Andare per campagne non è più una gioia. Improvvisamente, qualcosa è cambiato in un paesaggio che non cambiava da quattromila anni, quello delle terre coltivate, e l’anima dell’uomo si è rattristata.
Pensavamo, vivendo nelle città, che sarebbe sempre esistito, lontano dal maleficio delle vie, dai grandi serpenti cloacali, dagli anelli periferici dove un muro invisibile fermava i tram, dalle concentrazioni di sforzi e di pena, di crudeltà e di godimento troppo elevate, un mondo non tutto contaminato, un dolore meglio sopportato, una miseria più pulita, una fatica meno impura, una benda per le ferite dei nervi, una possibilità d’incominciare una vita diversa, una riserva inesauribile di nutrimento fresco e di acque, una religione astrale delle consuetudini che ci scampasse dai cambiamenti troppo rapidi, spegnesse nell’indifferenza le febbri della capitale, non tradisse la fedeltà di chi nasceva e le speranze di chi gli si convertiva. Tutto questo chiamavamo campagna. Averla conosciuta prima che un malvagio incantesimo la stringesse, mentre la città franava nella catastrofe, è stato un bene perfetto, anche se una felicità bevuta è sempre madre di eccessivo rimpianto, e credo siano da compiangere le generazioni che ormai, nate o non nate in campagna, potranno vederla soltanto come un prolungamente, una gareggiante metastasi della città, una pagina di etnografia incollata sui miasmi, un malinconico diorama di vita animale e vegetale ammorbata e disseccata.
Una delle più offensive stupidità che si sentano dire dalla malavita laureata, indottrinata e disumanizzata è che bisogna ridurre sempre più l’antitesi città-campagna. Non è certo come un impossibile ritrapiantarsi di orti e di ulivi nei morti tessuti urbani che questa ottusa canaglia immagina la sua riduzione dell’antitesi. Sa che si tratta di una via a senso unico: l’estensione dei mali urbani (frettolosamente elencabili come inquinamento totale, sradicamento, perdita dei mestieri e del rapporto commerciale, infoltimento del crimine, depressione del rigettato, naufragio nel rumore) a ogni resto, a ogni avanzo, a ogni barlume superstite di campagna.
La conosco questa campagna dove si è venuta via via riducendo la famosa antitesi, e davanti ai suoi tratti deturpati l’orrido puro, il deforme puro, la malattia assoluta della città mi sembrano meno laidi e meno sconfortanti. È una campagna che somiglia a una bambina bellissima, che un cancro ha devastato in un solo lato del viso, cancellandone un occhio, e lasciando l’altro aperto per lo stupore e il silenzioso rimprovero. È una campagna umiliata, sofferente, che si vergogna di non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica l’avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali, esseri umani, piante, suolo, acque d’irrigazione, acque profonde. La gente che rimane accetta tutto, con una passività di pollaio: non è felice, ma non sa reagire all’incantesimo. Va allo spaccio dei veleni e li compra a quintali, per spargerli gelidamente sulle colture. Telefona all’elicottero e lo invita ad avvelenargli la proprietà. Con gli anticrittogamici di alta tossicità, con le macchine agricole a nafta, s’introduce i veleni nella pelle, nel sangue, nei polmoni. La morte dei campi è fruttuosa: le patate dell’Angelus si ritirano al Bancomat.
Ma il male urbano, che sta dirigendo i suoi raggi di morte su tutte le campagne, è così profondo che non si può misurarlo tutto e con precisione. Il mio piccolo catalogo di mali è soltanto un’osservazione di giornalista che non ha tempo e arte di vedere altro prima di ripartire. Il quadro dei sintomi non ci dà la chiave di questa lebbra, che si sottrae alla nostra penetrazione razionale. C’è un ballo di sintomi da fare impazzire le diagnosi. Il moderno male urbano è forse soltanto uno dei grandi momenti di libidine e di straripamento del Male, fondamento del mondo, dal quale l’illusione della campagna come realtà permanente, rifugio sempre pronto, distacco fisico dal miasma (esemplare la fuga in villa dalle città colpite dal colera o dai bubboni), divinamente, coi suoi paesaggi antitetici, le sue libertà promesse, ci distoglieva.
Questa illusione so che non la ritroverò più uscendo dalla città e andando verso la campagna. So di agitarmi sempre, qualunque strada pigli, nella stessa prigione. La ritrovo leggendo qualche poeta, che ha avuto la fortuna di poter trascrivere la pienezza dell’illusione nel proprio linguaggio, dove non si è perduta, Virgilio, Leopardi o Verlaine, e guardando qualche pittura, dove si vedono paesaggi inverosimili, vere Gerusalemmi celesti, meraviglie edeniche (e sono soltanto inverni ed estati), in cui il guasto umano nella natura, lacerazione lontana, incancellabile, si presenta in deliziosi e musicali travestimenti, addirittura come l’attuarsi dell’ordine divino nel caos; e so che la vera campagna è ferma nel gioco di quella finzione, e che la fuga in lei non è più possibile se non passando attraverso gli specchi lontani che la rifransero.
Tratto da: Guido Ceronetti, La carta è stanca, Adelphi