O langage chargé de sel,
et paroles véritablement marines!
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Un tempo, Valéry voleva diventare un ufficiale di marina. In quello che è divenuto, sono ancora riconoscibili i segni di questo sogno giovanile. C’è la sua poesia multiforme, anzitutto, che strappa il linguaggio dal pensiero come il mare dalla bonaccia; e poi c’è questo pensiero, matematico dall’inizio alla fine, che si china sulle cose come sulle carte nautiche e, senza provare piacere alla vista delle “profondità”, è già felice di mantenere una rotta sicura. Il mare e la matematica: si incontrano in uno dei luoghi più belli che egli ha descritto, dove Socrate racconta a Fedra della scoperta che ha fatto sulla riva, incantandola con le relazioni tra idee. È una forma ambigua – avorio, marmo, ossi di animale – che lì, quasi fosse una testa con i tratti di Apollo, la risacca ha lasciato sulla riva. E Socrate si chiede se l’opera sia delle onde o dell’artista. Riflette: di quanto ha bisogno l’oceano perché tra miliardi di forme possibili il caso riesca a dar vita a una sola, e quanto tempo serve all’artista? Egli può ben dire “che un artista vale mille secoli o centomila, o anche molti di più. […] È una strana misura per le opere”1. Se nel giorno del suo sessantesimo compleanno si volesse sorprendere con un ex libris l’autore di quest’opera imponente, l’Eupalinos, si potrebbe disegnare un enorme compasso, con un lato piantato sul fondo del mare e l’altro sollevato verso l’orizzonte. Sarebbe una metafora anche per l’apertura di quest’uomo. La tensione è l’impressione dominante della sua manifestazione corporea, tensione dell’espressione della sua testa, il cui sguardo profondo testimonia una lontananza dalle immagini terrene, che gli permette di determinare la rotta dello spirito verso di esse come fossero stelle. Solitaria è la notte da cui irradiano queste immagini, e di cui Valéry ha una lunga esperienza. Quando, venticinquenne, aveva pubblicato la sua prima poesia e i due primi saggi, ebbe inizio la pausa ventennale della sua vita pubblica, da cui uscì così luminosamente nel 1917 con la poesia La Jeune Parque. Otto anni dopo, una serie di opere formidabili e manovre ingegnose in società gli permisero di entrare nella Académie française. Non senza una raffinata cattiveria, gli fu data la poltrona di Anatole France. Valéry parò il colpo con una prolusione di non comune eleganza – la lode obbligata al suo predecessore –, in cui il nome di France non viene pronunciato neanche una volta. Per il resto, questo discorso contiene una panoramica sulla scrittura, che è sufficiente, cosa che accade di rado, per descrivere la personalità del suo autore. Si tratta della “valle di Giosafat”, in cui si accalca una massa di scrittori, passati e presenti. “Ogni novità si dissolve nelle novità. Ogni illusione di essere originale svanisce. L’anima si rattrista e, con un dolore del tutto particolare misto a una profonda e ironica pietà, immagina quei milioni di esseri armati di penne, quegli innumerevoli agenti spirituali che, ciascuno nel proprio periodo, si sono sentiti creatori indipendenti, cause principali, possessori di una certezza, fonti uniche e incomparabili, e che adesso sono avviliti dalla quantità, persi nel popolo sempre crescente dei loro simili, loro che avevano vissuto così laboriosamente e trascorso i loro giorni migliori per distinguersi in eterno”2. In Valéry, questa volontà completamente vana di distinguersi, deve lasciare il posto a un’altra volontà: la volontà della durata, della durata di ciò che è stato scritto. La durata di ciò che è stato scritto è però qualcosa di totalmente diverso dall’immortalità dello scrittore, perché in molti casi può esistere senza di essa. La durata, non l’originalità, è ciò che caratterizza i classici nella scrittura e Valéry non si è mai stancato di perseguirne le condizioni. “Uno scrittore classico” dice “è uno scrittore che dissimula o elimina le associazioni d’idee”3. In quei luoghi, dove lo slancio dell’autore si è esteso su tutto, dove egli si sente al di sopra della costruzione, senza vedere le fessure e, proprio perché non le vede, neanche le riempie – in quei luoghi, si deposita la muffa dell’invecchiamento. Per riconoscere le fessure, i limiti del pensiero, serve l’autocritica. Valéry sonda come un inquisitore l’intelligenza dello scrittore, innanzitutto del poeta, e pretende la rottura con la concezione diffusa secondo cui nella scrittura questa intelligenza conoscerebbe se stessa, e ancor più con l’idea, anche più diffusa, secondo cui su di essa nella poesia non ci sarebbe niente da dire. Lui stesso ha un’intelligenza di tipo particolare, che non capisce assolutamente nulla di sé. Niente può essere più sconcertante della sua incarnazione: Monsieur Teste. Sempre, dalla prima all’ultima opera, Valéry attinge a questo personaggio singolare attorno a cui si è raggruppato un intero ciclo di scritti brevi – una serata con Monsieur Teste, una lettera a sua moglie, una prefazione e, ovviamente, un giornale nautico. Monsieur Teste (ovvero il signor Testa) è la personificazione dell’intelletto, che ci ricorda in maniera davvero impressionante il Dio della teologia negativa di Niccolò Cusano. Tutto ciò che sappiamo di Monsieur Teste finisce con una negazione. Quello che in lui è così seducente non sono i teoremi, ma i trucchi di un modo di agire che pregiudica il meno possibile il negativo e segue la massima: “Ciascun sentimento e ciascuna emozione sono il marchio di un difetto di costruzione o di adattamento”4. Per quanto Monsieur Teste possa sentirsi umano, egli ha preso a cuore la saggezza di Valéry, secondo cui i pensieri più importanti sarebbero quelli che contraddicono i nostri sentimenti. Si tratta quindi della negazione di “ciò che è umano”: “Ecco arrivare il crepuscolo del Vago, e prepararsi il regno dell’Inumano, che sorgerà dalla nitidezza, dal rigore e dalla purezza nelle cose umane”5. Niente di esagerato, di patetico, niente di “umano” entra nel cerchio di questo strano personaggio di Valéry, per il quale il pensiero rappresenta l’unica sostanza di cui è fatta la perfezione. Uno dei suoi attributi è la continuità. Così anche la scienza e l’arte, nella purezza dello spirito, formano un continuo, attraverso cui il metodo di Leonardo – che nell’opera prima del poeta, l’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, costituisce un precursore di Monsieur Teste – apre strade che in nessun caso possono essere confuse con dei limiti. Il metodo è quello che, nel fare poesia, ha condotto Valéry al celebre concetto di poésie pure, che di certo non venne creato perché un abate amante delle lettere lo trascinasse per mesi attraverso le riviste francesi per estorcergli la confessione della sua identità con il concetto della preghiera. Di continuo, e con esito sorprendente, Valéry stesso ha descritto le singole fasi nella storia della teoria poetica – le tesi di Poe, Baudelaire e Mallarmé – in cui la dimensione costruttiva e quella musicale della lirica hanno cercato di delimitare a vicenda le proprie competenze, finché anche in lui, nelle riflessioni che rappresentano il fulcro dei suoi capolavori lirici – Le cimitière marin, La Jeune Parque, Ébauche d’un serpent – la poesia ha compreso se stessa nella perfetta fusione di intelligenza e voce. Le idee della sua poesia emergono come isole dal mare della voce. È quello che separa la sua lirica intellettuale da tutto ciò che esprimiamo in tedesco quando diciamo: l’idea della lirica non si scontra mai con la “vita” o con la “realtà”. Il pensiero non ha a che fare se non con la voce: questa è la quintessenza della poésie pure. “Il lirismo è quel genere di poesia che presuppone la voce in azione, vale a dire la voce che proviene direttamente o che è provocata dalle cose, le quali si vedono e si sentono come presenti”6. O, ancora: “Le necessità di una prosodia rigorosa sono l’espediente artistico grazie al quale vengono conferite, al modo naturale di parlare, le proprietà di un materiale che oppone resistenza, che resta estraneo alla nostra anima e sordo ai nostri desideri”7. E proprio questo è il tratto caratteristico dell’intelligenza pura. Ma questa intelligence pure, che in Valéry ha edificato i ricoveri invernali sulle cime inospitali di una poesia esoterica, è però la stessa che nell’epoca delle scoperte ha guidato la borghesia europea alle sue conquiste. Il dubbio cartesiano sulla conoscenza si è radicalizzato in Valéry in maniera quasi avventurosa e tuttavia metodica, fino a diventare un dubbio sul domandare stesso: “Il regno del caso, il potere degli dei o del fato non sono altro che il sintomo delle nostre deficienze mentali. Se avessimo una risposta a tutto – una risposta esatta – questo potere non esisterebbe. Noi ce ne rendiamo conto per primi, ed è per questo che ci rivoltiamo contro le nostre stesse domande. Ma questo non dovrebbe essere altro che l’inizio. Dovremmo arrivare a concepire una domanda per noi stessi, che preceda tutte le altre domande e che verifichi di ciascuna di esse la sua validità”8. Il chiaro riflesso, su questo pensiero, delle fasi eroiche della borghesia europea, ci permette di vincere la sorpresa che accompagna qui il nostro incontro, in uno dei punti più avanzati dell’antico umanesimo europeo, ancora una volta con l’idea di progresso. E si tratta proprio dell’idea migliore, la più autentica: l’idea dell’elemento comunicabile nel metodo, che in Valéry corrisponde in modo così evidente al concetto di costruzione, quanto è contraria all’ossessione dell’ispirazione. Uno dei suoi interpreti ha detto: “L’opera d’arte non è una creazione, ma una costruzione in cui l’analisi, il calcolo, la progettazione giocano il ruolo principale”. In Valéry si è conservata l’ultima virtù del processo metodologico, la tendenza al ricercare ininterrottamente oltre se stessi. Chi è infatti Monsieur Teste se non l’individuo che, già pronto a oltrepassare la soglia dell’eclissarsi storico, ancora una volta, si prepara all’appello, per poi sprofondare di nuovo in un luogo in cui, senza poter più essere toccati da niente e da nessuno, si entra in un ordine il cui approssimarsi Valéry descrive in questo modo: “All’epoca di Napoleone, l’elettricità aveva più o meno la stessa importanza del Cristianesimo ai tempi di Tiberio. Gradualmente, divenne chiaro che questa innervazione generale del mondo era più gravida di conseguenze, più in grado di modificare la vita futura, di tutti gli avvenimenti ‘politici’ avvenuti da Ampère a oggi”9. Lo sguardo che getta su questo mondo a venire non è più quello dell’ufficiale ma solo quello del marinaio esperto, che sente l’avvicinarsi della tempesta e ha conosciuto troppo bene il mutamento delle condizioni degli eventi storici – “aumento della nitidezza e della precisione, aumento della potenza”10 – per non sapere che dinanzi a essi “i pensieri profondi di un Machiavelli o di un Richelieu avrebbero oggi la consistenza e il valore di una previsione finanziaria”11. Così, Valéry se ne sta “in piedi sul promontorio del pensiero, a occhi spalancati sui limiti delle cose, o della vista…”12.
Walter Benjamin
Tratto da: Paul Valéry, Autobiografia, Introduzione di Walter Benjamin, Traduzione di Alessandro Bresolin e Nicola Zippel