Paul Bowles

Pedalavano lentamente, percorrendo la lunga strada in direzione dell’apertura nella bassa catena di monti a sud della città. Dove le case terminavano cominciava la pianura, un mare di pietre su entrambi i lati. L’aria era fresca, il vento asciutto del tramonto soffiava contro di loro. La bicicletta di Port cigolava lievemente ad ogni pedalata. Non parlavano, e Kit procedeva un po’ più avanti. In distanza, alle loro spalle, qualcuno suonava la tromba; una ferma, vivida lama di suono nell’aria. Perfino ora, quando tra poco più di mezz’ora sarebbe scomparso, il sole scottava. Arrivarono a un villaggio, lo attraversarono. I cani abbaiavano furiosamente e le donne si giravano in là, coprendosi la bocca. Soltanto i bambini rimanevano a fissarli, paralizzati dalla sorpresa. Al di là del villaggio, la strada cominciava a salire. Si rendevano conto della pendenza soltanto per lo sforzo di pedalare: all’occhio, il terreno si presentava piatto. Ben presto Kit si sentì stanca. Si fermarono, si girarono a guardare al di là della piana apparentemente uniforme, verso Boussif, uno schema di bruni isolati alla base delle montagne. La brezza era sempre più tesa.
«È l’aria più fresca che si possa respirare», disse Port.
«Davvero meravigliosa», convenne Kit. Era in uno stato d’animo amabile, sognante, e non si sentiva molto in vena di parlare.
«Vogliamo tentare di arrivare fino al passo, laggiù?», disse Port.
«Tra un istante. Giusto il tempo di riprendere fiato».
Poco dopo ripartirono, pedalando decisi, gli occhi fissi sullo squarcio del crinale di fronte a loro. A mano a mano che si avvicinavano, potevano già intravedere il piatto e sconfinato deserto che si stendeva oltre, rotto qua e là da aguzze creste di roccia che si levavano al di sopra della superficie, simili a pinne dorsali di altrettanti mostruosi pesci che si muovessero tutti in una stessa direzione. La strada era stata aperta con la dinamite attraverso la cima della dorsale, e i massi frastagliati erano scivolati a valle su entrambi i lati del taglio. Lasciarono le biciclette di fianco alla strada e presero ad arrampicarsi sempre più in alto tra quei massi enormi, diretti proprio in cima. Il sole era ormai all’orizzonte; l’aria era soffusa di rosso. Nell’aggirare uno di quei massi piombarono inaspettatamente su un uomo, che se ne stava a sedere con il burnus tutto rialzato intorno al collo – per cui era nudo dalle spalle in giù – e intento a radersi i peli pubici con un lungo coltello appuntito. l’uomo guardò in su con indifferenza, quando gli passarono davanti, e riabbassò immediatamente la testa per continuare la delicata operazione.
Kit prese per mano Port. Salivano in silenzio, felici di essere insieme.
«Il tramonto è un’ora così triste», osservò a un tratto lei.
«Se guardo morire una giornata – una qualsiasi – ho sempre la sensazione che sia la fine di un’intera epoca. E l’autunno! Potrebb’essere addirittura la fine di tutto», disse Port. «Ecco perché detesto i paesi freddi, e amo quelli caldi, dove non c’è l’inverno, e quando scende la sera hai come l’impressione che la vita si schiuda, invece di chiudersi. Non è così anche per te?»
«Sì», disse Kit, «Ma non sono ben sicura di preferire i paesi caldi. Non lo so. Tutto sommato ho quasi l’impressione che sia sbagliato cercare di sfuggire al buio e all’inverno, e che se lo fai dovrai poi scontarlo, in qualche modo».
«Oh, Kit! Tu sei proprio pazza!». L’aiutò su per il fianco di una bassa rupe. Il deserto si stendeva direttamente sotto di loro, molto più in giù della piana dalla quale si erano appena inerpicati.
Lei non rispose. La rattristava rendersi conto che, pur avendo tanto spesso le stesse reazioni, gli stessi sentimenti, non arrivavano mai alle medesime conclusioni, perché i loro rispettivi scopi, nella vita, erano quasi diametralmente opposti.
Sedettero l’uno accanto all’altro sulla roccia, a contemplare la vastità sottostante. Kit infilò il braccio in quello di Port e appoggiò la testa contro la spalla di lui. Port si limitò a fissare dritto davanti a sé, poi sospirò, e infine scosse lentamente la testa.
Erano i luoghi come quello, i momenti così, ch’egli amava sopra ogni altra cosa nella vita; Kit lo sapeva, e sapeva anche che li amava di più se c’era lei presente, a sperimentarli con lui. E sebbene fosse ben consapevole che quegli stessi silenzi, quegli stessi luoghi deserti che gli toccavano il cuore la riempivano di sgomento, non sopportava di sentirselo ricordare. Era come se ogni volta gli rinascesse la speranza che anche lei potesse sentirsi affascinata nello stesso modo dalla solitudine e dalla vicinanza con l’infinito. Spesso le aveva detto «È la tua unica speranza», e Kit non era mai ben certa di che cosa intendesse dire. A volte pensava che intendesse alludere all’unica speranza per lui, che soltanto se fosse stata in grado di diventare com’egli era, sarebbe riuscito a ritrovare la via dell’amore, dato che amore, per Port, voleva dire amare lei: l’eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno. E da tanto tempo, ormai, l’amore non c’era, ne era mancata la possibilità. Ma nonostante la volontà di diventare come egli voleva che lei diventasse, Kit non poteva cambiare fino a quel punto: il terrore era sempre dentro di lei, pronto a prendere il sopravvento. Era inutile pretendere il contrario. Ma proprio come lei era incapace di scrollar via lo sgomento che sempre l’accompagnava, Port era incapace di liberarsi dalla gabbia in cui da se stesso si era chiuso, la gabbia costruita tanto tempo prima per salvare se stesso dall’amore.
Kit gli serrò il braccio. «Guarda là!», bisbigliò. A soli pochi passi da loro, seduto in cima a un masso, così immobile che non lo avevano notato, c’era un arabo venerando, le gambe ripiegate sotto di sé, gli occhi chiusi. Pensarono dapprima che potesse essersi addormentato, nonostante la posizione eretta, dato che non dava segno d’essere consapevole della loro presenza. Ma poi videro che le labbra si movevano quasi impercettibilmente, e capirono che stava pregando.
«Ma è giusto rimanere qui a osservarlo?», domandò lei, con voce sommessa.
«Che male c’è? Ce ne staremo tranquilli». Le posò la testa in grembo e rimase disteso a fissare il cielo limpido. Con mano leggera, lei prese ad accarezzargli i capelli. Il vento che soffiava dalle regioni sottostanti andava rinforzandosi. Lentamente, il cielo perdeva la sua intensa luminosità. A un tratto Kit lanciò un’occhiata all’arabo; non si era mosso. Improvvisamente, venne presa dal desiderio di tornare, ma continuò per qualche tempo a rimanere perfettamente immobile, guardando teneramente il capo inerte sotto la sua mano.
«Sai», disse Port, e la sua voce sonò irreale, com’è facile che accada alle voci dopo una lunga pausa in un luogo estremamente silenzioso, «il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida lassù, che ci protegge da quello che c’è dietro».
Kit rabbrividì lievemente nel ripetere: «Da quello che c’è dietro?».
«Sì».
«Ma che cosa c’è, dietro?». La sua voce era fievole fievole.
«Niente, credo. Soltanto oscurità. Notte assoluta.»
«Ti prego, non parlarne proprio ora». C’era angoscia nella richiesta di Kit. «Tutto quello che mi dici mi terrorizza. Quassù comincia a far buio, c’è tanto vento, e non lo sopporto».
Lui si mise a sedere eretto, le gettò le braccia al collo, la baciò, si ritrasse un poco per guardarla, la baciò di nuovo, tornò a ritrarsi e così via, diverse volte. C’erano lacrime sulle guance di Kit, che sorrise, sconsolatamente, mentre lui gliele sfregava via con le dita.
«Sai una cosa?», mormorò Port con grande serietà. «Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù. Non è così?».
Lei chiuse per un attimo gli occhi. Quei baci sulle guance avevano risvegliato il senso di colpa, che ora si abbatteva su lei in una grande ondata, lasciandola stordita e sofferente. Aveva passato tutta la siesta a cercar di lavar via dalla coscienza le cose accadute la sera prima, ma era perfettamente consapevole, ora, di non esserci riuscita, e di non poter essere giammai in grado di farlo. Si mise una mano sulla fronte, tenendovela, e alla fine disse: «Ma se ci teniamo all’esterno, c’è ancora più probabilità per noi di… cascar giù».
Aveva sperato ch’egli opponesse qualche obiezione a questo, che trovasse errata la sua stessa analogia, forse… che qualche consolazione potesse scaturirne. Tutto quello che disse fu: «Non lo so».
La luce stava facendosi sensibilmente più fioca. Il vecchio arabo sedeva sempre immerso nelle sue preghiere, severo e statuario nel crepuscolo dilagante. Sembrava a Port che dietro di loro, là sulla piana, si potesse udire una nota di tromba a lungo protratta, che però continuava, continuava. Nessuno poteva tenere il fiato così a lungo: era la sua fantasia. Prese la mano di Kit e la strinse. «Dobbiamo tornare», bisbigliò. In fretta si alzarono e, balzando di masso in masso, scesero fino alla strada. Le biciclette erano là dove le avevano lasciate. In silenzio, tornarono verso la città, andando a ruota libera. I cani del villaggio presero ad abbaiare in coro, quando lo riattraversarono velocemente. Lasciarono le biciclette nei pressi del mercato, poi si avviarono lentamente lungo la strada che portava all’albergo, immergendosi nella sfilata di uomini e pecore che continuava la sua avanzata sulla città, perfino di sera.
Per tutto il percorso di ritorno Kit non aveva fatto che rimuginare su un’idea: «In qualche modo Port sa di Tunner e me». Nello stesso tempo, non credeva che fosse consapevole di saperlo. Ma con una parte più profonda della sua intelligenza intuiva la verità, sentiva quello che era accaduto: lei ne era certa. Mentre percorrevano insieme la strada buia fu quasi tentata di domandargli come lo sapesse. La incuriosiva il funzionamento di un istinto puramente animale come quello in un uomo complesso come Port. Ma sarebbe stato deleterio; non appena lo avesse reso consapevole di quella scoperta, avrebbe deciso d’essere furiosamente geloso, immediatamente sarebbe seguita una scenata, e tutta l’implicita tenerezza tra loro sarebbe svanita, forse per non essere ritrovata mai più. Non avere neppure quella tenue comunione con lui sarebbe stato insopportabile.
Port fece una cosa strana, una volta terminato di cenare. Da solo andò fino al mercato, sedette per qualche minuto nel caffé a osservare uomini e animali alla luce tremolante delle lampade a carburo, poi, nel passare davanti alla porta aperta della bottega dove aveva noleggiato le biciclette, entrò. Chiese una bicicletta munita di fanale, disse all’uomo di aspettarlo fino al suo ritorno, e in fretta pedalò via in direzione della spaccatura tra le rocce. Faceva freddo lassù, soffiava il vento notturno. Non c’era luna e lui non poteva vedere il deserto davanti a sé, giù in basso: soltanto le stelle gelide che sfolgoravano in alto, nel cielo. Seduto sul masso, lasciò che il vento lo raggelasse ben bene. Nel ritornare verso Boussif, si rese conto che non avrebbe mai potuto dire a Kit d’esser stato lassù. Kit non avrebbe capito quel suo desiderio di tornarvi senza di lei. O forse, rifletté, avrebbe capito fin troppo bene.

tratto da: Paul Bowles, Il tè nel deserto, trad. it. Hilia Brinis, Milano 1989.
Titolo originale The Sheltering Sky, prima edizione London 1949.

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