[…] Dovevano essere circa le due del pomeriggio quando presi posto nella stanza del tè, e vi restai sino a quando gli arbusti del giardino si furono totalmente confusi nell’oscurità. Passai là un pomeriggio molto felice, dimentico del tempo che scorreva.
Ero già penetrato altre volte in questa stanza, in qualità di assistente del Maestro Rikyû, quand’era ancora vivo; nulla era cambiato da allora: il rotolo appeso al muro, calligrafia del principe Son-En-Po, la tazza da tè conica, il suo braciere preferito, il cui piacevole e incessante crepitìo mi ricordava il mormorio del vento… Era proprio quella la stanza del tè di Tôyôbô, conosciuto da sempre come un fine collezionista.
Mi offrì un tè eccellente; mi parve di vivere un sogno. Dopo di ciò, prese una tazza da tè che il Maestro Rikyû gli aveva donato e la sistemò dinanzi a me. Mi sentii riconoscente e molto onorato della sua benevola sollecitudine: ebbi l’impressione di trovarmi davanti al Maestro Rikyû.
Ricoperta da un bello smalto nero, era una tazza elegante e convessa della miglior fattura. Da quanti anni non toccavo quella tazza? Chôjirô, il vasaio che l’aveva foggiata, era morto due anni prima del Maestro Rikyû; ho io stesso qualche ricordo legato a questa tazza nera… ero felice che ora fosse tra le mani di Tôyôbô.
(traduzione dalla versione francese, Le Maître de thé, ed. Livre de Poche)
Tratto da: Yasushi Inoue, Il maestro del tè
“L’uomo beve il Tè perché lo angoscia l’uomo. Il Tè beve l’uomo, l’erba più amara”
Due volte al giorno, verso le sei di mattina e le cinque della sera, tazza ripetuta di Tè verde della Cina arriva con la sua infallibile virtù unitiva, confirmativa, risuscitativa, a disincagliarmi e a preservarmi da ogni specie d’inerzia, d’inebetimento, di abbattimento. Messaggi clandestini, che trovano orecchio, avvolti in carta di riso, della Luce. Non sono un Orientale. I miei gesti rituali non vengono dai Maestri; assomigliano piuttosto ad un’abitudine carceraria, continuata negli anni. In piedi, sempre ad una finestra con la tendina scostata … Ma di Oriente orientante mi resta la fiducia che nell’uscire in giusta misura da se stessi, e abitualmente, non c’è nulla di pericoloso, e che vedere, sentire e incontrare spiriti non è inquietante.
Lo spirito del Tè comincia appena disceso ad operare. Leggere pressioni interne, agopuntura invisibili, scatti tempestivi del sensorio, sampan di lumettini, coloriture improvvise di silenzi, un susseguirsi puntuale di eccitamenti che vanno dall’occhio interno ( che forse e un orecchio o una mano ) lungo le disirrigidite vertebre, al coccige resurrecturo. Allora molte finestre nel buoi tornano vive, e le parole faticano meno a ritrovare il loro principio negli spazi lontani. Pace del massaggio, radice del suolo, bontà dello strofinamento occulto. Guardare da una pausa di connessione quel che è sconnesso e lacerato, è un momento senza morte. Fare arretrare di appena un poco il margine del finito, per molto ore si rischiara. Nel combattimento per contrastare mentalmente quel che nel tempo è verificabile, come aggressione materialmente incontrastata della tenebra, da lamine liberatrici che il Tè aiuta a ritrovare e a decifrare, imparo a non aborrire in eccesso le tenebre, per non distruggere le poche possibilità di penetrarne il segreto. Senza curiosità disperate in continuo movimento, la disperazione non avrebbe limiti. Il soffio del Tè s’infonde negli angoli morti, non si sgomenta d’interrogare statue imbracate. Tra le crepe dell’arido introduce qualche sua goccia, allo scolorito ridà figura. Grattando le buche abbandonate ne fa uscire qualche suono di ribàb incantato. I pensieri non miei diventano miei con molta facilità; quelli miei chiunque se vuole può farli proprii, qualunque sia il suo eccitante, senza bisogno di nome: il pensiero non pronuncia ne Tuo ne Mio.
L’uomo bene il Tè perché lo angoscia l’uomo. Il Tè beve l’uomo, l’erba più amara.
Tratto da: Guido Ceronetti, Pensieri del Tè, Adelphi