Nella storia religiosa della razza ariana europea il culto degli alberi ha avuto una parte importante. Nulla di più naturale, poiché agli albori della storia l’Europa era coperta di una immensa foresta primigenia, dove le sparse radure devono essere sembrate delle isolette in un oceano di verde. Fino al secolo I avanti Cristo, la selva Ercinia si estendeva dal Reno verso oriente per un’immensa e sconosciuta distanza; dei Germani, interrogati da Cesare, avevano viaggiato per due mesi attraverso di essa senza trovarne la fine. Quattro secoli più tardi fu visitata dall’imperatore Giuliano, e la solitudine, l’oscurità e il silenzio della foresta, sembra facessero una profonda impressione sul suo sensibile temperamento; egli dichiarò che non conosceva nulla di simile in tutto l’Impero romano. In Inghilterra le selve del Kent, del Surrey e del Sussex sono i resti della grande foresta di Anderida che ricopriva una volta tutto il sud-est dell’isola. Ad ovest sembra che si estendesse fino a unirsi con un’altra foresta che andava dallo Hampshire al Devon. Nel regno di Enrico II i cittadini di Londra andavano ancora a caccia al toro selvatico e al cinghiale nella selva di Hampstead. Sin sotto gli ultimi Plantageneti, le foreste regali ammontavano a sessantotto. Nella foresta di Arden si diceva che fino ai tempi moderni uno scoiattolo potesse andare da un albero all’altro per tutta la lunghezza del Warwickshire.
Gli scavi di antichi villaggi di palafitte nella valle del Po hanno mostrato che molto tempo prima del sorgere e probabilmente della fondazione di Roma, il nord dell’Italia era tutto coperto da fitte selve di olmi e di castagni e specialmente di querce. L’archeologia è qui confermata dalla storia, perché le opere degli scrittori classici contengono molte allusioni a foreste italiche ora scomparse. Fino al secolo IV a. C., Roma era divisa dall’Etruria centrale dalla temuta foresta del Cimino che Livio paragona alle selve della Germania. Nessun mercante, se vogliamo credere allo storico romano, era mai penetrato nella sua inaccessibile solitudine; e fu stimato grande ardire quando un generale romano, dopo aver mandato due vedette a esplorare i suoi intrichi, condusse l’esercito nella foresta e, aprendosi la strada fin dentro i gioghi dei boscosi monti, volse lo sguardo sulle ricche pianure etrusche che gli si stendevano ai piedi. In Grecia bei boschi di pini, querce e altri alberi rimangono ancora sulle pendici degli alti monti d’Arcadia, adornano ancora della loro verzura le profonde gole per cui il Ladon si precipita a raggiungere il sacro Alfeo, e fino a pochi anni fa si specchiavano ancora nel profondo azzurro del solitario lago di Feneo; ma non sono che piccoli residui delle grandi foreste dell’antichità che in un’epoca più remota ricoprivano forse tutta la penisola greca dall’uno all’altro mare.
Da un esame delle parole teutoniche significanti « tempio » il Grimm ha dimostrato che probabilmente tra i Germani i più antichi santuari non erano che boschi naturali. Comunque sia, il culto degli alberi è bene attestato fra tutte le grandi famiglie europee di razza ariana. Tra i Celti, il culto delle querce dei Druidi è familiare a ognuno, e la loro antica parola per santuario sembra identica nell’origine e nel significato al latino nemus, bosco o radura nel bosco, che ancora sopravvive nel nome di Nemi. Sacri boschetti erano comuni tra gli antichi Germani e il culto degli alberi non è del tutto estinto tra i loro discendenti di oggi. Quanto questo culto sia stato profondo nei tempi passati si può ricavare dalla pena feroce a cui le antiche leggi germaniche condannavano chi avesse osato strappare la corteccia di un albero. Si tagliava l’ombelico del colpevole, lo s’inchiodava a quella parte dell’albero che egli aveva scortecciato, e la vittima veniva trascinata intorno all’albero finché tutti i suoi intestini non si fossero avvolti intorno al tronco. Evidentemente il significato della punizione era di rimpiazzare la corteccia morta con un sostituto vivente preso dal colpevole; una vita per un’altra, la vita di un uomo per la vita di un albero. Ad Upsala, l’antica capitale religiosa della Svezia, vi era un boschetto sacro in cui ogni albero era considerato divino. Gli Slavi pagani adoravano alberi e boschi. I Lituani non si convertirono al cristianesimo che alla fine del secolo XIV e tra di loro in quel tempo il culto degli alberi era molto importante. Alcuni di essi veneravano delle grandi querce e altri grandi alberi ombrosi da cui ricevevano responsi d’oracolo. Alcuni conservavano dei sacri boschetti presso i loro villaggi e le loro case e persino spezzarne un rametto sarebbe stato peccato. Insegnavano che chi avesse tagliato un ramo di questi boschetti o sarebbe morto immediatamente o gli si sarebbe storpiato un membro. Molte sono le prove del culto degli alberi nella Grecia e nell’Italia antica. Nel santuario di Esculapio a Cos era proibito tagliare i cipressi sotto pena di mille dracme. Ma forse quest’antica forma di religione non era conservata in nessun luogo del mondo antico meglio che nel cuore della stessa grande metropoli. Nel foro, il centro degli affari della vita romana, il sacro fico di Romolo fu venerato sino ai tempi dell’Impero, e bastava che il suo tronco languisse per riempire la città di costernazione. Ugualmente sulle pendici del Palatino cresceva un corniolo che era stimato una delle cose più sacre di Roma. Se un passante si accorgeva che l’albero languiva, dava l’allarme a gran grida, la gente per le strade lo propagava e subito si vedeva da tutte le parti accorrere alla rinfusa una folla portando delle brocche d’acqua come se si fossero affrettati (dice Plutarco) a spegnere un incendio.
Tra le tribù di razza finnico-ugra, in Europa, il culto pagano si praticava per la maggior parte in sacri boschetti che erano sempre chiusi da una staccionata. Tali boschetti consistevano spesso in radure con pochi alberi sparsi nel mezzo, sopra cui in tempi antichi si appendevano le pelli degli animali sacrificati. Il punto centrale del boschetto, almeno tra le tribù del Volga, era l’albero sacro, di fronte a cui tutto il resto perdeva d’importanza. Davanti ad esso si riunivano gli adoratori e il sacerdote innalzava le sue preghiere; alle sue radici si sacrificava la vittima, e i suoi rami servivano spesso da pulpito. Nel sacro bosco non si poteva tagliare nessun pezzo di legno, né rompere nessun ramo e, in generale, alle donne era proibito d’entrarvi.
È necessario esaminare con qualche dettaglio le nozioni su cui si basa il culto degli alberi e delle piante. Per il selvaggio il mondo è tutto animato, e gli alberi e le piante non fanno eccezione alla regola. Egli crede che abbiano anime come la sua e li tratta di conseguenza. « Dicono – scrive l’antico vegetariano Porfirio, – che gli uomini primitivi conducessero una vita infelice, perché la loro superstizione non si fermava agli animali, ma si estendeva anche alle piante. Ma perché l’uccisione di un bove o di una pecora dovrebbe essere un peccato più grave che l’abbattimento di un pino e di una quercia, visto che anche negli alberi v’è radicata un’anima? ». Similmente gli indiani Hidatsa del Nord America credono che ogni oggetto naturale abbia il suo spirito o, meglio, la sua ombra.
A queste ombre si deve una certa considerazione o rispetto, ma non a tutte ugualmente. Per esempio, l’ombra del pioppo americano, il più grande albero della valle dell’alto Missouri, si crede abbia un’intelligenza, che, se convenientemente avvicinata, può aiutare gli Indiani in varie imprese; le ombre delle pianticelle e dell’erba non hanno importanza. Quando il Missouri, ingrossato dalle piogge di primavera, trascina via parte delle sue sponde e porta grandi alberi nella sua corrente impetuosa, si dice che lo spirito dell’albero pianga, mentre le radici stanno ancora attaccate alla terra e finché non cada con un tonfo nell’acqua. Tempo fa, gl’Indiani consideravano una cattiva azione l’abbattere uno di questi giganti, e quando c’era bisogno di grandi travi, usavano soltanto gli alberi già caduti. Fino a poco tempo fa i vecchi più creduli dicevano che molte disgrazie del loro popolo erano causate dalla moderna mancanza di rispetto per i diritti del pioppo vivente. Gli Irochesi credevano che ogni specie di alberi, piante, piantine, ed erbe avessero il loro spirito ed era loro costume di rendere grazie a questi spiriti. I Wanika dell’Africa orientale immaginano che ogni albero, specialmente ogni albero di cocco, abbia il suo spirito: « la distruzione di un albero di cocco è considerata equivalente al matricidio, perché quell’albero dà loro vita e nutrimento come la madre al figlio ». I monaci siamesi, credendo che vi siano anime dappertutto e che distruggere qualsiasi cosa ha l’effetto di spodestare un’anima, non romperebbero mai il ramo di un albero « così come non romperebbero il braccio di una persona innocente ». Questi monaci, naturalmente, sono buddisti. Ma l’animismo buddista non è una teoria filosofica; è semplicemente un comune dogma selvaggio incorporato nel sistema di una religione storica. Supporre, come il Benfey e altri, che le teorie dell’animismo e della trasmigrazione, correnti tra i rozzi popoli dell’Asia, derivino dal Buddismo, significa capovolgere i fatti.
Qualche volta sono soltanto particolari specie di alberi che si credono possedute da uno spirito. A Grbalj, in Dalmazia, si dice che tra i grandi faggi, le querce e altri alberi, ve ne sono alcuni dotati di spirito o di anima, e chiunque ne uccida uno deve morire all’istante o almeno restare malato per tutto il resto della vita. Se un boscaiuolo teme che l’albero che egli ha tagliato sia proprio uno di questi, deve tagliare la testa d’una gallina sul ceppo rimasto con la stessa scure con cui ha tagliato l’albero. Questo lo proteggerà da ogni danno anche se l’albero sia uno di quelli animati. I ceiba, che innalzano a meravigliosa altezza i loro stupendi tronchi molto al di sopra di tutti gli altri alberi della foresta, sono considerati con riverenza in tutta l’Africa occidentale, dal Senegal al Niger, e sono creduti esser la dimora di un dio o di uno spirito. Fra i popoli di lingua ewe della Costa degli Schiavi, il dio che ha la sua dimora in questo gigante della foresta si chiama Huntin. Gli alberi in cui specialmente egli abita – perché non ogni ceiba ha questo onore – sono circondati da una cintura di foglie di palma; e sacrifici di galline, e a volte anche di esseri umani, vengono legati al tronco o deposti ai piedi dell’albero. Un albero distinto da una cintura di foglie di palma non dev’essere tagliato o danneggiato in nessun modo, ed anche i ceiba che non sono creduti contenere un Huntin non possono essere abbattuti senza che il taglialegna gli offra prima un sacrificio di galline e di olio di palma per purificarsi dal sacrilegio che commette. Omettere il sacrificio è un’offesa che può essere punita di morte. Tra i monti Kangra del Punjab si soleva un tempo sacrificare ogni anno una fanciulla a un vecchio cedro, e le famiglie del villaggio fornivano la vittima a turno. L’albero fu tagliato non molti anni fa.
Se gli alberi sono dunque animati, essi sono anche necessariamente sensibili, e il tagliarli diventa una delicata operazione chirurgica che dev’essere eseguita con i più delicati riguardi possibili per le sensazioni del paziente, che altrimenti potrebbe farla pagare al trascurato o incapace operatore. Quando si abbatte una quercia, essa « emette delle strida o dei lamenti, che si possono udire lontano un miglio, come se il genio della quercia si lamentasse. Il signor E. Wyld li ha sentiti parecchie volte. » Gli Ojebway « tagliano raramente alberi vivi e verdi, per l’idea che dia loro dolore, e alcuni stregoni pretendono di aver udito il pianto degli alberi sotto la scure ». Alberi che sanguinano o emettono grida di dolore o d’indignazione quando son colpiti dall’ascia o bruciati s’incontrano spesso nei libri cinesi e anche nelle storie ufficiali. I vecchi contadini in alcune parti dell’Austria credono ancora che gli alberi della foresta siano animati, e non ne inciderebbero mai la corteccia senza una ragione speciale; essi hanno sentito dire dai loro padri che un albero sente il taglio quanto un uomo le sue ferite. Tagliando un albero gli domandano perdono. Si dice che anche nell’Alto Palatinato i vecchi boscaioli chiedono segretamente perdono a un albero sano prima di tagliarlo. Così in Jarkino il taglialegna chiede perdono all’albero che taglia.
Gli Ilocanes di Luzon (Filippine), prima di tagliare gli alberi della foresta vergine o delle montagne, recitano dei versi con questo significato: « Sta’ di buon animo, amico mio, se pure dobbiamo tagliare quel che ci è stato ordinato ». Fanno questo per non tirarsi addosso l’odio degli spiriti che vivono negli alberi e che possono vendicarsi mandando delle brutte malattie a chi deliberatamente li danneggi. I Basoga dell’Africa centrale credono che quando si taglia un albero lo spirito che l’abita adiratosi può causare la morte del capo e della sua famiglia. Per prevenire questo disastro prima di tagliare un albero consultano uno stregone. Se questi dà il nulla osta, il boscaiolo offre prima all’albero una gallina e una capra; poi, appena dato il primo colpo, applica la bocca al taglio e succhia un po’ della linfa. In tal modo stringe coll’albero una fratellanza, proprio come due uomini diventano fratelli succhiandosi rispettivamente il sangue. Dopo può abbattere senza pericolo il suo fratello albero.
Gli spiriti della vegetazione non sempre, però, sono trattati con deferenza e rispetto. Se le buone parole e i modi gentili non li commuovono, si ricorre spesso a più energiche misure. L’albero durian delle Indie orientali, il cui tronco liscio si eleva spesso a un’altezza di trenta metri senza produrre un ramo, porta un frutto del sapore più delizioso, ma del più disgustoso odore. I Malesi coltivavano l’albero per i suoi frutti e ricorrevano a una cerimonia speciale per stimolare la sua fertilità. Vicino a Jugra nel Selangor v’è un piccolo boschetto di alberi durian e in un giorno scelto apposta tutti gli abitanti del villaggio solevano riunirsi in esso. Allora uno degli stregoni del luogo prendeva un’accetta e tirava vari colpi al tronco del più sterile degli alberi dicendo: « Porterai frutti sì o no? Se non li porterai ti taglierò ». A questa minaccia l’albero rispondeva per bocca di un altro uomo che si era arrampicato su un mangostano vicino (sul durian non è possibile arrampicarsi): « Si, ora porterò frutti. Ti prego di non tagliarmi ». Similmente in Giappone per far produrre frutti agli alberi, due uomini se ne vanno nel frutteto. Uno di essi si arrampica su un albero e l’altro rimane ai piedi di esso con un’accetta. L’uomo con l’accetta domanda all’albero se l’anno venturo darà un buon raccolto, e minaccia di tagliarlo se non lo darà. A questo, l’altr’uomo risponde dietro i rami, in nome dell’albero, che darà un raccolto abbondante. Per quanto questo mezzo di frutticoltura ci possa sembrare stupido, esso ha la sua esatta corrispondenza in Europa. Alla vigilia di Natale più d’un contadino jugoslavo o bulgaro vibra minacciosamente un’accetta verso l’albero da frutta sterile, mentre un altr’uomo vicino a lui intercede per l’albero minacciato dicendo: « Non lo tagliare, porterà presto i frutti ». Tre volte l’accetta viene vibrata, e tre volte il colpo viene fermato dalla preghiera del suo intercessore. Dopo di che, l’anno seguente, l’albero, spaventato, certamente porterà i frutti.
La concezione degli alberi e delle piante quali esseri animati porta necessariamente a trattarli come maschio e femmina, così che possano essere maritati tra di loro nel senso reale e non soltanto figurativo o poetico della parola. Questa nozione non è puramente fantastica perché le piante, come gli animali, hanno i loro sessi e riproducono la specie per unione degli elementi maschili e femminili. Mentre in tutti gli animali superiori gli organi dei due sessi sono regolarmente separati fra i diversi individui, nella maggior parte delle piante coesistono insieme in ogni individuo della specie. Questa regola, tuttavia, non è affatto universale, e in molte specie la pianta maschio è distinta da quella femmina. Questa distinzione, sembra esser stata osservata da alcuni selvaggi perché i Maori « conoscono il sesso degli alberi, ecc., e hanno nomi distinti pel maschio e per la femmina di alcuni di essi ». Gli antichi conoscevano perfettamente la differenza tra il maschio e la femmina della palma dattifera, e la fecondavano artificialmente scuotendo il polline dell’albero maschio sui fiori della femmina. La fecondazione aveva luogo in primavera. Tra i pagani dello Harran, il mese in cui le palme venivano fecondate si chiamava « mese dei datteri » e in quel tempo celebravano la festività delle nozze di tutti gli dei e di tutte le dee. Ben diversi dal vero e fecondo matrimonio della palma sono i falsi e sterili matrimoni della superstizione indù. Per esempio, se un indù ha piantato un boschetto di manghi, né lui né sua moglie possono assaggiarne i frutti finché egli non abbia formalmente maritato uno degli alberi a un albero di specie diversa, comunemente un tamarindo, che cresca vicino al boschetto. Se non vi sono tamarindi per far da sposa, basterà un gelsomino. Le spese di tali nozze sono spesso considerevoli, perché più bramini sono invitati e più grande sarà la gloria del possessore del boschetto. Si sa di una famiglia che vendette tutte le sue gioie d’oro e d’argento e prese in prestito tutto il denaro che poté per maritare un mango a un gelsomino con la dovuta pompa. Alla vigilia di Natale i contadini tedeschi usavano legare insieme gli alberi da frutto con delle corde di paglia per farli produrre, dicendo che in tal modo venivano maritati.
Nelle Molucche, gli alberi di garofano in fiore vengon trattati come donne incinte. Non gli si può far rumore vicino, non gli si può passare accanto con un lume o con del fuoco; non si possono avvicinare con il cappello in testa, ma tutti se lo devono levare in loro presenza. Si osservano queste precauzioni per timore che l’albero si intimorisca e non porti più frutti, o li lasci cadere troppo presto, come il parto prematuro di una donna spaventata nella sua gravidanza. Così, in Oriente, il riso maturo è spesso trattato con gli stessi profondi riguardi di una donna incinta. Nell’Amboyna, (Molucche) quando il riso è in fiore, il popolo dice che è gravido e non spara fucili né fa altri rumori vicino al campo per timore che il riso così disturbato abortisca e il raccolto sia tutto paglia e niente grano.
Talvolta si crede che sian l’anime dei morti che animano gli alberi. La tribù Dieri dell’Australia centrale considera sacrosanti certi alberi che son supposti non esser altro che gli antenati trasformati: ne parlano con riverenza e stanno bene attenti perché non sian tagliati o bruciati. Se i coloni chiedono di tagliarli protestano violentemente dicendo che se lo facessero non avrebbero più fortuna e potrebbero esser puniti per non aver protetto i loro antenati. Alcuni abitanti delle isole Filippine credono che le anime dei loro antenati risiedano in certi alberi, che per conseguenza risparmiano. Se sono costretti a tagliarne uno, si scusano dicendo che è il prete che gliel’ha fatto fare. Gli spiriti prendon di preferenza la loro dimora in alberi alti e maestosi con grandi frondosi rami. Quando il vento stormisce tra le foglie, gli’indigeni dicono che è la voce degli spiriti e non passano mai vicino a uno di questi alberi senza inchinarsi rispettosamente e domandano perdono agli spiriti di aver disturbato il loro riposo. Tra gli Ignorroti ogni villaggio ha il suo albero sacro in cui risiedono le anime degli antenati del luogo. Si fanno all’albero delle offerte e ogni danno recatogli si crede porti al villaggio qualche sciagura. Se l’albero fosse tagliato, il villaggio e tutti i suoi abitanti dovrebbero inevitabilmente perire.
In Corea le anime di coloro che muoion di peste o per la strada, o delle donne che muoion di parto, prendono invariabilmente la loro dimora negli alberi. A tali spiriti si fanno offerte di dolci, vino e carne di maiale su monticelli di sassi accumulati sotto gli alberi. In Cina è stata usanza da tempo immemorabile di piantar degli alberi sulle tombe per rinforzare l’anima del morto e salvare il suo corpo da corruzione; e poiché i sempreverdi cipressi e i pini sono stimati aver più vitalità di tutti gli altri alberi, sono stati scelti di preferenza a questo proposito. Così, gli alberi che crescono sulle tombe sono talvolta identificati con le anime dei morti. Tra i Miao-Kia, una razza aborigena della Cina del sud e dell’ovest, vi è, all’entrata di ogni villaggio, un albero sacro, e gli abitanti credono che sia abitato dall’anima del loro primo antenato, che governa i loro destini. Talvolta v’è un sacro boschetto vicino al villaggio dove gli alberi si lasciano infradiciare e morire senza toccarli. I loro rami caduti ingombrano il suolo e nessuno li può levare senza averne prima domandato il permesso allo spirito dell’albero e avergli offerto un sacrifizio. Tra i Maravi dell’Africa australe, la terra dei sepolcri è sempre considerata come un luogo santo dove non si può tagliare un albero né uccidere un animale, perché ogni cosa è ivi supposta abitata dalle anime dei morti.
Lo spirito è considerato come incorporato nel legno, anima l’albero e deve soffrire e morire con lui. Ma secondo un’altra e, probabilmente, più tarda opinione, l’albero non è il corpo ma semplicemente la dimora dello spirito arboreo, che può a suo piacere lasciarla e tornarci. Gli abitanti di Siaoo, un’isola delle Indie orientali, credono in certi spiriti silvani che abitano nelle foreste o nei grandi alberi solitari. Al plenilunio lo spirito esce fuori dal suo nascondiglio e va errando all’ingiro. Ha una grossa testa, braccia e gambe lunghissime, ed un corpo voluminoso. Per propiziarsi gli spiriti silvani, si portano ai luoghi che essi frequentano offerte di cibo, galline, capre e via dicendo. Gli abitanti di Nias, presso Sumatra, credono che quando un albero muore, lo spirito che se ne libera diventa un demonio, il quale può uccidere una palma di cocco soltanto col posarsi sui suoi rami e causare la morte di tutti i bambini di una casa appollaiandosi sopra uno dei travi che la sostengono. Credono inoltre che certi alberi sono costantemente abitati da errabondi demonî, che, se gli alberi fossero danneggiati, resterebbero liberi di vagare pel mondo operando il male. Per questo il popolo rispetta quegli alberi e sta ben attento a non tagliarli.
Non poche cerimonie osservate al taglio di alberi indemoniati si basano sulla credenza che gli spiriti possano lasciarli a loro piacere o in caso di pericolo. Così quando gli abitanti delle isole Pelew tagliano un albero esorcizzano lo spirito a lasciar l’albero e a cercarsene un altro. Gli astuti negri della Costa degli Schiavi, quando vogliono tagliare un albero ashorin, sapendo che non possono farlo finché vi rimanga lo spirito, metton in terra come esca un po’ di olio di palma, e quando l’ingenuo spirito lascia l’albero per succhiarsi la leccornia, si affrettano a tagliare la sua dimora. Quando i Toboong-koo del Celebes voglion tagliare un tratto di foresta per piantare il riso, costruiscono una minuscola casetta e ci mettono dei vestitini, del cibo e dell’oro. Poi chiamano tutti gli spiriti del bosco, offrono loro la casetta con tutto quel che contiene, e li pregano di lasciare il luogo. Dopo di che possono in tutta sicurezza abbattere il bosco senza paura di ferirsi così facendo. Allo stesso modo i Tomori, altra tribù del Celebes, prima di tagliare un alto albero, gli mettono ai piedi un po’ di betel e invitano lo spirito dell’albero a cambiar casa. Per di più appoggiano al tronco una scaletta per farlo scendere comodamente. I Mandeling di Sumatra cercano di far cadere la responsabilità di tali misfatti sul capo delle autorità olandesi. Così quando un uomo deve aprire una strada in una foresta e deve abbattere un alto albero che gli blocchi la strada, non comincerà a menar la scure finché non abbia detto: « Spirito che abiti in quest’albero, non te l’avere a male che io abbatto la tua casa, perché non lo faccio di mia volontà ma per ordine del governatore ». E quando vuol radere un tratto di foresta per le piantagioni bisogna che venga a un’intesa con gli spiriti silvani che vi abitano, prima di buttar giù le loro frondose dimore. Per far questo si reca nel mezzo del bosco da tagliare, si china a terra e finge di raccogliere una lettera. Poi, spiegando un foglio di carta, legge forte un’immaginaria lettera del governo olandese, nella quale gli viene perentoriamente ordinato di tagliare la selva. Infine dice: « Spiriti! Avete udito? Devo cominciar subito a tagliare, altrimenti sarò impiccato ».
Anche quando un albero è stato tagliato, segato in tavole e usato per costruire una casa, è possibile che lo spirito silvano resti ancora nascosto nel legno; per questo i Toradja del Celebes quando entrano in una casa nuova uccidono una capra, un porco o un bufalo e spalmano tutto il legno del suo sangue. Se la casa è un lobo, o casa degli spiriti, uccidono una gallina o un cane sul culmine del tetto e ne fan gocciare il sangue dalle due parti. I Tonapù, più rozzi, in questi casi sacrificano sul tetto un essere umano. Il sacrificio sul tetto di un lobo o tempio serve allo stesso scopo che lo spalmare il sangue sul legno di una casa comune, e cioè a propiziarsi gli spiriti silvani che possono essere rimasti nel legno; questi vengon così messi di buon umore e non faranno alcun danno agli abitanti della casa. Per la stessa ragione gli abitanti del Celebes e delle Molucche han paura di piantare un trave capovolto nella costruzione d’una casa, perché lo spirito delle foreste che potrebbe esser rimasto nel legno si risentirebbe naturalmente dell’indegnità e farebbe del male agli inquilini. I Kayan del Borneo credono che gli spiriti arborei siano molto suscettibili in materia di onore, e fan pagare cara agli uomini ogni offesa recata loro. Dopo aver costruito una casa, per la quale sono stati obbligati a trattar male molti alberi, questo popolo si sottomette a un periodo di espiazione per un anno, durante il quale si astiene da molte cose, come uccidere orsi, tigri e serpenti.
tratto da: 2425, trad. it. Lauro De Bosis, vol I, cap. IX, Torino 1973.
Prima edizione The Golden Bough. A study in Magic and Religion, New York and London 1890.