Finalmente comincia a venire alla luce (ed è proprio il caso di dirlo, vedremo in seguito perché) il problema della denatalità. Se n’è accorto persino Federico Fubini in un editoriale, seppur molto arzigogolato, sul Corriere del 17 gennaio.
In Italia il tasso di fertilità per donna è di 1,3 (per arrivare a un pareggio demografico dovrebbe essere di 2, e qualcosina in più perché nel frattempo qualcuno, grazie a dio, muore). Siamo il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone (dati Istat). Ma il problema, oserei dire il dramma, della denatalità e dell’invecchiamento non riguarda solo l’Italia ma tutto il mondo occidentale. Andando avanti di questo passo il mondo occidentale scomparirà a petto di quello mediorientale, arabo, islamico dove la fertilità per donna è del 2,5 o di quello nero africano dove le donne, nonostante tutte le difficoltà, continuano a fare figli (il tasso di fertilità è del 5).
All’origine di questo fenomeno di costante invecchiamento delle nostre società, che dovrebbe preoccupare un po’ più del Covid (anzi il Covid ha cercato, generosamente, di dare una mano) ci sono motivazioni culturali, sociali, economiche.
La prima è culturale. La donna di cultura occidentale pare essersi dimenticata di quella che è, antropologicamente, la prima delle sue funzioni: fare i figli. Nella grande storia antropologica dell’umanità (ma anche delle specie animali) la protagonista è la donna, proprio perché dà la vita, mentre l’uomo è solo un inseminatore transeunte. Lo dimostra anche una comparazione con il mondo animale. Il fuco più forte riesce a reggere la competizione con l’Ape Regina che lo porta ad altezze per lui insostenibili, la feconda, e poi muore perché la sua funzione finisce qui: l’Ape Regina è fecondata e piena di uova. La mantide religiosa subito dopo l’amplesso uccide, senza pietà, il suo amante perché il maschio ha esaurito la sua funzione: fecondarla.
Nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, l’Essere primigenio è androgino. Con la caduta si scinde in due: la Donna, che viene chiamata “la Vita” o “la Vivente”, e l’Uomo, che è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Insomma, antropologicamente parlando, la donna è la vita, l’uomo se non la morte qualcosa che gli assomiglia molto e che alimenta il suo profondo istinto di morte come dimostra la propensione maschile alla guerra, totalmente estranea alla donna che, poiché vitale, non comprende il senso di questa carneficina.
Nella modernità la donna ha perso il senso profondo della sua funzione antropologica a favore dei diritti civili che pure le competono: parità con l’uomo, diritto al lavoro, diritto alla carriera e più in generale diritto all’autorealizzazione. Tutti questi diritti sono oggi incontestabili. Ma la conseguenza è una progressiva rinuncia della donna a figliare o comunque a ritardarne il più possibile il momento a favore di quella che grossolanamente e per semplificare chiameremo carriera. Non che la donna di oggi, almeno in linea generale, non voglia avere figli. Ma aspetta, aspetta il momento più favorevole. Ma aspettando aspettando il momento favorevole passa senza che uno nemmeno se ne accorga. In questo la donna è stata ingannata dalla medicina moderna che le ha fatto credere che si possano avere figli a qualunque età. Ma la Natura non la si inganna. L’età di massima fertilità per la donna sono i 27 anni, poi va lentamente a discendere. Certo si possono fare tranquillamente figli a trent’anni, a 33, a 35 ma quando ci si avvicina ai 40, o addirittura li si oltrepassa, le cose si complicano maledettamente. È esperienza comune di coppie che a quarant’anni decidono che è venuto il momento, ma benché lei sia sana e lui pure non riescono ad avere il figlio a quel punto molto desiderato.
Tecnicamente la questione riguarda lei, l’uomo può essere fertile anche a età molto elevate (per fare un esempio famoso, ma è solo uno dei tanti, Charlie Chaplin ebbe l’ultimo dei suoi numerosi figli a 73 anni, ma la moglie Oona O’Neill ne aveva 37).
Poi c’è la motivazione economica. Oggi si esita a fare figli nel timore di non riuscire a mantenerli o comunque a mantenerli in modo adeguato. Ma basta risalire solo a due o tre generazioni fa e vediamo che le coppie, anche quelle in male arnese, facevano cinque, sei a volte dieci figli. È pure vero che nel mondo contadino, almeno quello che ha resistito a lungo alla Rivoluzione industriale, i figli erano una risorsa anche economica. In un reportage fatto per Pagina (“La Puglia dei miracoli”) che è del 1982 – non siamo quindi nel Plestocene – si considerava una fortuna aver avuto molti figli, soprattutto maschi in questo caso, perché davano una mano nel lavoro sui campi mentre la madre si esauriva nelle gestazioni.
Un altro motivo è anch’esso culturale, sia pur di portata minore rispetto a quello antropologico che ho richiamato all’inizio. L’aggressività della donna di oggi, libera, economicamente autonoma, ha spaventato il maschio. Di qui l’aumento esponenziale dell’omosessualità maschile e, in corrispondenza, di quella femminile, più nascosta come più nascosto è il sesso della donna.
Ho inoltre il sospetto che i giovani facciano meno sesso di un tempo. Perché appagati, o invece disgustati, dalla pornografia dilagante offerta dagli infiniti siti specializzati. Ma i figli non si fanno né con le macchine né con le fantasie masturbatorie. Se così non fosse non si capirebbe come mai abbiano tanto spazio anche vecchie ciabatte come me.
Di Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano, 5 Febbraio 2022