Il telegrafista mezzo ubriaco, spalancò la porta.
– Un avviso dalla centrale, passa da casa mia – e sparì nella neve, nell’oscurità.
Tolsi da sopra la stufa le lepri, ben conservate, che avevo preso durante una escursione; una vera messe di lepri. Fai appena in tempo a tendere la trappola e il tetto della baracca è coperto, per metà, di lepri, lepri gelate. I lavoratori non avevano dove venderle, e come regalo – dieci corpi di lepri – non era troppo caro, né richiedeva compensi. E poi, come prima cosa, le lepri le dovevi scongelare. Adesso non avevo tempo per le lepri.
L’avviso della centrale, un telegramma, un radiotelegramma, un radiofonogramma con il mio nome era il primo telegramma dopo quindici anni. Mi sentii frastornato, come avviene in un villaggio di campagna dove ogni telegramma è tragico, legato alla morte. Mi si notificava la liberazione? No. Quando si tratta di rimettere in libertà non si va così di fretta. E poi ero stato liberato già da molto.
Andai dal radiotelegrafista che viveva in una specie di fortino, con tanto di feritoie, con un triplice steccato e tre cancelli con serrature e lucchetti che furono aperti dalla moglie. Mi inoltrai attraverso varie porte, prima d’arrivare all’abitazione; dopo l’ultima porta mi ritrovai in mezzo a uno strepito di ali, nel puzzo di sterco di volatili; mi feci strada in mezzo alle galline che sbattevano le ali e ai galli che cantavano; curvandomi e proteggendomi il viso, feci ancora un passo e varcai un’altra soglia, ma anche là il radiotelegrafista non c’era. C’erano maiali ben lavati e ben governati, un po’ più la scrofa e un po’ meno tre porcellini. Era l’ultimo ostacolo. Il radiotelegrafista era seduto tra cassette piene di piantimi di cetriolo e di cipolle verdi. Il radiotelegrafista si era attrezzato per diventare milionario. Nella Kolyma ci si arricchisce anche così. Il “rublo facile” erano la paga elevata, la razione polare1, il computo delle percentuali: questo era un mezzo. Il commercio della machorka e del tè erano un altro mezzo. L’allevamento di galline e di maiali era il terzo.
Costretto all’estremità del tavolo da tutta la sua flora e da tutta la sua fauna, il radiotelegrafista mi allungò una pila di fogli – erano tutti uguali – come un pappagallo che dovesse estrarre a sorte la felicità.
Frugai tra i telegrammi, ma non riuscivo a raccapezzarmi, non trovavo il mio e il radiotelegrafista con la punta delle dita trovò benevolmente il mio telegramma.
«Venite lettera», cioè venite a prendere una lettera: le poste avevano economizzato sulla forma, ma il destinatario capì, naturalmente, di cosa si trattava.
Andai dal capo del quartiere e gli mostrai il telegramma.
– Quanti chilometri?
– Cinquecento.
– Mah, allora…
– Me la sbrigo in cinque giorni.
– Bene. Fai presto. Non importa aspettare il camion. Domani gli jakuti ti porteranno a Baragon con loro, con i cani. Là ci sono le slitte con le renne. Se non stai a lesinare, quelli del servizio postale ti porteranno con loro. La cosa più importante è che tu raggiunga la trassa2.
– Bene. Grazie.
Uscii e capii che non avrei raggiunto la maledetta trassa, non sarei arrivato nemmeno a Baragon perché ero senza pellicciotto. Uno della Kolyma senza pelliccia. La colpa era mia. L’anno prima, quando fui liberato e lasciai il campo, il magazziniere Sergej Ivanovic Korotkov mi regalò un pellicciotto bianco quasi nuovo. Mi regalò anche un grosso guanciale. Ma nell’ansia di lasciare gli ospedali e andarmene sul continente, avevo venduto pellicciotto e guanciale, così, solo per non avere cose superflue la cui fine era sempre una sola: o te la rubano ò te le strappano di dosso.
Feci così. Ma non riuscii ad andarmene, l’ufficio quadri d’accordo con il mvd di Magadan non mi fece partire e io, finito il denaro, fui costretto a mettermi di nuovo al servizio del Dal’stroj. Così feci e venni nel luogo dove c’erano il radiotelegrafista e le galline svolazzanti e dove non ero ancora riuscito a comprarmi un pellicciotto. Chiederlo per cinque giorni a qualcuno… alla Kolyma ti ridono dietro se fai una richiesta del genere. Non restava che comprare un pellicciotto in paese.
Infatti trovai pellicciotto e mercante. Solo che il pellicciotto nero con un bel collo di pelle di pecora somigliava più a un giubbone imbottito; non c’erano tasche, non c’erano falde, c’era solo il collo e ampie maniche.
– Ehi tu, hai tagliato le falde, vero? – chiesi al venditore, al sorvegliante del lager Ivanov.
Ivanov era scapolo, tetro. Anche alle maniche aveva tagliato le falde – le ghette andavano di moda: con le falde dei pellicciotti avevano fatto cinque paia di manopole e ogni paio costava quanto un intero pellicciotto. Quello che restava non poteva davvero chiamarsi pellicciotto.
– La cosa mica ti riguarda. Io vendo pellicciotti. Per cinquecento rubli te lo compri. È una domanda superflua chiedere se ho tagliato le falde oppure no.
Giusto, la domanda era superflua, mi affrettai a pagare Ivanov e a portare a casa il pellicciotto. Me lo provai e mi misi ad aspettare la notte.
Il tiro dei cani, un rapido sguardo degli occhi neri dello jakuto, le dita rattrappite con cui mi attaccai alla slitta, il volo e alla prima svolta il fiumiciattolo, il ghiaccio, gli arbusti che battevano sul viso, dolorosamente. Ma ero ben attaccato, incollato alla slitta. Dieci minuti di volo, la stazione postale dove…
– Marija Antonovna, mi prenderanno con sé?
– Ti prenderanno con sé.
Ancora qui, l’anno scorso, in estate, si era perduto un ragazzetto jakuto di cinque anni e io e Marija Antonovna tentammo di iniziare le ricerche del ragazzetto. Ce lo impedì la madre. Stette a lungo a fumare la pipa, poi posò i suoi occhi neri su Marija Antonovna e me.
– Non si deve cercare. Verrà da sé. Non si è perduto. Questa è la sua terra.
Ed ecco anche le renne: i sonagli, le slitte, il bastone del kajur. Solo che questo bastone si chiama chorej e non ostol, come quello per i cani.
Marija Antonovna era così annoiata che accompagnava ogni viaggiatore lontano, oltre i confini del villaggio, ammesso che nella taiga si possa parlare di confini.
– Addio, Marija Antonovna…
Corro a fianco della slitta, anzi, mi abbasso, mi accuccio, mi attacco alla slitta, cado, corro di nuovo. Verso sera i fuochi della trassa, il frastuono degli automezzi che rombano correndo nell’oscurità.
Faccio i conti con gli jakuti, mi avvio verso un’obrogrevalka3. Ma la stufa non funziona: non ci sono legna. Ci sono tuttavia tetto e pareti. Qui di solito la gente fa la fila aspettando un passaggio per Magadan. Ora non c’è nessuna fila. Un uomo solo aspetta. Si sente il rumore di una macchina; l’uomo si slancia di corsa nell’oscurità; di nuovo il rombo del motore. L’uomo è partito. Tocca a me, ora, correre fuori, nel gelo.
Un camion da cinque tonnellate vibra: si è appena fermato per me. C’è un posto libero nella cabina. Viaggiare nel cassone, con un gelo simile e per un percorso così lungo non si poteva.
– Dove?
– Alla Riva sinistra.
– Non ti prendo. Porto carbone a Magadan e non vale la pena farti salire per la Riva sinistra.
– Ti pagherò per Magadan.
– Allora è un altro discorso. Sali. Conosci la tariffa?
– Sì, un rublo a chilometro.
– I soldi subito.
Presi i soldi e glieli detti.
La macchina si gettò nella bianca caligine, ma subito ridusse la velocità. Non si poteva andare avanti. La nebbia.
– Ci facciamo una dormita? Sull’“Evraška”.
– Cos’è l’“Evraška”?
– L’“Evraška” è la marmotta. È la stazione dei citelli.
Ci rannicchiammo nella cabina a motore acceso. Restammo lì fintanto che non si schiarì e la bianca caligine invernale non sembrò più così paurosa come la sera precedente.
– Ora faccio il cifir e poi partiamo.
Il guidatore bollì in un barattolo di conserva un pacchetto di tè, lo raffreddò nella neve e se lo bevve. Ne mise a bollire un secondo, se lo bevve e rimpiattò il barattolo.
– Andiamo.
– Di dove sei?
Glielo dissi.
– Ci sono stato anch’io. Ho anche lavorato come autista nel vostro distretto. Nel vostro campo, laggiù, c’è un vero farabutto; lvanov, un sorvegliante. Mi ha preso la pelliccia. Me la chiese, era freddo l’anno passato. Non lo vidi più. Nessuna traccia. Non me l’ha ridata. Ho mandato anche della gente a chiedergliela. Lui dice di non averla presa e basta. Ora troverò il tempo di andarci di persona. Una pelliccia bella, nera, di lusso. Perché se l’è tenuta lui? Ora ci farà le ghette e le venderà, vanno tanto di moda ora. Le avrei potute cucire io, le ghette. Ora invece non ci sono né pelliccia, né ghette, né Ivanov.
Mi girai, spiegazzando il collo del mio pellicciotto.
– Ecco, guarda, nera come la tua. Figlio d’un cane. Via, ora che abbiamo dormito diamo un po’ di gas.
Il camion volava, rombando, stridendo nelle curve; il cifir aveva rimesso in careggiata l’autista. Chilometro dopo chilometro, ponte dopo ponte, miniera dopo miniera. Era ormai chiaro, i camion si superavano, si incrociavano. Improvvisamente si sentì uno stridore, uno schianto, il nostro camion andò a finire sul ciglio della strada.
– Tutto quanto rovinato – balbettò l’autista, – carbone, cabina, fiancata, cinque tonnellate di carbone, tutto in malora.
Lui non aveva neppure uno sgraffio; io stesso non avevo capito lì per lì cosa era successo. Un camion, un Tatra cecoslovacco che veniva in senso contrario ci aveva investito. Sulla fiancata metallica del Tatra non c’era neppure un’ammaccatura. Gli autisti tirarono il freno e scivolarono fuori.
– Fai presto a fare il conto – gridò il conducente del Tatra –; quant’è il danno; il carbone, la fiancata. Pagheremo subito. Solo non si scrive niente, hai capito?
– Bene – disse il mio autista –. In tutto fa…
– D’accordo.
– E io?
– Ti farò accompagnare da qualcuno. Da qui ci sono quaranta chilometri; ancora un’ora di viaggio.
Acconsentii, mi sistemai nel cassone di un altro camion e feci un gesto con la mano all’amico del sorvegliante Ivanov.
Non avevo fatto a tempo a prendere sonno che già sentii il camion frenare. Riva sinistra. Scesi. Bisognava trovare un posto per la notte. Andai in un ospedale dove un tempo avevo lavorato. Nell’ospedale del campo gli estranei non potevano passare la notte; io ci andai solo per stare al caldo un minutino. Passò un infermiere diplomato che conoscevo e gli chiesi se potevo pernottare.
Il giorno dopo andai alla posta e mi consegnarono una lettera scritta con una grafia che ben conoscevo, rapidissima, volante e al tempo stesso precisa e leggibile.
Era una lettera di Pasternak.
1 L’espressione gergale “rublo lungo” (letteralmente dal russo dlinnyj rubl’) è usato per indicare guadagni importanti e facili. La “razione polare” è la quantità di beni alimentari spettanti ai liberi che andavano a lavorare nelle zone artiche.
2 Strada camionabile.
3 Locale di servizio riscaldato lungo le strade.
4 Boris Pasternak (1890-1960), tra i più grandi poeti russi del Novecento. Qui Šalamov accenna alla prima lettera, elogiativa, che Pasternak gli scrisse nel 1952, un anno dopo la sua liberazione dal lager. Per andarla a prendere Šalamov fece un viaggio di oltre 1500 km. Il grande poeta, adorato da Šalamov, aveva ricevuto a Mosca due quaderni di versi scritti da quest’ultimo alla Kolyma. Iniziò allora una corrispondenza e un rapporto personale tra i due durato fino all’inverno 1957. Sui rapporti tra Pasternak e Šalamov, si veda V. Šalamov-B. Pasternak, Parole salvate dalle fiamme – Ricordi e lettere, a cura di Luciana Montagnani, Rosellina Archinto editore, Milano 1993. La corrispondenza completa Šalamov-Pasternak è stata pubblicata in V. Šalamov, Sobranie Socinenii v Šestich Tomach, vol. 6, Terra, Mosca 2004-2005 (pp. 7-77)
Tratto da: Varlam Šalamov, I racconti della Kolyma, Storie dai lager staliniani, Cura e traduzione di Piero Sinatti