Pietro Laureano è una figura di spicco nel panorama internazionale; oltre ad essere architetto e urbanista è infatti consulente Unesco per le zone aride, la civiltà islamica e gli ecosistemi in pericolo. Ha vissuto nel Sahara per lo studio e il restauro delle oasi in Algeria e ha coordinato progetti in Yemen, Mauritania, Etiopia e in tutto il Mediterraneo. Ha insegnato nelle Facoltà di Architettura delle Università di Firenze, Algeri e Bari. È stato direttore scientifico del padiglione della Sete (SED) nell’ambito dell’Esposizione Universale di Saragozza del 2008 e attualmente rappresenta l’Italia nel Comitato Tecnico-Scientifico della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta contro la desertificazione (UNCCD).
Laureano ha inoltre promosso la realizzazione di una Banca Mondiale sulle conoscenze tradizionali e il loro uso innovativo ed è autore dei rapporti che hanno portato all’iscrizione dei Sassi di Matera e del Parco del Cilento nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO. Fra i suoi libri si segnalano La Piramide Rovesciata. Il modello dell’oasi per il pianeta terra (Bollati Boringhieri, 1995) e Atlante d’acqua. Conoscenze tradizionali per la lotta alla desertificazione (Bollati Boringhieri, 2001). Il Premio Internazionale Scritture d’Acqua gli viene assegnato anche per l’impegno diretto nel recupero degli ecosistemi urbani e alla salvaguardia del paesaggio.
Professor Laureano, lei è consulente Unesco per le zone aride, la civiltà islamica e gli ecosistemi in pericolo. Cosa l’ha portata ad interessarsi a queste tematiche? Un’esperienza particolare oppure una pura coscienza critica sviluppata nel tempo?
«L’evento particolare fu la richiesta rivolta ai laureati di architettura di Firenze di andare a collaborare a creare una città nuova in Algeria, sulla costa. Arrivato sul posto però mi accorsi che si trattava di speculazione edilizia. Ebbi comunque modo di visitare l’interno dell’Algeria e lì conobbi il deserto, che mi affascinò al pari dei popoli che ci vivevano e dall’architettura presente: c’erano tante strutture ed insediamenti, mentre il deserto è comunemente considerato vuoto.
Capii così che lì c’era qualcosa di diverso da quello che avevo immaginato e appreso fino a quel momento dai libri, ma fui cacciato dall’equipe perché ideologicamente contrario a costruire quelle case e feci ritorno in Italia. Il governo algerino aveva però apprezzato il mio interessamento e mi propose di lavorare nel deserto, in un’oasi. Cominciai con un periodo di due anni, poi insegnai urbanistica ad Algeri e infine arrivai a costruire l’idea dell’oasi come fatta dall’uomo. Questa teoria interessò molto l’Unesco, perché riscopriva un mondo culturale: l’oasi non come natura, ma come progetto umano. Da quel momento iniziai a lavorare per l’Unesco in zone aride come Yemen e Mauritania.
In Italia, decisi di fare uno studio sui Sassi di Matera proprio perché assomigliavano molto ai questi luoghi aridi, come Petra in Giordania. In quel periodo avevo conosciuto Astia, mia moglie (che viene dall’Africa), e ci andai con lei: comprammo una casa abbandonata e incominciammo a restaurarla. Non aveva senso ritornare a Firenze e lo studio si poteva fare solo rimanendo in loco. È forte l’analogia fra il deserto e Matera, la mia città. Nel Sahara, quando mi interessavo alle grotte, ai cunicoli e alle case di terra cruda, la popolazione me ne chiedeva il motivo. Io descrivevo allora le somiglianze fra i paesaggi: forse sono stato bene nel deserto perché c’era questa città nelle mie origini.»
A bruciapelo, emotivamente parlando, Matera o Sahara?
«Il Sahara. Forse perché i posti più consueti sono meno esotici, meno rudi. Matera era comunque dentro di me e quindi era consueta. Il Sahara è più grande, è una Matera ripetuta migliaia e migliaia di volte e ciò ti porta a farti delle domande. Poi, ripeto, è solo grazie al Sahara che sono stato in grado di capire Matera. Quando sono stato a Petra mi sono detto che dovevo riuscire a guardare la mia città nello stesso modo, con occhio estraneo e non dando niente per scontato.»
Lei ha lavorato nell’ambito dell’Esposizione Universale di Saragozza. Quante persone oggi soffrono la sete nel mondo? Il cittadino medio occidentale, quello al quale non manca l’acqua potabile, può fare qualcosa di concreto per migliorare la situazione?
«La sete c’è in tutto il mondo. Si calcola che trecento bambini al giorno muoiano per mancanza d’acqua potabile, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Ma il problema è presente anche dove paradossalmente ce n’è molta, ma non potabile perché paludosa o inquinata. Le tecniche non sono mai mancate: pensiamo ad esempio ai Maya, avevano grandi camere dove raccogliere l’acqua che affiorava in superficie. Quando arriva la modernità e le popolazioni diventano dipendenti dagli acquedotti, però, abbandonano e dimenticano queste pratiche.
A Petra, in tempi antichissimi, filtravano l’acqua con il carbone attivo, mentre a Matera si usava la calce. L’avvento della modernità fa perdere queste conoscenze: il mio lavoro consiste nel loro recupero. Altrimenti accade che l’acqua minerale viene venduta a tre euro al litro, quando con 50 centesimi se ne possono fare mille.
Ricapitolando, ci sono milioni di persone nel modo che non hanno accesso all’acqua e che quindi muoiono. Quello che possiamo fare noi è non alimentare questa politica di spreco, non creare un modello di consumo che sarebbe insostenibile se esteso su tutto il pianeta. Dobbiamo dimostrare che esistono modi diversi di consumare l’acqua. Io personalmente faccio una battaglia personale contro l’acqua minerale e vorrei che nelle abitazioni arrivasse l’acqua potabile solo in cucina e che nei bagni arrivasse solo quella non potabile, possibilmente quella piovana. L’acqua sprecata in uso domestico è il 90% di quella che utilizziamo e ci viene ‘riportata’ in casa a prezzi altissimi.»
Ma ci sono delle zone in Italia dove l’acqua del rubinetto non è buona…
«Non è vero. In genere gli acquedotti forniscono un’acqua buonissima, a volte quasi certamente migliore di quelle minerali, che non sono sottoposte a controlli rigidi come quelli che si effettuano negli impianti. Inoltre, per fare una bottiglia, si sprecano dieci litri d’acqua, quindi è più l’acqua consumata per fare il contenitore che quella in esso contenuta. Per non parlare del problema dei rifiuti che queste bottiglie producono una volta utilizzate.»
E da un punto di vista di salute?
«Secondo me è più sana quella del rubinetto. Per esempio l’acquedotto di Firenze sta mettendo delle cannelle pubbliche con acqua garantita ad altissima qualità. Quello che vorrei io è che si mettesse acqua come questa solo in cucina, e quindi solo per essere bevuta, tralasciando gli usi sanitari. Si abbatterebbero enormemente i costi e si creerebbe un modello sostenibile per i paesi del sud del mondo, che tendono ad imitarci. Siamo noi infatti che decidiamo gli standard e i modelli di consumo e tecnologici per il pianeta. Purtroppo intorno all’acqua gravitano enormi interessi, è il prodotto dove si fa più speculazione. 50 centesimi per un litro d’acqua. Ma vi rendete conto?»
Ci sono delle acque minerali, come l’acqua Fiuggi, che sono riconosciute come molto benefiche per l’organismo grazie al loro equilibrio di sali minerali.
«Sono medicine in realtà, dovrebbero essere utilizzate sotto controllo medico. Alcune, avendo determinate caratteristiche specifiche, fanno addirittura male. Se non basta, molte falde acquifere sono inquinate ed è quindi meglio bere l’acqua del rubinetto.»
A Parma l’acqua molto calcarea, è dannosa?
«Sì, bere troppa acqua eccessivamente calcarea può far male ad alcune persone. Dipende dai vari organismi: se un individuo ha un problema, ha bisogno di un’acqua di un certo tipo, se ne ha un altro, avrà bisogno di un altro. Per questo dicevo che può essere considerata come un medicinale. In ogni modo, il calcare si può abbattere utilizzando, ad esempio, dei filtri per uso domestico.»
Come mai la qualità dell’acqua, anche di una stessa città, varia da zona a zona?
«Dipende dalle rocce che attraversa, e non dalle tubature come si potrebbe pensare.»
Padre Alex Zanotelli a Napoli parla di «diritto all’acqua». Lei crede che ormai sia necessario parlare di un diritto all’acqua in questa società?
«In una situazione dove si specula su questa sostanza e in particolare sulle acque minerali si è arrivati al punto di dire che è un diritto e che se si nega questo diritto si nega la vita. La quantità di acqua vitale per ogni organismo (non solo per l’uomo, ma anche per le piante e per gli animali) deve essere garantita. Dopodichè gli sprechi possiamo farli pagare, tassando l’utilizzo dell’acqua che non sia per l’alimentazione.»
Crede che la crisi economica andrà ad aggravare le altre crisi già esistenti nel mondo, come appunto quella idrica?
«Le crisi si aggraveranno. Le strade possono essere due: la catastrofe o l’uscita in altro modo. Noi dobbiamo lottare perché se ne esca in questa seconda maniera, che sia salutare e deflazionistica.»
Di Giovanni Angileri e Gabriele Nicolus