«Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next big one, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile. Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà trenta, quaranta milioni di vittime?»
Era il 2012 quando David Quammen scriveva queste parole nel suo saggio “Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic”, un viaggio “dentro” le epidemie della storia, e a rileggerle oggi suonano come una profezia. Niente del genere, solo una riflessione o, meglio, una domanda critica, maturata attraverso studio e osservazione: gli spillover – i salti di specie – non sono certo una novità nella storia delle malattie infettive – si pensi a HIV, Ebola, Sars – ma vanno letti oggi in un contesto planetario dove le distanze, tra luoghi geografici, esseri umani, mondo animale e addirittura quelle con l’ambiente selvaggio, si sono accorciate. E le possibilità di queste “tracimazioni” da una specie animale all’uomo di conseguenza aumentano.
Quella di Quammen è una prospettiva descrittiva ma è anche, per chi vuole intendere, un richiamo alla responsabilità individuale e collettiva: l’intero saggio ritorna su quel legame fluido, circolare, inevitabile tra creature che abitano lo stesso pianeta, sull’interdipendenza di ciascuno dall’altro: «siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia». E così facendo rende evidente il ruolo dell’uomo come detonatore di tali eventi, che con il suo spingersi oltre i limiti ambientali turba gli ecosistemi, rompe l’equilibrio di una salute globale. Ne scrive Quammen anche recentemente in un suo editoriale pubblicato il 28 gennaio scorso dal New York Times[2]: «we must remember, when the dust settles, that nCoV-2019 was not a novel event or a misfortune that befell us. It was — it is — part of a pattern of choices that we humans are making». Già, non si tratta di sfortuna né di eventi prettamente accidentali, ma c’è in gioco la responsabilità delle nostre azioni, la visione di un senso del limite e del rispetto. È in quest’ottica che lo abbiamo intervistato, per guardare con lui alla salute globale, all’Africa e al ruolo che le organizzazioni di cooperazione internazionale possono e devono avere in questi delicati equilibri internazionali e interdisciplinari.
Il paradigma che dovrebbe guidare le scelte politiche e operative ora più che mai è quello della cosiddetta “One Health”, un approccio collaborativo e interdisciplinare tra ambiente, ecosistema umano ed ecosistema animale. Ma non è sempre così. Cosa non funziona e perché si prevede per il prossimo futuro di dover affrontare sempre più spesso epidemie di origine zoonotica?
Viviamo in un mondo popolato da virus, virus sconosciuti, dei quali non abbiamo informazioni. Ogni animale, ogni specie di pianta, o varietà di fungo o batterio, ciascuno di loro ha propri virus ma le persone non lo sanno. Si pensa ai virus come qualcosa di intrinsecamente pericoloso, quando invece la maggioranza di loro non crea alcun danno alla salute dell’uomo. Da sempre siamo entrati in contatto con virus presenti nell’ambiente naturale, così come da sempre l’uomo cacciatore è venuto a contatto con animali selvatici, niente di nuovo da questo punto di vista. Quel che è cambiato radicalmente però è che ora noi uomini siamo molti di più: 7,8 miliardi di persone sullo stesso pianeta, veloci, affamati, potenti anche grazie alle tecnologie e soprattutto capaci di distruggere l’ambiente naturale intorno a noi, rubandone le risorse, uccidendo gli animali, distruggendo le foreste. Quindi continuiamo a fare ciò che in qualche misura gli uomini hanno sempre fatto, ma ora lo facciamo su scala immensamente più vasta con le conseguenze che ne derivano. Primo tra tutti è il rapporto con gli animali selvatici con cui entriamo in contatto: li catturiamo, uccidiamo, a volte li trasportiamo vivi nei mercati, persino in altri paesi, e così facendo esponiamo noi stessi a virus per noi nuovi. Né gli animali né i virus cercano l’uomo: siamo noi che andiamo a cercarli entrando nei loro ambienti naturali e fornendo così loro la possibilità di diventare virus anche dell’uomo. È così che avviene quello che chiamiamo spillover, il salto di specie: un virus che prima stava nel suo habitat coglie l’opportunità di replicarsi anche in una nuova specie, per esempio nell’uomo, come avvenuto ora. È un virus “vincitore” perché è riuscito a conquistare l’uomo.
Sono molti più di quanti si creda i virus che hanno un’origine animale, non solo influenza suina o aviaria, ma anche febbre del Nilo, HIV, Marburg e Ebola. Il Cuamm si è trovato nel 2005 a fronteggiare un’epidemia di Marburg in Angola, dove ha perso la vita anche una pediatra dell’organizzazione. E nel 2014 a fronteggiare Ebola in Sierra Leone. Cuamm non ha abbandonato il campo lavorando da un lato sull’identificazione, tracciamento e cura di casi sospetti e dall’altro mantenendo aperti i servizi sanitari di base, per evitare il collasso. Cosa può fare un’organizzazione come Cuamm che lavora per il rafforzamento dei sistemi sanitari?
Quello che Cuamm sta facendo nelle aree a sud del Sahara è di grande valore e risponde alla necessità di assistenza sia in termini di risorse economiche che di competenza, per poter rafforzare i sistemi sanitari dei paesi più fragili. Nella situazione attuale il vostro impegno si è rivolto a contenere l’emergenza informando le popolazioni locali sui rischi di Covid e preparando ospedali e centri sanitari per contenere l’epidemia. È esattamente ciò che andrebbe fatto per rispondere e controllare le epidemie con un sistema sanitario locale e nazionale preparato. Prendiamo il caso di Ebola nel 2014: l’epidemia si sarebbe potuta contenere, così come avvenuto altrove con altri focolai di malattia, eppure nell’Africa Occidentale non è andata così. Il virus non era certamente diverso e nemmeno la trasmissione: ma quei tre paesi – Sierra Leone, Liberia, Guinea – venivano da vent’anni di guerra civile che aveva devastato i sistemi sanitari e non avevano alcuna risorsa per poter rispondere a un’emergenza. Questo mette in luce un fattore su cui sarà determinante riflettere una volta usciti dall’attuale pandemia ed è la necessità di un sistema di sorveglianza internazionale coordinato con una risposta rapida di fronte a focolai ed emergenze, in modo da contenerli prima che si trasformino in vere e proprie epidemie, soprattutto nei paesi più critici. Questo significa necessariamente un’azione coordinata tra organizzazioni di cooperazione sanitaria internazionale, come Cuamm ad esempio, agenzie nazionali e internazionali, Organizzazione Mondiale della Sanità e anche altre organizzazioni non profit indipendenti trovando un modo di collaborare più efficace di quanto fatto finora. Solo così se si troverà che 20 persone in un villaggio sperduto del Sud Sudan hanno una febbre misteriosa che non è malaria ma che sembra “qualcosa di mai visto”, si individuerà subito che è un virus nuovo e si prenderanno le misure corrette per contenerlo. Serve una sorveglianza attiva e rapida perché il virus venga subito isolato, lo si possa sequenziare e riconoscere, condividendo la conoscenza a livello globale. E con un meccanismo del genere si potrà subito iniziare a sviluppare un vaccino, evitando che un focolaio diventi pandemia.
Cuamm si spende in Africa ma anche a livello internazionale per promuovere la salute globale come cornice culturale. In questo senso collabora anche con università italiane ed europee proponendo a studenti di medicina e giovani medici corsi di formazione sul tema della salute globale. Che ruolo avrà la salute globale ora che tutti hanno visto come un piccolo virus da Wuhan può infettare tutto il mondo. Cosa deve cambiare ora?
Il concetto di one health non è un programma né un pacchetto di azioni specifiche, potremmo considerarlo una filosofia, un modo di pensare. Non esiste la salute dell’uomo separata dalla salute degli animali, ma esiste solo la one health, un equilibrio tra le due. Nel nostro mondo globalizzato siamo tutti vicini: se in Cina si muore per un nuovo virus, nel resto del mondo le persone non possono semplicemente pensare di proteggersi chiudendo gli aeroporti, perché comunque il virus arriverà. Non è pensabile risolvere il problema in modo individuale, ciascun paese secondo i propri tempi e modi: possiamo solo farlo tutti insieme. È la salute globale.
Nel pieno della crisi causata dall’attuale virus Sars-Cov-2 si discute da approcci da attuare di fronte alle minacce virali possibili: l’approccio reattivo che interviene ai primi segnali per arginare la possibile epidemia oppure un approccio di sorveglianza, quasi un atlante dei virus, come descrive il Global Virome Project per conoscere il nemico “prima che emerga”. Quale delle due strade si rivelerà più efficace e soprattutto percorribile? Le differenze tra paesi del nord e del sud sembrano infatti non consentire la stessa opportunità.
Circa un mese fa Dennis Carrol, che guida il Global Virome Project, mi ha parlato dell’importanza della ricerca e individuazione di virus, ottenuta tracciando e analizzando campioni di animali in ecosistemi diversi per individuare quali virus esistano e quali caratteristiche abbiano, per poi capire quali di questi possano essere più pericolosi per l’uomo, per esempio perché hanno la capacità di adattarsi ed “entrare” nelle cellule umane, come fatto dall’attuale coronavirus.
Dall’altro lato esiste una scuola di pensiero totalmente diversa, rappresentata da un virologo dell’evoluzione di altissimo livello, Edward C. Holme (University of Sidney, Australia). Holme e i suoi colleghi non credono che la mappatura dei virus esistenti nel mondo sia la strada più efficace. Piuttosto Holme crede nel meccanismo della sorveglianza attiva, che significa osservare ciò che accade e reagire non appena si verifica uno spillover. Di fronte a un salto di specie, “suona l’allarme” globale e le risorse vengono convogliate nella stessa direzione per contenere l’epidemia nel villaggio o nell’area in cui si è verificata.
Si tratta di due idee e approcci completamente diversi, proposti da professionisti che stimo molto, le cui idee si fondano su studi e argomentazioni solide, entrambe pubblicate e in riviste scientifiche prestigiose. Non posso dire che uno abbia ragione e uno torto e sarà interessante seguire questa discussione e scambio.
Di Chiara Di Benedetto e Andrea Atzori, Medici con l’Africa Cuamm
Bibliografia
L’edizione originale è stata pubblicata nel 2012 da W. W. Norton & Company, New York. L’edizione italiana “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” è stata pubblicata nel 2014 da Adelphi.
Quammen D. We Made the Coronavirus Epidemic. New York Times, 28.01.2020
L’intervista è stata registrata il 28 maggio 2020 per la rivista di Medici con l’Africa Cuamm “Salute e Sviluppo” e la riproponiamo qui in versione integrale.
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