Secondo il dottor Watson, Sherlock Holmes, colui che portò il massimo rigore scientifico nell’investigazione criminale, era dotato di capacità d’osservazione quasi soprannaturali. Ogni minimo dettaglio nell’aspetto di una persona era rivelatore e permetteva a questo detective di carta di risalire alla sua professione, dedurne gli spostamenti recenti e talvolta perfino individuarne un’identità segreta. Perciò è davvero strano che nel giallo Il trattato navale Holmes interrompa il lavorio della sua mente per abbandonarsi a una riflessione sognante indotta dalla vista di una rosa: «Ritengo siano i fiori che, più di ogni altra cosa, ci confermano la bontà della Provvidenza. Tutto il resto, poteri, desideri, nutrimento, sono indispensabili alla nostra esistenza. Ma questa rosa è un di più. Il suo profumo e i suoi colori sono un abbellimento, non una condizione essenziale della vita. Ed è solo la bontà che ci concede il di più; ripeto, quindi, che abbiamo molto da sperare dai fiori».
Il dottor Watson riferisce che i clienti del grande detective, pazienti testimoni della performance che evidentemente speravano in un’assistenza di natura più pratica, «rimasero a guardare Holmes sorpresi e con una buona dose di delusione dipinta in volto. Era immerso in un sogno ad occhi aperti, con la rosa muschiata fra le dita. Passò qualche minuto, poi la ragazza spezzò il filo della sua rêverie. “Ritiene di poter risolvere questo mistero, signor Holmes?”, chiese con una punta di asprezza nella voce».
Inutile dire che alla fine Holmes risolse il mistero, ma per quanto riguarda la rosa, che gli appariva soltanto come un accessorio privo di qualsivoglia utilità, si sbagliava di grosso, e siamo tutti un po’ delusi da questa sua insolita mancanza di perspicacia. Quando Il trattato navale fu pubblicato per la prima volta nel 1893 sulla rivista «Strand», l’antiquata concezione dei fiori di cui Holmes aveva dato prova era stata già da lungo tempo smentita dall’evidenza scientifica: la loro funzione effettiva è quella di ornamenti sessuali atti a favorire l’impollinazione.
Charles Darwin, un cervello dotato di poteri ancor più stupefacenti di quelli di Sherlock Holmes, nel 1876 scrisse nel suo libro Gli effetti della fecondazione incrociata e propria nel regno vegetale: «È evidentissimo che i fiori del maggior numero delle piante, sono costruiti in modo da essere, o abitualmente o accidentalmente fecondati per incrocio, col mezzo del polline d’un altro fiore», e che «i fiori sono fatti per la produzione delle sementi e la propagazione della specie». Darwin era affascinato soprattutto dalle orchidee, i cui fiori di straordinaria appariscenza sono stati modellati per selezione naturale in forme estreme e dimensioni straordinarie finalizzate soltanto alla produzione di semi che sono invece così poco vistosi, talmente minuscoli da essere quasi invisibili, come i «semi delle felci».
Darwin diede ripetutamente prova di possedere capacità deduttive holmesiane, e tra gli episodi più eclatanti vi fu la sua predizione — oltre quarant’anni prima dell’effettiva scoperta — di quale dovesse essere l’aspetto dell’insetto impollinatore dell’orchidea cometa del Madagascar, l’Angraecum sesquipedale. Il nome latino di tale specie, sesquipedale , significa «lungo un piede e mezzo» e, con millanteria degna di un pescatore, ritocca per eccesso le dimensioni dello sperone contenente il nettare, che è lungo poco più di trenta centimetri (un piede) e pende come la coda di una lucertola dalla parte posteriore del fiore. Nel suo libro I vari espedienti mediante i quali le orchidee vengono impollinate dagli insetti Darwin racconta:
In parecchi fiori, che mi furono spediti dal signor Bateman, ho trovato nettarii lunghi undici pollici e mezzo, e solo la porzione inferiore fino alla lunghezza di un pollice e mezzo ripiena di nettare. Si può domandare, a quale scopo possa servire un nettario di una lunghezza tanto sproporzionata. Io penso che noi arriveremo a persuaderci, che la fecondazione della pianta è condizionata ad una tale lunghezza e alla presenza del nettare solo nella porzione inferiore assottigliata. Noi però restiamo stupiti, che un insetto qualsiasi possa mai essere capace di raggiungere questo nettare […] Ma nel Madagascar devono esistere farfalle notturne, la di cui proboscide può essere allungata fino a dieci o undici pollici! Questa mia idea è stata messa in ridicolo da alcuni entomologi.
Come recita la famosa frase che Sherlock Holmes rivolse al dottor Watson nel Segno dei Quattro: «Quante volte le ho detto che, eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità?» Nel 1903 fu scoperta in Madagascar una gigantesca «falena falco»: era una sottospecie di Xanthopan morganii, una farfalla notturna africana, perciò le fu dato il nome di Xanthopan morganii praedicta. Soltanto alla fine degli anni novanta del XX secolo si riuscì a vederla in azione: si comportava proprio come Darwin aveva previsto più di un secolo prima.
La passione darwiniana per i fiori non era il vezzo di un gentiluomo vittoriano che si dilettava di storia naturale, ma faceva parte di un programma di ricerca sistematico ed esaustivo che voleva indagare come la selezione naturale potesse spiegare l’adattamento nei suoi particolari. Il figlio di Charles Darwin, Francis, raccontò che quel programma ebbe inizio quando un amico botanico di nome Robert Brown spedì a suo padre un libro a quei tempi poco conosciuto, scritto dal pastore luterano Christian Konrad Sprengel e intitolato Das entdeckte Geheimnis der Natur im Bau und in der Befruchtung der Blumen (Il segreto della natura svelato nella struttura e nella fecondazione dei fiori). Francis Darwin scrisse che quel libro «non solo lo incoraggiò negli studi sulla parentela, ma gli fece da guida nel suo lavoro […] difficilmente, forse, Robert Brown avrà piantato un seme più fecondo di quello che seminò mettendo un libro simile in simili mani».
Darwin poté portare avanti i suoi studi con il massimo agio, mentre Sprengel pagò a caro prezzo la passione per la scienza: quell’uomo di Chiesa dedicò talmente tanto tempo alla ricerca scientifica che finì per essere sollevato dall’incarico per aver trascurato il suo gregge. Sprengel descriveva come gli insetti facevano visita ai fiori, ma non spiegò perché era importante che il polline di un fiore venisse trasportato sullo stigma di un altro. Per quale motivo i fiori, che nella maggior parte dei casi sono dotati di organi maschili e femminili, non potevano semplicemente autoimpollinarsi? Non riuscendo a dare una risposta a questa domanda cruciale, il libro di Sprengel non seppe suscitare quell’interesse che, a giudicare dal titolo, l’autore pensava meritasse. Darwin, però, trovò la risposta, e di conseguenza gettò nuova luce sulla portata effettiva delle osservazioni di Sprengel. Quest’ultimo ricevette riconoscimenti postumi per le rivelazioni contenute nel suo libro.
Anche se Darwin riteneva che dovesse esserci un vantaggio nella fecondazione incrociata delle piante, all’inizio pensava che l’esperimento più scontato — ovvero un confronto tra una progenie ottenuta per autofecondazione e piante nate per fecondazione incrociata — difficilmente avrebbe evidenziato differenze significative, poiché sapeva che ciò capitava di rado nella prima generazione di incroci tra animali. E fu così che le sue prime osservazioni al riguardo furono casuali, in quanto condotte su piante che aveva coltivato per gli esperimenti sull’ereditarietà. Grazie questi primi tentativi fuori programma poté osservare che «le piante autofecondate furono chiaramente inferiori alle incrociate sia come sviluppo sia come vigore». Questa osservazione fortuita lo indusse a iniziare un mastodontico programma sperimentale su decine di specie, confrontando la crescita di piante nate da semi autofecondati con la progenie ottenuta incrociando individui diversi. A tutt’oggi nessuno ha ripetuto esperimenti di questo genere su una scala vasta quanto quella di Darwin. Gli esperimenti dimostrarono in modo inequivocabile perché per le piante è vantaggioso produrre fiori elaborati che facilitino l’outcrossing (incrocio tra individui non affini): l’autofecondazione produce una discendenza qualitativamente inferiore.
L’inferiorità di una discendenza ottenuta tramite inbreeding è oggi riconosciuta come un fenomeno diffusissimo, definito «depressione da inbreeding». Le conseguenze negative dell’incrocio tra consanguinei avevano per Darwin un interesse personale oltre che scientifico. Nelle famiglie Darwin e Wedgwood il matrimonio tra cugini di primo grado era diventato uno schema ricorrente, tramite cui i due nuclei si mantenevano costantemente collegati. La madre di Charles era Susannah Wedgwood, figlia di Josiah Wedgwood I, fondatore della celebre fabbrica di porcellane che tuttora porta il suo nome. Charles sposò Emma Wedgwood, sua cugina di primo grado e figlia di Josiah Wedgwood II. Quattro dei sette figli di Josiah Wedgwood II che raggiunsero l’età adulta sposarono dei cugini primi, compresa Emma, che sposò Charles, e suo fratello Josiah III, che sposò la sorella di Charles, Caroline Darwin.
Fin troppo consapevole dell’importanza dell’ereditarietà e del potere della selezione naturale di epurare il debole e il malato, Darwin osservava con ansia crescente la salute malferma dei suoi sempre più numerosi familiari, e fu subito pronto a imputarne la colpa all’ereditarietà che aveva trasmesso loro la sua stessa costituzione debole. Quando l’adorata figlia maggiore Annie morì all’età di dieci anni, le sue proccupazioni peggiori parvero trovare conferma, tanto che in una lettera confidò a un parente: «La mia paura è la cattiva salute ereditaria».56 Oggi si pensa che Annie possa essere morta di tubercolosi e che il cattivo stato di salute di Darwin fosse indotto da una malattia parassitaria contratta nei suoi viaggi nell’America del Sud. Nessuna di queste malattie era ereditaria.
Darwin temeva che i matrimoni tra consanguinei potessero danneggiare la salute della nazione e, com’era sua abitudine, cercò di raccogliere dati per verificare l’ipotesi. Chiese al parlamento britannico di valutare l’idea di aggiungere una domanda al modulo del censimento nazionale del 1871 per scoprire se il soggetto fosse sposato con un cugino di primo grado. Le risposte si sarebbero poi potute incrociare con il numero di bambini sopravvissuti riportato sul modulo per stabilire se i matrimoni tra cugini primi fossero meno fertili rispetto a quelli tra partner non imparentati tra loro. In parlamento si scatenò un acceso dibattito sulla questione, ma la richiesta alla fine fu respinta — per ogni voto favorevole se ne contarono due contrari — con la motivazione del rispetto delle libertà civili. Tra le obiezioni sollevate dai membri del parlamento c’era quella secondo cui i bambini sarebbero stati «anatomizzati dalla scienza» come piante o animali. È ovvio che per Darwin valevano le stesse leggi biologiche tanto per gli esseri umani quanto per gli animali e le piante. Una ricerca scientifica che probabilmente ai parlamentari era apparsa cinica era senz’altro motivata in Darwin dal desiderio di risparmiare ad altri il dolore che aveva sperimentato nella propria famiglia.
Se non si potevano fare progressi con soggetti umani, almeno dal regno vegetale giungevano notizie molto più incoraggianti: cominciavano a emergere prove di adattamento all’outcrossing. Nel 1873 l’entomologo di Stato del Missouri, Charles Valentine Riley, descrisse sull’«American Naturalist» la straordinaria modalità con cui le piante di yucca venivano impollinate da tignole che però ne parassitavano i semi. Dopo aver letto quella relazione, Darwin scrisse all’amico Joseph Hooker, direttore dei Royal Botanic Gardens di Kew, che si trattava del «più meraviglioso caso di fecondazione mai pubblicato».
Esistono circa trenta specie di yucca, tutte originarie dell’America del Nord e presenti dal Sud del Messico fino al confine tra Canada e Stati Uniti. La Yucca filamentosa e la Yucca gloriosa si sono abbondantemente diffuse come piante da giardino in Europa e ovunque. A entusiasmare così tanto Darwin era l’insolita modalità con cui il comportamento e la struttura di quelle falene specializzate nell’impollinazione delle yucche si sono adattati al loro ruolo. In altre specie di piante, gli insetti che fanno visita ai fiori vengono ricompensati con qualche tipo di risorsa, spesso il nettare, ma il trasferimento del polline tra fiori — che è il modo in cui la pianta trae vantaggio da quello scambio — è solo un effetto secondario del comportamento dell’impollinatore: gli insetti in visita si sporcano di polline, ma spesso tentano di pulirsi per toglierselo di dosso.
Una femmina di tignola della yucca (Tegeticula yuccasella ), invece, ha un apparato boccale dotato di un congegno particolarissimo, simile a un tentacolo, che utilizza per raccogliere il polline che poi immagazzina sotto alla testa: questo carico di polline può addirittura raggiungere il 10 per cento del suo peso corporeo.59 La femmina visita i fiori appena dischiusi della yucca e, se qualche altra tignola non è già passata di lì, depone le uova nell’ovario. Tramite l’apparato boccale, raschia via un piccolo quantitativo di polline dalla scorta che ha con sé, poi si arrampica lungo lo stigma e deposita il polline sulla vischiosa superficie ricettiva con una serie di movimenti sussultori. La sequenza deposizione delle uova/impollinazione può essere ripetuta svariate volte sul medesimo fiore.
Le yucche e queste piccole farfalle specializzate vivono un rapporto mutualistico che potremmo sintetizzare così: tu gratti lo stigma a me e io covo le uova a te. Rinunciare a una quota di semi per nutrire le larve della tignola in cambio dell’impollinazione è una strategia rischiosa per la yucca e, senza dubbio, alcune farfalle imbrogliano. Queste ingannatrici depongono le uova in frutti che sono già stati impollinati e hanno iniziato a svilupparsi; così facendo, sfruttano tanto il lavoro delle vere impollinatrici quanto quello delle yucche. Dal punto di vista della tignola ingannatrice, questa strategia ha un grande vantaggio. Se un ovario risulta troppo parassitato dagli impollinatori, la yucca abortirà il frutto a uno stadio precoce: presentandosi qualche giorno dopo l’impollinazione, le farfalle scansafatiche possono deporre le loro uova quando ormai non sussiste più il pericolo che il frutto venga abortito. Le conseguenze sono pesantissime per la yucca, poiché le visite da parte di falene ingannatrici possono triplicare la dose di semi che andrà perduta per nutrire le larve. Sembra che le specie ingannatrici di falena della yucca siano numerose quasi quanto quelle impollinatrici. Alcune delle prime si sono evolute da una stirpe impollinatrice, mentre altre appartengono a un gruppo che si è evoluto parallelamente a essa.
I pionieri della biologia dell’impollinazione furono spesso accusati di raccontare frottole, proprio com’era capitato a Darwin con la faccenda dell’orchidea cometa. Numerosi entomologi contestarono le osservazioni di Riley sull’impollinazione della yucca; uno di loro dichiarò che appartenevano «al mondo delle favole». Un altro — il primo a osservare una tignola ingannatrice nell’atto di deporre le uova — la scambiò per un’impollinatrice e utilizzò quanto aveva visto (che ovviamente non comprendeva l’impollinazione) per contestare la veridicità della descrizione di Riley delle falene impollinatrici della yucca. In un articolo che chiarì definitivamente le cose, Riley si prese la rivincita: identificò un nuovo genere di falene ingannatrici e le chiamò Prodoxus, che in greco significa pressappoco «giudicare qualcosa prima di averne fatto esperienza». Un po’ per caso e un po’ per le convenzioni della nomenclatura zoologica, l’intero gruppo di tignole cui appartengono sia le impollinatrici della yucca sia le ingannatrici è oggi conosciuto con il nome di Prodoxidae. Fu una dura lezione per chi si era abbandonato a giudizi affrettati. Che serva da monito.
Riley fu un darwinista precoce ed entusiasta, e a lui si deve quella che molto probabilmente fu la primissima applicazione della nuova teoria evolutiva per risolvere un problema economico. All’inizio degli anni settanta del XIX secolo il settore vinicolo francese fu messo in ginocchio dall’accidentale introduzione e dalla conseguente diffusione della filossera della vite, un afide proveniente dall’America del Nord. Questo afide si ciba delle radici della pianta, e Riley ipotizzò che le specie di vite nordamericane fossero più resistenti alla filossera autoctona di quanto non fossero le viti europee, che si erano evolute senza mai entrarvi in contatto.
Quando una popolazione è esposta agli attacchi di un nemico naturale come la filossera, gli individui più resistenti sono avvantaggiati poiché, rispetto ai soggetti vulnerabili, sopravvivono meglio e lasciano un maggior numero di discendenti. È selezione naturale all’opera: attraverso questi mezzi, i geni che rafforzano le barriere si diffondono e, di generazione in generazione, la resistenza acquista sempre più vigore. Dunque, Riley si aspettava che la selezione naturale avesse reso resistenti alla filossera le viti nordamericane, da lungo tempo esposte a quel tipo di afide. Dall’altra parte, le viti europee erano vulnerabili perché, non essendo mai state attaccate dalla filossera, non avevano potuto beneficiare di una selezione naturale che favorisse la resistenza. Applicando la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, Riley aveva visto giusto: il risultato fu che la produzione vinicola francese risorse grazie all’innesto di varietà di vite europee su portainnesti nordamericani resistenti alla filossera. Per questa intuizione l’entomologo statunitense fu insignito della prestigiosa Legion d’Onore.
Dai tempi della scoperta dell’insolita relazione tra le yucche e i loro insetti impollinatori, negli anni settanta del XIX secolo, sono emersi altri quattro esempi dello stesso fenomeno, ciascuno dei quali si è evoluto in modo del tutto indipendente dagli altri. In Asia, un gruppo di arbusti della famiglia delle Euforbiacee viene impollinato da falene che ne parassitano i semi; in Europa, i ranuncoli botton d’oro (Trollius spp.), appartenenti alle Ranuncolacee, sono impollinati da mosche che si riproducono nei loro fiori; nel deserto di Sonora una cactacea come la Lophocereus schottii viene impollinata da una falena parassita. Il numero di specie appartenenti a questi gruppi è relativamente basso, però esiste anche un gruppo di piante estremamente popoloso e di successo che viene impollinato esclusivamente da parassiti del seme: i fichi.
Al mondo esistono circa settecentocinquanta specie di fichi (Ficus spp.), talmente tanti da superare tutte le altre specie della famiglia delle Moracee cui appartengono. Mentre negli altri casi noti di impollinazione tramite insetti parassiti del seme, come le yucche, le specie sono talmente poche da poter essere liquidate come semplici curiosità, nei fichi questo sistema d’impollinazione si è trasformato in un grande business. I fichi sono ormai diffusi fra i tropici del Vecchio e del Nuovo Mondo, in Australia e nell’area del Mediterraneo. I loro frutti sono una risorsa alimentare importante per gli uccelli e i mammiferi di numerose foreste tropicali.
Gli antenati delle Moracee avevano fiori che venivano impollinati dal vento.61 L’impollinazione tramite le minuscole vespe che parassitano i loro fiori risale almeno a sessanta milioni di anni fa, e da allora le vespe e i fichi si sono coevoluti in una relazione che ha portato alla nascita di nuove specie sia tra le piante sia tra gli insetti impollinatori. I fichi hanno ottenuto un successo fuori dal comune ricorrendo a un meccanismo d’impollinazione che di norma comporta il costante pericolo che gli impollinatori consumino troppi semi. Il segreto di questo successo sembra dipendere dal fatto che qui sono le piante ad avere il controllo della situazione.
Il fico commestibile non è un fiore propriamente detto, bensì un’infiorescenza carnosa non dischiusa che contiene tutti i fiori al suo interno. È un tratto esclusivo dei fichi. Come sarebbe logico aspettarsi da un genere botanico così vasto, tra le diverse specie ci sono molte differenze nelle procedure d’impollinazione, ma tutte condividono due tratti essenziali per il successo della pianta. Innanzitutto, ogni specie di fico ha una specie corrispondente di vespa impollinatrice specializzata che ne dipende totalmente per potersi riprodurre: è una condizione necessaria per una coevoluzione stretta tra pianta e insetto impollinatore, e ricorre anche nelle yucche e in altri gruppi. Nel caso dei fichi, però, il bisogno di un impollinatore specializzato è assai stringente, dal momento che i loro fiori sono racchiusi in un ricettacolo che rimane inaccessibile alla maggior parte degli insetti.
In secondo luogo, i fichi producono fiori neutri che fungono da camera larvale per gli impollinatori. Le femmine di vespa del fico depongono le uova in fiori neutri incapaci di produrre semi; se ne depongono una in un fiore femminile, l’uovo non si sviluppa e il seme non ne risente. Dunque è il fico, e non la vespa, a esercitare il controllo sulle risorse destinate all’impollinazione stabilendo il numero di fiori neutri presenti in un ricettacolo. Anche se le larve di vespa non consumano direttamente i semi fecondati, come invece accade nelle yucche, i fiori neutri nei quali si sviluppano rappresentano comunque una risorsa e occupano uno spazio nel ricettacolo che una pianta potrebbe altrimenti utilizzare per far posto a un fiore femminile (che produrrebbe un seme). I fichi, dunque, per assicurarsi il servizio di impollinazione devono pagare indirettamente con i semi, proprio come le yucche, ma con la significativa differenza che qui è la pianta e non l’insetto a stabilire il prezzo.
Le specie di fico si differenziano per la modalità con cui combinano i tre differenti generi (maschile, femminile, neutro) dei fiori racchiusi nel ricettacolo. A seconda della specie cui appartiene, un albero di fico può produrre un solo tipo di ricettacolo che contiene tutti e tre i generi; due tipi di ricettacolo, uno caratterizzato da fiori femminili e l’altro contenente fiori neutri e maschili; oppure tre o quattro tipi di ricettacolo in cui si osservano varie combinazioni di fiori, sessuati e neutri.
I maschi delle vespe del fico sono sprovvisti di ali e vivono tutta la loro breve esistenza all’interno del ricettacolo in cui sono nati: escono dall’uovo, si accoppiano e muoiono dentro il fico. Le femmine, invece, escono dal ricettacolo attraverso un minuscolo poro posto sul suo apice, raccogliendo polline lungo il tragitto. Si è osservato che alcune specie immagazzinano sul corpo granuli di polline, proprio come fanno le femmine di falena della yucca. Poi volano via in cerca di ricettacoli freschi in cui deporre le uova e, già che ci sono, impollinano i fiori femminili posti al loro interno. Poiché la pianta si sbarazza dei ricettacoli che non sono stati impollinati, ogni vespa femmina che non abbia ricambiato con l’impollinazione l’ospitalità ricevuta sarà punita con la perdita della prole. Si potrebbe pensare che una minuscola vespa femmina, lunga un paio di millimetri al massimo e che vive soltanto per due o tre giorni, non sia in grado di volare molto lontano e che si riveli per il fico un inefficiente strumento di outcrossing . Tuttavia, test di paternità compiuti su semi di fico hanno evidenziato che alcuni di essi erano stati originati da polline che aveva percorso dieci chilometri o anche di più: nugoli di vespe del fico provenienti da migliaia di ricettacoli dovevano aver percorso lunghe distanze sfruttando il vento.
Lo straordinario rapporto che lega i fichi e le loro vespe impollinatrici non era ancora stato scoperto ai suoi tempi, ma possiamo immaginare quale meraviglia avrebbe provato Darwin di fronte a un sistema d’impollinazione coevoluto ancor più sofisticato di quello delle yucche. Il segreto del successo dei fichi sta senz’altro nel modo in cui sono riusciti a soggiogare i loro insetti impollinatori, ospitando le vespe in fiori neutri per tutelare i propri preziosi semi. La capacità di scegliere e mischiare all’interno di un ricettacolo fiori di genere diverso conferisce flessibilità al sistema riproduttivo dei fichi, caratteristica che ha consentito loro di adattarsi a un ambiente stagionale estraneo al loro habitat tropicale originario. Il comune fico commestibile, Ficus carica, è nativo dell’area del Mediterraneo. A fine stagione le popolazioni selvatiche della specie producono ricettacoli che contengono soltanto fiori neutri; durante l’inverno le vespe del fico vengono nutrite all’interno di essi e infine rilasciate perché procedano all’impollinazione facendo visita ai ricettacoli fertili prodotti in primavera.
Qualunque relazione che si sia coevoluta è suscettibile di sovvertimenti, e il sistema fico-vespa del fico non fa eccezione. Tra i fichi selvatici alligna un’intera comunità di sovversivi: vespe ingannatrici che crescono e si nutrono nei ricettacoli senza impollinarli, parassiti dei semi e parassiti delle vespe del fico. Ovviamente anche gli esseri umani sfruttano le piante di fico: ma le nostre varietà addomesticate producono semi e frutti dolcissimi senza fecondazione. Probabilmente non troverete vespe morte nei fichi secchi che state mangiando, ma di certo sentirete che sono pieni di semini nutrienti e croccanti.
Letture
Se cercate un testo accessibile, e che offra un’ampia ed esaustiva panoramica sul tema dell’impollinazione, ecco quello che fa per voi: Michael Proctor, Peter Yeo e Andrew Lack, The Natural History of Pollination, Collins, London 1996. Il breve articolo di David Kohn, The Miraculous Season, in «Natural History», CXIV, 2005, pp. 38-40, è l’avvincente resoconto di come Charles Darwin trascorse la primavera e l’estate che seguirono la pubblicazione dell’ Origine delle specie: lontano dal cicaleccio e da tutto il cancan che la sua opera aveva suscitato, si dedicò allo studio dei fiori… e a preparare una rivoluzione nel campo della botanica.
Tratto da: Jonathan Silvertown, La vita segreta dei semi, Bollati Boringheri