Questa sera all’inizio del tramonto sono andato al bosco di Talpiyot. Ho levato lo sguardo verso i monti in cerca di aiuto. Ma che distanza tra Sommo e i monti. Loro tacevano e non si sono presi il disturbo di rispondere a domande annose come questa: fino a quando giubileranno i malvagi? Il giudice di tutta la terra non eserciterà più la giustizia? Invece di rispondere si sono avvolti di tenebra. Ma chi sono io per lamentarmi? Il rabbino Buskila mi ha consigliato di accogliere i tormenti con amore. Mi ha ricordato che le sopracitate questioni sono rimaste senza risposta anche quando a formularle sono state persone più grandi e migliori di me, migliaia di anni fa. I monti si sono avvolti di tenebra senza badare a me. E io sono rimasto lì ancora un poco, a domandarmi come mai il vento si prendesse il disturbo di accarezzare uno come me, stupito del fatto che le stelle regalassero la loro luce a un verme subumano, sinché non ha cominciato a fare freddo. Allora ho capito, più o meno, che Sommo è molto piccolo. Che il suo dolore è come un’ombra che passa. Che non gli è permesso indagare ciò che è troppo mirabile per lui. Così che se per un istante mi sono indotto a pensieri deviati, se per un istante ho desiderato morire e mi ha persino sfiorato il pensiero tremendo di venire a ucciderla con le mie stesse mani, ecco che dopo un istante sono tornato in me, rincresciuto d’averlo pensato. Quando è spuntata la luna ero ormai quieto e rappacificato. I miei giorni sono come un’ombra reclinata, sono come erba al vento.
tratto da: Amos Oz, La scatola nera, trad. it. Elena Loewenthal, Milano 2002.
Titolo originale Qufsah shehorah; prima edizione © 1987 by Amos Oz.