una voce a chi non li abbia sentiti. E non saprei nemmeno definire la forma di queste opere d’arte, distillate da una penna senza eguali. C’è il capitolo intitolato At a railway station. È un piccolo aneddoto, un aneddoto quasi banale, non del tutto privo di sentimentalismo. Ma è scritto da una persona che sa scrivere, e prima ancora è stato sentito da qualcuno in grado di sentire. C’è la storia di The nun of the temple of Amida. È quasi una novella. E poi il capitolo A conservative: qui non si tratta di un racconto, è un’idea, un’idea politica che ha però la pregnanza di un’opera d’arte e l’esposizione di un aneddoto. Mi verrebbe da dire che è un prodotto giornalistico, ma si tratta del giornalismo più sapiente, più serio e fecondo che possa darsi. E ancora, lì accanto, ecco le incomparabili riflessioni che portano il titolo By force of karma, in cui dal profondo del mare emergono alla luce, l’una dopo l’altra, cose profonde e quasi inafferrabili. Se non sbaglio, questa è filosofia. Eppure non ci lascia freddi, non ci trascina nel deserto dei concetti. Forse allora è religione. Però non è minacciosa, non vuole essere l’unica al mondo e non grava sullo spirito. Lo chiamerei un messaggio, il benevolo messaggio di un’anima ad altre anime, un giornalismo al di fuori dei giornali, un’opera d’arte senza presunzione e artificio, un sapere privo di peso e pieno di vita, lettere, scritte ad amici sconosciuti.
Ora però Lafcadio Hearn è morto, e nessuno in Europa o in America, nessuno dei suoi amici sconosciuti potrà più rispondergli, ringraziarlo per le sue molte lettere, Celeste visione di profondità persa in altezza – mare e cielo commisti per entro la caligine lucente. La giornata è primaverile e l’ora mattutina.
Soltanto cielo e mare – un’unica enormità cerulea… In primo piano, increspature captano un luccicore argenteo, bave di spuma fanno mulinelli. Ma appena un po’ più in là non si discerne moto, né altro che non sia colore: il cilestrino tepido dell’acqua si espande sino a trasfondersi nell’azzurrità dell’aria. Orizzonte non c’è: solo distanza che si libra entro lo spazio – concavità infinita che s’infossa innanzi a te e su di te s’inarca immensamente –, il colore che si addensa con l’altezza. Ma lontano, a mezzo il blu, è sospesa una vaghissima visione di reggia turrita dagli alti tetti curvi a mezzaluna – adombramento di splendore antico e strano, lumeggiata da un sole lene come la memoria.
… Questo mio è il tentativo di descrivere un kakémono – vale a dire un dipinto giapponese su seta, appeso alla parete della nicchia – che ha per titolo Shinkirō: significa «Miraggio». Ma le sagome del miraggio sono inequivocabili. Quelli i portali lucidi di Hōrai, la città sacra; quelli i tetti lunati del Palazzo del Re Drago; e la loro foggia (pur tracciata da un pennello giapponese d’oggi) è la foggia delle opere cinesi, ventun secoli or sono…
Ecco quanto raccontano del posto i libri cinesi dell’epoca:
In Hōrai non si dà morte né dolore; e neanche inverno. In quel luogo i fiori mai appassiscono, né mai mancano i frutti; e se uno assaggia di quei frutti anche una volta sola, non sentirà mai più fame né sete. Crescono in Hōrai le piante miracolose So-rin-shi, Riku-gō-aoi e Ban-kon-tō, che curano ogni sorta di malanno; vi cresce inoltre l’erba magica Yō-shin-shi, che risveglia i morti; erba magica che un’acqua fatata irrora: basta un sorso a conferire eterna giovinezza. Il popolo di Hōrai mangia il riso in ciotole minuscole; ma il riso mai non scema nelle ciotole – per quanto se ne mangi – finché chi mangia non si sente sazio. E il popolo di Hōrai beve il vino in tazze minuscole; ma nessuno ha modo di vuotarle – per quanto s’impegni a tracannare – finché non sopravviene il torpore grato dell’ebbrezza.
Questo e altro raccontano le leggende risalenti all’epoca della dinastia Shin. Ma che abbia visto Hōrai, sia pure in un miraggio, chi ha messo per iscritto le leggende, non è attendibile. Non esistono infatti, questo è certo, miracolosi frutti che diano perenne sazietà a chi ne mangia; né erbe magiche che richiamino i morti in vita; né fonti d’acqua fatata; né ciotole giammai prive di riso; né tazze mai di vino. Non è vero che dolore e morte mai subentrino in Hōrai; tantomeno che non faccia giammai inverno. L’inverno in quel di Hōrai è gelido; e allora i venti addentano alle ossa, e immane è il cumulo di neve sui tetti del Re Drago.
Nonpertanto, mirabili cose sono in Hōrai; e della più mirabile di tutte nessuno scrittore cinese ha fatto cenno. Mi riferisco all’atmosfera di Hōrai. È un’atmosfera che pertiene al luogo; e, a motivo di ciò, la luce del sole a Hōrai è più bianca di ogni altra luce solare – una lattea luminosità che mai non abbacina –, stupefacentemente tersa, e pur pastosa. Atmosfera che non è di questa nostra fase umana: è di un’antichità remota, remotissima talché ho paura a immaginare quanto è antica; e non è una mescolanza di azoto e ossigeno. Non è affatto composta d’aria, di spirito bensì – della sostanza di generazioni d’anime a quintilioni, circonfuse di un’unica immensa traslucidità –, anime di genti che pensavano in modi mai e poi mai simili ai nostri. Basta che un mortale inali l’atmosfera e il sangue è corso dal fremito di quegli spiriti: che dentro di lui trasmutano i sensi – riplasmandone i concetti di Spazio e di Tempo –, talché quegli vedrà soltanto come essi vedevano, e sentirà soltanto come essi sentivano, e penserà soltanto come essi pensavano. Soave come sonno è il trasmutar dei sensi; e Hōrai, percepita per il loro tramite, così può essere descritta:
Siccome in Hōrai non si ha cognizione del male estremo, il cuore della gente non invecchia. E per il fatto d’esser sempre giovani nel cuore, gli abitanti di Hōrai sorridono dalla nascita alla morte – tranne quando gli dèi inviano il dolore in mezzo a loro; allora finché il dolore non va via scende sui volti un velo. Tutti in Hōrai si amano e si stimano, quasi fossero membri di un’unica famiglia; e l’eloquio delle donne è come il canto degli uccelli, dato che come anime di uccelli sono lievi i loro cuori; e le maniche ondeggianti delle fanciulle intente ai giochi dànno il battito attutito di ampie ali. In Hōrai non si tiene nascosto nulla tranne il dispiacere, perché non c’è ragione di vergogna; e nulla è sotto chiave, perché non potrebbe esserci alcun furto; e di notte come di giorno non c’è chiavistello all’uscio, perché non c’è ragione di temere. E siccome gli abitanti sono esseri fatati – ancorché mortali – tutte le cose a Hōrai, tranne il Palazzo del Re Drago, sono piccole e curiose e strampalate; e il suo popolo fatato mangia davvero il riso in ciotole minuscole e beve il vino in tazze ancora più minuscole…
Molto di tale parvenza sarà da attribuire all’inalazione di quell’atmosfera fantasmatica – non tutto però. La malia dai morti ordita altro non è che il fascino di un Ideale, il richiamo di una speranza antica; speranza che ha trovato in parte esaudimento in molti cuori, nella bellezza semplice di vite disinteressate, nella dolcezza della Donna…
Venti malvagi soffiano su Hōrai dall’Occidente; e la magica atmosfera, ahimè, recede innanzi a loro. S’attarda ormai soltanto in lembi e strie – come le lunghe, luminescenti strie di nuvole che lasciano una scia attraverso i paesaggi dei pittori giapponesi. Sotto i lacerti di elfico vapore potrai sempre trovare Hōrai – ma non altrove… Rammenta che Hōrai è anche detta Shinkirō, che significa Miraggio – la Visione dell’Intangibile. E la Visione stinge – per non più riapparire fuorché nei dipinti, nelle poesie, nei sogni…
Tratto da: Lafcadio Hearn, Ombre giapponesi, Adelphi