È da un po’ di tempo, ormai, che sto pensando di piantare un albero in questo terreno: un albero vero. Non è che prima non l’abbia mai fatto (probabilmente ne ho messi a dimora circa venticinque), ma erano tutti alberi minori, in effetti dei pesi leggeri, il tipo d’albero che si può giustificare nel breve termine: qualche esemplare di Pinus flexilis per fare da schermo alla strada, alberi da frutto nani, uno o due meli selvatici, un’ortensia ad alberello, e un paio di Salix babylonica, l’«albero della gratificazione immediata», altrimenti noto come salice piangente. Per molto tempo questa è stata la mia idea di albero: qualcosa che potevo prendere al vivaio per 29 dollari e 99, infilare dietro alla cinqueporte, spingere in una vecchia buca qualsiasi e poi osservare mentre cresceva praticamente sotto i miei occhi. Ai miei salici formato cinqueporte occorsero meno di tre anni per espandersi e raggiungere le dimensioni di altrettante mongolfiere.
Senza voler loro togliere nulla, i salici mancano tuttavia di una certa… gravitas, e nella proprietà c’era ben poco che la fornisse. Gli alberi più grandi di questa ex fattoria sono i due frassini bianchi all’imbocco del vialetto d’accesso; benché adesso svettino per quindici metri buoni, sono tuttavia particolarmente discreti. Anche se sono più alti di una villetta, ci si accorge a malapena che esistono. I frassini sono così: il loro tronco può crescere fino a nove metri prima di ramificarsi, e anche quando sono pienamente sviluppati lasciano passare gran parte della luce solare che li investe. Ogni anno entrano ed escono di scena senza far troppo chiasso, mettendo le foglie solo nell’ultimo scorcio di maggio per poi spogliarsene prima della fine di settembre. Grandi alberi, i frassini sono tuttavia di indole modesta, felici che altre piante crescano nella loro ombra, leggera e a chiazze, e di offrire agli esseri umani ottima legna sia per il fuoco, sia per fabbricare mobili, mazze da baseball e manici di attrezzi (comprese impugnature di asce, il che può dare un’idea di quanto essi siano arrendevoli).
Quando si pensa a una fattoria nel New England, probabilmente ci si immagina, vicino alla casa, qualche albero venerando, per esempio delle querce o degli aceri; questa però non è mai stata quel tipo di fattoria, anche se il terreno è coltivato dai tempi delle colonie. A partire dagli anni Venti, e poi senza interruzioni fino a qualche anno fa, questo era un piccolo caseificio, gestito da una famiglia che probabilmente non ha mai ricavato da questa terra più di un precario sostentamento. Un paio di aceri canadesi accanto alla casa avrebbero indicato il raggiungimento di una certa rilassatezza nei rapporti dei Matyas con questa terra, rilassatezza di cui dubito abbiano mai goduto. Avrebbero anche indicato, da parte loro, l’aspettativa di una continuità in questo luogo. Evidentemente, però, i figli non avevano alcun interesse a mandare avanti la fattoria su questo spicchio di collina tutto sassi ed erbacce; quando i vecchi Matyas morirono, infatti, la proprietà fu suddivisa e poi venduta, un pezzo dopo l’altro.
Nessuno, in città, ha una buona parola per il vecchio signor Matyas (il nome si pronuncia «Matches»); «talmente meschino, che si odiava da solo» è il modo in cui me lo descrisse un suo vicino. Tutti, però, gli riconosceranno questo: faceva un sidro tra i migliori in circolazione, in ogni caso il più forte. E in effetti gli unici alberi seri che mise a dimora furono una mezza dozzina di meli, che oggi sono di gran lunga gli alberi più belli della proprietà. Ora che hanno più di mezzo secolo, le loro sagome contorte e segnate dalle intemperie fanno pensare al carattere delle rovine architettoniche, al loro essere testimoni sul lungo periodo. Ci sono giorni in cui sembrano monumenti al leggendario caratteraccio del loro piantatore. Ovviamente, però, nella loro messa a dimora confluirono pochissime considerazioni estetiche; è chiaro che l’idea era strettamente utilitaristica: assicurarsi una fonte di alcol gratuita e sicura. Il fattore lasciò nel deposito sotterraneo per gli ortaggi centinaia di damigiane da circa quattro litri l’una.
No, questa decisamente non era una di quelle eleganti fattorie del New England il cui proprietario aveva il tempo e la lungimiranza di piantare querce a beneficio delle generazioni a venire. Quando acquistammo il terreno, c’era in esso qualcosa di inconfondibilmente appalachiano, con il giardino del tutto privo di elementi ornamentali (a meno che non si vogliano contare vecchi copertoni e attrezzi agricoli mal ridotti) o di qualsiasi altra prova che i suoi abitanti ne avessero tratto piacere. Con ogni probabilità, Joe Matyas non avrebbe potuto godersi un’area in ombra nemmeno se l’avesse avuta, e predisporne una per i figli non avrebbe fatto altro che indurli a trascurare il lavoro. Forse l’ombra era un lusso che la loro fattoria non poteva permettersi.
L’assenza di grandi alberi sottolinea l’asprezza della terra, come pure la solitudine della piccola casa piazzata su di essa, costruita con un kit della Sears, Roebuck & Co. In parte, fu proprio per attutire questo effetto che volevo piantare degli alberi. Dico «in parte» perché sto cominciando a capire che piantare alberi è un’azione complicata, che ha molte radici tra loro intrecciate e non facili da districare. Una delle mie motivazioni, però, era estetica. Un grande albero cambia l’aspetto del paesaggio, naturalmente, e non solo da lontano; dà forma allo spazio anche nella terza dimensione. Un vecchio acero canadese – era quello l’albero che avevo in mente – promuove intorno a sé un diverso tipo di luce e di atmosfera. Per me, la sua ombra, benché fitta, è sempre bella e non opprime mai. Lo spazio che un acero configura intorno a sé sembra particolarmente accogliente nei confronti degli esseri umani: è uno spazio intimo, quasi domestico se confrontato, per esempio, con quello creato da un’antica quercia veneranda, che sembrerà più vasto e imponente. Per quanto possa diventare grande, un acero non abbandona mai i suoi legami con la dimensione umana; alcuni suoi rami immancabilmente si tendono in basso verso di noi, così che possiamo arrampicarci su di essi, anche soltanto con l’immaginazione. Gli aceri fanno pensare a un rifugio. Quando sono piantati vicino alle case hanno sempre un aspetto piacevole; d’estate raccolgono l’aria fresca tutt’attorno e la sospingono verso le finestre aperte.
Un unico grande albero può creare da solo una sorta di giardino, un luogo del tutto nuovo sulla terra, e nella mia mente già visitavo quello creato dal mio acero e riposavo alla sua ombra. Sapevo che non sarebbe successo dal giorno alla notte, e probabilmente nemmeno nel corso della mia vita; ma non era proprio quello il punto? Imbarcarsi in un progetto che sarebbe sopravvissuto a me, piantare un albero la cui chioma non avrebbe mai fatto ombra a me, ma ai miei figli o, più probabilmente, ai figli di estranei? A me sembra che piantare un albero sia sempre un’impresa utopistica, una scommessa su un futuro a cui il giardiniere non si aspetta necessariamente di assistere.
Devo ammettere che il solo pensare alla questione in questi termini stava cominciando a farmi sentire piuttosto virtuoso. E in un giorno di ottobre, di primo mattino, mentre ero al volante diretto al vivaio, cominciai a trarre conclusioni di vasta portata sulla «nostra epoca» basandomi sul fatto che adesso nessuno pianta più grandi alberi. Quante persone, oggi, riescono a immaginare di starsene sedute all’ombra di un acero piantato nel 1989, in un giorno d’estate del prossimo secolo? Non molte, a giudicare da quello che scegliamo di piantare di questi tempi. In passato, i giardinieri americani piantavano alberi con lo stesso entusiasmo che oggi riversiamo sulle piante perenni. Oggi, in genere, quando ci dedichiamo alla messa a dimora degli alberi, abbandoniamo nel mare aperto di un prato qualche piccolo esemplare ornamentale. Certo, noi disponiamo di meno spazio, e all’incirca ogni sette anni traslochiamo; comunque sia, non posso fare a meno di pensare che qui debba essere in atto anche una qualche patologia culturale, un venir meno della capacità di immaginare il futuro. (Ho letto che ai tempi di Weimar i tedeschi smisero di piantare querce e altre latifoglie a crescita lenta). Non molto tempo fa, durante una visita all’Huntington Botanical Garden, nella California meridionale, rimasi profondamente colpito nell’apprendere come i tre imponenti cipressi che dominano i giardini fossero stati ottenuti dai semi che Henry Huntington aveva raccolto a Chapultepee Park, presso Città del Messico, al volgere del secolo. Quella era un’epoca piena di fiducia.
«Piantare alberi» scriveva Russell Page nel suo memoir «significa dare corpo e vita al proprio sogno di un mondo migliore».
In compagnia di pensieri grandiosi ed edificanti come questi, andai ad acquistare il mio albero. Spiegai a John, il gestore del vivaio, che ero interessato a un albero da ombra, probabilmente un acero canadese. John si accigliò e scosse lentamente la testa, dandomi la stessa occhiata che mi lancia il meccanico quando scopre, guardando sotto il cofano della mia auto, che dovrà lavorarci un pomeriggio. Sembrava che ultimamente gli aceri canadesi della zona stessero passando un brutto momento, e lui sconsigliava decisamente di piantarne uno. A quanto pare un insetto microscopico, il tripide del pero, ha infestato gli aceri canadesi di tutto il New England. Ad aprile, i tripidi divorano le gemme, così che le foglie prodotte a maggio sono troppo piccole e deformi per essere di una qualche utilità. Gli alberi vittime di una grave infestazione sono costretti a emettere nuove foglie, al prezzo di uno stremante dispendio di energie; in capo a diversi anni, quello sforzo li uccide. I tripidi ci sono sempre stati, diceva John, ma ultimamente gli aceri sono diventati più suscettibili, forse per via dello stress causato dalle piogge acide.
Questo è esattamente il tipo di informazione capace di deviare il vento allontanandolo dalle vele dell’utopia. Adesso che John me l’aveva accennato, però, mi ricordai d’aver notato, di recente, diversi aceri morti lungo le strade locali: piante monumentali risalenti all’Ottocento che la scorsa primavera non erano riuscite a metter le foglie. È deprimente pensare che le ciminiere dell’Ohio possano esserne la causa.
John disse che mi sarebbe andata molto meglio con un acero riccio, una varietà europea che prosperava in ambienti cittadini e sembrava relativamente impermeabile agli stress della civiltà. Mi indicò alcuni esemplari locali che io conoscevo bene, grandi chiome ovali che in autunno si accendono di un giallo brillante, e così decisi che un acero riccio sarebbe andato bene.2 John mi mostrò quelli che aveva a disposizione: alcuni alberelli di quattro metri e mezzo (e circa sei-sette centimetri di diametro) in vendita a 129 dollari, più 10 per la consegna. Anche di quelle dimensioni, a dirla tutta non facevano un grande effetto; in realtà erano lunghi pali sottili sormontati da qualche rametto biforcuto. Conciliare l’immagine della mia utopia con questi bastoni tanto decantati non sarebbe stato facile. Avendo probabilmente percepito la mia delusione, John posò la mano su uno degli alberi all’altezza della spalla e disse: «Ma questi aceri ricci crescono in fretta. Dieci anni e potrebbe avere un alberello rispettabile; venti, e forse avrà perfino un po’ d’ombra».
«Un po’» d’ombra nel 2010?! All’improvviso, cominciai a sentirmi scoraggiato su tutto il fronte. Più che un Henry Huntington che guarda fiducioso oltre la prua del nuovo secolo, io mi sentivo un Joe Matyas, che allunga la mano per prendere un drink mentre rimugina sul suo orizzonte limitato. Forse sarebbe stato meglio un melo, o un altro salice… Voglio dire, quanto tempo resteremo in questa casa? A quel punto, però, mi tornarono in mente i miei «grandiosi pensieri», il mio nobile desiderio di avere un atteggiamento positivo nei confronti del futuro. Cercai di controllarmi e dissi a John di consegnarmi l’acero riccio l’indomani.
Passai quella sera a documentarmi sulla messa a dimora degli alberi. Tutti i libri che consultai cercavano di impressionarmi insistendo sull’enorme responsabilità che stavo per prendermi, e io rimasi debitamente impressionato. In particolare, «scelta del sito e scavo della buca» erano operazioni fondamentali e irreversibili delle quali, se mal gestite, mi sarei pentito per decenni.
Scegliere il sito per mettere a dimora un grande albero è una responsabilità che fa riflettere; se sbagli e lo pianti troppo vicino alla casa o a una linea elettrica, costringerai qualcuno, un giorno, a prendere una decisione terribile. Mettere a dimora un grande albero significa gettare un’ombra lunga sul futuro di un luogo; siamo perciò obbligati a considerare con attenzione il suo impatto. Passai mezza giornata girando nella proprietà, sforzandomi di aggiungere mentalmente allo scenario vuoto di fronte a me qualcosa delle dimensioni di una palazzina. (A rendere tanto difficile lo sforzo di immaginazione potrebbe essere il fatto che non vivrò abbastanza per vedere l’albero maturo?). Uno dopo l’altro, tracciai nell’erba dei cerchi di quindici metri di diametro, cercando di figurarmi l’impronta finale dell’ombra. Le ombre che si possono vedere sono già abbastanza elusive; far progetti tenendo conto di ombre che distano da noi decenni significa avere a che fare con ombre di ombre.
Mi decisi per un sito in mezzo a un prato naturale aperto, a metà strada fra la casa e il fienile in cui io avevo allestito il mio ufficio e Judith il suo studio. Si tratta di un punto focale della proprietà, visibile da diverse stanze della casa, dal fienile e dal vialetto d’accesso. Privo di qualsiasi ombra o riparo, il prato naturale è esposto a una luce particolarmente cruda e d’estate trasmette la sensazione d’un luogo torrido, asciutto e inospitale. Ogni giorno, lo attraversiamo cinque o sei volte e la prospettiva di un acero che faccia ombra sul nostro cammino verso il fienile è allettante. L’albero costituirà una gran bella vista sia dalla camera da letto, per penetrare nella quale i raggi obliqui del sole mattutino dovranno farsi strada tra le sue foglie, sia dal mio scrittoio nel loft del fienile, dove l’ultimo sole tinto di rosso lo illuminerà da dietro. Sarà uno spettacolo.
Il mattino dopo, di buon’ora, cominciai a scavare la buca: un’altra solenne responsabilità. Proprio come i futuri abitanti di questa casa dovranno convivere con le conseguenze della mia scelta del sito, allo stesso modo la qualità della buca che preparo oggi contribuirà a determinare il benessere futuro del mio albero. Per le piante, la buca è destino. A imprimere questo dato di fatto come un marchio a fuoco sulla mia coscienza fu Ralph Snodsmith, un bel tipo un po’ anacronistico, di cui una volta seguii un corso base di giardinaggio al New York Botanical Garden. Snodsmith – che guidava una Mercedes verde, e si presentava a ogni singola lezione con un abito verde e una cravatta verde – ci impartì alcune chiare regole empiriche che in seguito si è dimostrato difficile far vacillare. «Xilema su, floema giù». «Tenete d’occhio il rapporto tra radice e germoglio». E poi quella che ripeteva pressappoco ogni quindici minuti e su cui ci interrogò sia a metà corso, sia all’esame finale: «Meglio mettere a dimora una pianta da cinquanta centesimi in una buca da cinque dollari che una pianta da cinque dollari in una buca da cinquanta centesimi».
Benché su questo punto vi sia un certo dibattito, la maggior parte dei libri consigliava una buca profonda come il pane di radici dell’albero e ampia il doppio: nel mio caso significava scavare una buca larga poco meno di due metri e profonda circa uno (in un terreno buono, può bastare anche più piccola). I disegni in bianco e nero del libro mostravano sezioni trasversali in cui eleganti piramidi di terriccio si ergevano accanto a ugualmente eleganti piramidi capovolte scavate nel terreno. Le immagini non mostravano massi delle dimensioni di casseforti da ufficio. Dalla mia buca, invece, vennero fuori più sassi che terra, alcuni così grossi che dovetti farli rotolar fuori, alla maniera degli antichi egiziani, lungo assi di legno inclinate. Più di una volta pensai di provare un sito diverso, ma alla fine decisi che qualsiasi ghiacciaio avesse sparso tutte quelle maledizioni ignee e sedimentarie nella mia proprietà, probabilmente l’aveva fatto animato da uno spirito democratico. Uno dei primi coloni insediatosi qui a Cornwall, dopo aver effettuato una scoraggiante perlustrazione iniziale della terra che intendeva coltivare, compose un distico in suo onore: «La natura esaurì tutta la sua provvista / vomitando sassi, ma non fece molto di più».
Il lavoro di scavo – estrazione mineraria sarebbe forse un termine più accurato – mi lasciò un po’ più solidale nei confronti di Joe Matyas e degli agricoltori che lo avevano preceduto su questa terra. Se la mia sopravvivenza dipendesse da lei, forse nemmeno io ci avrei piantato grandi alberi. Questi ultimi, infatti, si mettono a dimora in un terreno per il quale si prova un certo affetto, e lavorare questo suolo così avaro di tutto, tranne che di sassi, suscitava inevitabilmente più rancore che gratitudine. Wendell Berry dice che in una fattoria gli alberi indicano, da parte dell’uomo, «buone intenzioni a lungo termine nei confronti del luogo». Probabilmente è così, e scommetterei che le intenzioni di Joe Matyas verso questo luogo tendevano alla malevolenza.
Lo scavo della buca mi prese gran parte della giornata, ma poiché mi riposavo spesso, ebbi molto tempo anche per appoggiarmi alla vanga e riflettere. Guardando tutt’attorno la società di alberi a cui il mio acero stava per unirsi, mi resi conto che essi conservavano un archivio della storia sociale e naturale di questa terra. I vecchi meli caparbi non si limitavano a rievocare i tempi in cui la terra era di Joe Matyas; i loro anelli contenevano anche la cronaca delle condizioni meteorologiche degli ultimi cinquant’anni: probabilmente anche un bambino avrebbe riconosciuto l’estate da «effetto serra» del 1988, talmente calda e siccitosa che gli alberi apposero l’anello di crescita più sottile di tutto un secolo.
Anche nel breve periodo in cui sono stato qui, ho constatato come ogni evento importante, nella storia naturale, lasci il suo segno sui miei alberi. Uno dei meli ha una brutta cicatrice nel punto in cui un grosso ramo gli fu strappato durante un’inattesa bufera di neve, il 4 ottobre 1987: una famigerata tempesta che avanzò da qui e poi attraversò l’Atlantico, acquistando la forza di un uragano. Il 16 ottobre, in Inghilterra, abbatté migliaia di querce e olmi preziosissimi, piantati nel Settecento e considerati parte del patrimonio nazionale. Il 10 luglio 1989, un fulmine aprì una ferita di dodici metri nella corteccia del frassino che si trova sul versante sud del mio vialetto d’accesso. Benché sia ancora tutto da vedere se questo albero sopravviverà, mi considero comunque fortunato: quella stessa tempesta generò un tornado violentissimo che attraversò Cornwall vorticando, e danneggiò diverse migliaia di alberi tra i più antichi della città, sradicandoli o strappando loro la chioma. Il 9 luglio, Cornwall aveva una Main Street elegante, bordata di aceri, che faceva di essa il ritratto stesso di un piccolo paese ottocentesco del New England; l’11 luglio, completamente spogliata dei suoi alberi, sembrava più simile a un avamposto di frontiera brutalmente sottratto alla foresta nel giro di una notte. Finché vivrò, Cornwall non tornerà più a sembrare ben radicata su queste terre. Sperando di avvicinare quel giorno, quest’autunno tutti, qui in paese, si stanno affrettando a piantare alberi (potrebbe essere questa un’altra delle mie motivazioni?) e il mio acero andrà a unirsi a una nuova grande generazione arborea che commemorerà, ancora per molto tempo nel prossimo secolo, il disastro del 1989.
Come i meli di Joe Matyas, anche il mio acero indicherà un punto di svolta nella storia sociale di questa proprietà. Non posso essere del tutto certo di che cosa rivelerà il mio acero a chi rifletterà appoggiato alla vanga di qui a cinquant’anni, ma posso immaginarlo: l’avvento, in questa proprietà, di un’èra più aperta, in cui il suo proprietario ebbe i mezzi e l’agio per mettere a dimora un albero strettamente ornamentale. Ma se mi fossi completamente sbagliato? Se di qui a cinquant’anni piantare un acero significasse qualcosa del tutto diverso, e il mio successore interpretasse la messa a dimora di quest’albero come… non so, come un atto stranamente arrogante, per esempio, oppure «specista», perché ormai la gente avrà deciso che gli alberi hanno alcuni diritti inalienabili, uno dei quali sarà di non essere piantati a meno di quindici metri da un’abitazione umana? Oppure può darsi che il petrolio sarà finito, e il fascino di una catasta di legna da ardere supererà di gran lunga quello di un grande acero maturo.
Probabilmente a questo punto penserete che avrei dovuto interrompere le riflessioni e riprendere il mio scavo, ma temo di non averlo fatto; la mia ricostruzione storica accanto alla vanga, infatti, mi aveva indotto a chiedermi se non fossi stato ingiusto con Joe Matyas. Non poteva essere che per lui abbattere un albero fosse un atto virtuoso come lo è per me piantarne uno? E che una storia più autentica di questo luogo dovrebbe prestare la stessa attenzione agli alberi che ci sono e a quelli che non ci sono? Forse, il principale contributo di Joe all’economia morale di questo luogo non è rappresentato dai meli, ma dai prati naturali aperti. Poiché Matyas era il proprietario di una fattoria marginale del New England, con ogni probabilità i suoi sentimenti verso gli alberi non dovrebbero essere giudicati secondo il mio standard (o quello di Wendell Berry), ma in base a quello dei primi agricoltori del New England: gente che praticava un’agricoltura di sussistenza per la quale un albero era nel migliore dei casi una risorsa da sfruttare e nel peggiore un impedimento all’agricoltura, una grossa erbaccia. Per gran parte del tempo in cui questa terra è stata nelle mani dei bianchi, l’abbattimento degli alberi è sembrato un’azione civile – moralmente non ambigua e civilmente responsabile – proprio come oggi lo è piantarli.
Adesso per noi davvero non è facile immaginarlo, né trovare una qualsiasi bellezza – e meno che mai una soddisfazione morale – in un paesaggio da poco disboscato, ma molti prima di noi l’hanno fatto. William James racconta l’episodio (rinarrato da Richard Rorty in La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà) di quando, viaggiando sugli Appalachi, si imbatté in una rozza proprietà che un agricoltore aveva appena disboscato a colpi d’ascia. Al principio, la baracca di legno dell’uomo, l’orto malmesso e il porcile fangoso colpirono James come qualcosa di «orrendo, una specie di ulcera», ma quando il contadino gli disse che «Noi qui non si è contenti se non si riesce a mettere a coltura uno di questi avvallamenti», si rese conto che «stavo perdendo tutto il significato interno della situazione. Poiché per me le radure volevano dire solo denudazione, pensavo che avessero questo significato anch
e per coloro che le avevano create con le loro braccia robuste e le loro asce obbedienti. Ma quando guardavano quegli orrendi ceppi loro invece pensavano a una vittoria personale … In breve, la radura che per me era solo una brutta immagine sulla retina per loro era un simbolo pieno di onesti ricordi e che intonava un vero e proprio peana del dovere, della lotta e del successo».
Le impressioni iniziali di James sulla proprietà di questo agricoltore riecheggiano molte descrizioni di fattorie del New England, lasciateci da viaggiatori inglesi del Sette-Ottocento. «La scena è veramente selvaggia» scrisse un europeo vedendo il paesaggio americano per la prima volta. I primi agricoltori si limitavano a bruciare o contenere intere foreste e poi procedevano a seminare le loro piante in mezzo ai tronchi senza foglie e ai ceppi carbonizzati. Secondo molti visitatori, i campi del New England avevano un «aspetto rozzo e orrendo». Perché questa repulsione? Probabilmente perché ormai, nel Settecento, gli europei si ritrovarono con così pochi alberi da maturare all’improvviso una nuova percezione del loro valore e della loro bellezza. L’atteggiamento dell’americano verso le foreste vergini li faceva inorridire proprio come oggi quello del brasiliano verso la sua foresta pluviale fa inorridire noi.
Chi ha ragione, allora? Quale tra le diverse storie che possiamo raccontare a noi stessi su alberi e asce è vera? È facile e consolante pensare che sul tema degli alberi io sia più illuminato di Joe Matyas (o dei brasiliani), ma sto cominciando a pensare che la verità sia più complicata.
In realtà, l’etimologia della parola true, vero, ci riporta al termine usato dagli antichi anglosassoni per tree, albero: per loro, una verità non era nulla più che un’idea profondamente radicata. Allo stesso modo, la mia versione di un albero messo a dimora – ambasciatore nel futuro, depositario della storia, indice del nostro rispetto per la terra, fonte di piacere estetico, eccetera – è «vera»; ha radici profonde nella cultura e sembra servirci bene. Ma – come avrebbe potuto avvertirmi Joe Matyas – anche le idee con le radici più profonde possono cadere.Naturalmente, l’albero di Joe Matyas e il mio non sono gli unici che abbiano ombreggiato questo luogo. A partire da quella dell’indiano, posso contare forse altre cinque o sei versioni di albero che sono state accolte con favore, soltanto considerando quest’angolo del New England. La storia di questi alberi (o metafore di alberi) vale la pena di essere raccontata, se non altro perché indica come le nostre verità personali sulla terra possano un giorno lasciare spazio ad altre verità, nuove e forse più utili.
Benché non si abbia notizia di indiani vissuti a Cornwall, sappiamo però che cacciavano e attraversavano le foreste qui attorno, e la maggior parte delle nostre strade ricalca le loro piste. Il paesaggio degli indiani era animato da ogni sorta di spiriti, ed essi credevano che gli alberi possedessero un’anima veneranda che facevano bene attenzione a non offendere. All’ombra di certi alberi era possibile trovare conoscenza e intuizioni. Gli alberi avevano sentimenti, occhi e orecchie (un concetto, questo, che ha mostrato una certa persistenza), e a meno che non fosse assolutamente necessario, non venivano abbattuti; e anche in quel caso, ci si premurava di spiegare all’albero le proprie ragioni e di chiedere il suo perdono.
Gli indiani d’America non furono il primo popolo, e nemmeno l’unico, a considerare gli alberi divini; se non la maggioranza, comunque molti popoli precristiani praticavano una qualche forma di venerazione degli alberi. Il ramo d’oro di Frazer elenca decine di esempi, tratti da ogni angolo dell’Europa settentrionale come pure dall’antica Grecia, da Roma e dall’Oriente. Per gran parte della storia, in effetti, i boschi sono stati densamente popolati di spiriti e folletti, demoni, elfi e fate, e gli alberi stessi sono stati considerati dimore degli dèi. (È interessante osservare che un albero – la quercia, l’albero di Zeus – è stato venerato più di qualsiasi altro. Forse ciò si spiega tenendo conto della sua longevità: più della maggior parte degli altri alberi, la quercia trascende gli esseri umani. Frazer suggerisce un’altra possibile ragione di questo status speciale: la quercia è l’albero più colpito dal fulmine, e quindi si può pensare che goda di un rapporto speciale con il cielo).
Se, come è stato detto, il monoteismo insegnò agli esseri umani come temere Dio senza temere anche il creato, i puritani spinsero questa idea innovativa all’estremo; potevano amare Dio e al tempo stesso detestare il creato. Difficilmente l’albero del puritano avrebbe potuto essere più diverso da quello dell’indiano; ai suoi occhi, la foresta del Nuovo Mondo era un «luogo disabitato orrendo e desolato», «selvaggio e desolato», una «cupa boscaglia» in cui una persona poteva perdersi, essere uccisa oppure, peggio ancora, allontanarsi da Cristo e dalla civiltà – per assumere i costumi indigeni. La foresta, quel luogo ombroso infestato da Satana e dall’incertezza, offendeva profondamente le idee puritane di ordine e luce, in effetti della civiltà stessa. Nei racconti di prigionia che i puritani (e molte generazioni successive di americani) si narravano per demonizzare gli indiani, l’albero è presentato come un complice virtuale del male; immancabilmente i pellerossa legavano a un albero la donna bianca prigioniera e sbattevano contro un altro la testa del suo bambino. Abbattere un albero era un atto di suprema virtù, grazie al quale si faceva avanzare l’opera di Dio e si teneva a bada la desolata natura selvaggia.I duri sentimenti dei puritani nei confronti degli alberi avevano sicuramente qualche ragione di ordine pratico: portare nel Nuovo Mondo la loro forma di agricoltura richiese uno sforzo erculeo di deforestazione, e un odio virtuoso nei confronti dei boschi era un buon modo per accelerare il lavoro. D’altra parte, sembra anche probabile che la vista degli indiani in adorazione degli alberi alimentasse l’antipatia verso questi ultimi. I puritani si trovavano in una terra in cui gli alberi erano ancora idoli pagani. Nell’abbatterli, prendevano posto in un’antica tradizione cristiana di animosità contro gli alberi, che la Chiesa giustamente considerava rivali; i papi medioevali avevano regolarmente emesso proclami per proibirne la venerazione e ordinare la distruzione dei boschi sacri. Come accadeva spesso, quando la proibizione totale di tale prassi pagana non riuscì a eliminarla, la mossa successiva della cristianità fu quella di cooptarla, ed è possibile interpretare l’architettura delle cattedrali gotiche, i cui spazi altissimi e la luce filtrata ricordano quelli di una foresta, come un ingegnoso tentativo di appropriarsi del bosco sacro in nome di Cristo.
Benché agissero in nome di un’autorità più secolare, i coloni successivi e poi i federalisti continuarono, e infine vinsero, la guerra dei puritani contro gli alberi.3 Ormai de-divinizzato, agli occhi dei coloni l’albero appariva o come un bene di consumo, o come un’erbaccia. Quando un colono guardava un pino, vedeva l’albero di una nave; in una quercia vedeva doghe per botti. Tutto il resto era d’intralcio. Per il colono la deforestazione era sinonimo di progresso; abbattere gli alberi migliorava la terra e in molti casi rafforzava il diritto a possederla.
Quando, nel 1738, i terreni su cui oggi sorge Cornwall furono battuti all’asta in lotti da 200 ettari ciascuno, la colonia stabilì che ogni nuovo proprietario dovesse disboscare almeno due ettari e mezzo della sua terra entro tre anni, o altrimenti rinunciare al diritto su di essa. Secondo gli archivi cittadini relativi alle tasse sulla proprietà, entro il 1820 tutti i terreni, salvo una piccola quota, erano stati disboscati. Nel 1919, quando fu acquistato da Joe Matyas, questo versante della collina doveva essere pressoché nudo. Proprio allora, però, le fattorie di Cornwall avevano cominciato a fallire e il bordo di alberi rimasti intorno alla città si stava dilatando, espandendosi dalle cime delle colline refrattarie all’aratro giù verso la Housatonic Valley e opponendosi a qualsiasi opera di diboscamento sul suo cammino. Essendo uno degli ultimi nella zona a ereditare la metafora dell’Albero Coloniale, Joe deve aver lottato strenuamente per tenere a bada la foresta che avanzava. Come moltissimi americani dell’ultimo secolo, avrebbe trovato più facile venerare un’ascia che non un albero. Senza dubbio avrebbe approvato il «Canto della scure» di Whitman, in cui l’ascia è raffigurata come una sorta di fonte da cui sgorga la nuova nazione americana:
La scure rimbalza!
La densa foresta emana fluide risonanze,
Divallano, sorgono, assumono forma,
Capanna, tenda, approdo, picchetto,
Coreggiato, aratro, piccone, leva, vanga,
Embrice, traversa, puntello, assito, stipite, panconcello, pannello, frontone a punta,
Cittadella, soffitto, taverna, accademia, organo, palazzo d’esposizioni, biblioteca,
…
Senati dei singoli Stati e senato della nazione di Stati,
…
Le forme sorgono!
La storia delle metafore dell’albero non è assolutamente lineare come la sto presentando. Infatti, benché la versione coloniale abbia avuto il sopravvento in questa proprietà per gran parte della sua storia, vi hanno lasciato il segno, sia pure in modo molto più lieve, anche alcuni elementi di altre metafore. I due frassini bianchi, per esempio, furono probabilmente messi a dimora sotto l’influenza di una nuova metafora arborea, sorta in Inghilterra nel Sei-Settecento, subito dopo la presa di coscienza, da parte degli inglesi, che erano rimasti loro ben pochi alberi. Il significato dei miei frassini, che presumo siano stati piantati da Matyas o dal suo immediato predecessore, è essenzialmente politico: montando la guardia all’imbocco del vialetto d’accesso, dichiarano i confini della proprietà e ribadiscono l’intenzione del proprietario di tenersela stretta a tempo indefinito.
L’idea che piantare degli alberi potesse avere un significato sociale o politico sembra essere stata inventata dagli inglesi, anche se poi da allora si è diffusa ampiamente. Secondo la ricostruzione storica di Keith Thomas, L’uomo e la natura, gli aristocratici del Sei-Settecento cominciarono a piantare latifoglie arboree, di solito in filari, per dichiarare sia l’estensione della loro proprietà, sia la loro rivendicazione permanente su di essa. «Che cosa può mai esservi di più piacevole» domandava ai suoi lettori l’editore di una rivista per gentiluomini «che avere i confini e i limiti dei vostri possedimenti mantenuti e tramandati di generazione in generazione da simili testimonianze viventi e in continua crescita?». Piantare alberi aveva l’ulteriore vantaggio di essere considerato un atto patriottico, perché la Corona aveva reso nota una pericolosa scarsità del legno duro da cui dipendevano i cantieri della Royal Navy.
Era nato l’Albero Politico.
Gli aristocratici inglesi dell’epoca svilupparono un’ossessione per gli alberi, che non solo piantavano, ma dipingevano e facevano oggetto di poesie e discussioni di opprimente lunghezza. (Quando Washington Irving visitò l’Inghilterra, rimase al tempo stesso divertito e sconcertato nell’imbattersi in gentiluomini intenti a discutere gli attributi di singoli alberi come si fosse trattato di statue o cavalli). I proprietari terrieri finirono per identificarsi con i propri alberi, a vedere nella loro nobiltà e nelle loro radici profonde il simbolo della propria stessa posizione sociale. Edmund Burke dichiarò che gli aristocratici erano «le grandi querce che proteggono con la loro ombra un paese».
È raro che questo tipo di simbolismo politico sfugga ai membri meno privilegiati della foresta sociale: durante la Rivoluzione inglese, nelle campagne, i ribelli abbatterono sistematicamente gli alberi nelle proprietà dei Realisti. Dopo la Restaurazione, per un gentiluomo, ripiantare gli alberi era considerato un modo appropriato di dimostrare la propria lealtà alla monarchia, e tra il 1660 e il 1800 furono piantati diversi milioni di latifoglie arboree.
Così, proprio mentre gli americani si stavano impegnando a fondo nella deforestazione del loro continente, gli inglesi si imbarcavano in quella che probabilmente fu, nella storia, la prima operazione di messa a dimora di alberi su vasta scala. Era stata riscoperta la venerazione degli alberi, anche se adesso il suo significato era evidentemente più sociale che spirituale. Come sottolinea Thomas, piantare alberi sulla scala osservata in Inghilterra nel Settecento rifletteva non «soltanto disponibilità di tempo e di molto denaro, ma anche stabilità politica e un sistema di successione che desse fiducia nella trasmissione dell’eredità. Indubbiamente fu questa una delle ragioni per cui il fenomeno ebbe inizio prima in Inghilterra» che altrove.
I grandi alberi d’Inghilterra, molti dei quali risalgono a quel periodo, non si limitano a riflettere le tradizioni conservatrici del paese, ma con ogni probabilità hanno anche contribuito a perpetuarle. Visitando l’Inghilterra al principio di questo secolo, lo scrittore ceco Karel C¬apek rifletteva che «… gli alberi venerandi [del paese], magnificamente solidi, antichi, generosi, liberi, immensi … hanno avuto una grandissima influenza sul torysmo in Inghilterra. Credo che essi salvaguardino gli istinti aristocratici, il senso della storia, il conservatorismo, il protezionismo, il golf, la Camera dei Lord, e altre cose antiche e curiose. Probabilmente, se io vivessi nella Strada delle ringhiere in ferro battuto, oppure nella Strada dei mattoni grigi, sarei un radicale rabbioso, ma poiché me ne stavo seduto sotto un’antica quercia nel parco di Hampton Court, ero seriamente tentato di riconoscere il valore delle cose antiche, la nobile missione dei vecchi alberi, l’armoniosa accoglienza della tradizione, e la legittimità di attribuire un valore a tutto ciò che è abbastanza forte da conservarsi nei secoli».
Quando gli esseri umani venerano gli alberi, conclude Keith Thomas, in realtà stanno venerando la propria società. In ogni caso, alberi piantati; perché la venerazione di alberi nell’ambiente naturale ha, come vedremo, un significato diverso. Gli alberi piantati in Inghilterra nel Settecento, però, fanno parte del patrimonio nazionale, il che potrebbe spiegare come mai, per gli inglesi, l’uragano dell’ottobre 1987 sia stato un colpo tanto duro.
Nella nostra epoca, l’Albero Politico ha trovato un terreno particolarmente favorevole in Medio Oriente. Forse a causa delle sue radici inglesi, ben presto il movimento sionista introdusse l’Albero Politico in Palestina, dove rimane un simbolo fortemente connotato. Gli israeliani hanno piantato milioni di alberi nel deserto per affermare la loro rivendicazione sulla terra; considerano inoltre reato lo sradicamento di un albero e hanno imposto ai residenti nei territori della Cisgiordania di procurarsi un permesso prima di piantarne uno sul suolo pubblico. Ovviamente il simbolismo politico degli alberi non ha mancato di impressionare i palestinesi, i quali, nei primi giorni dell’intifada, colpirono Israele appiccando il fuoco a diverse foreste piantate dal suo popolo. La rivolta delle pietre è stata anche una guerra degli alberi: per rappresaglia, l’esercito israeliano distrusse con i bulldozer gli uliveti palestinesi.
A poco a poco, in Inghilterra e in America, l’Albero Politico lasciò il passo, nell’Ottocento, all’Albero Romantico, il cui significato è più spirituale che sociale. Questo è l’albero di Wordsworth, Emerson, Thoreau e Muir – e anche, in linea di massima, della nostra epoca. «Nei boschi torniamo alla ragione e alla fede» scriveva Emerson, orientando gli americani verso un albero dal quale potevano trarre sostegno spirituale: in America, un’idea innovativa. In contemplazione e in compagnia dell’Albero Romantico – indipendente, solido, sempre proteso verso il cielo – potevamo trovare un antidoto alla nostra meschina cultura commerciale, e aprirci all’infinito: l’albero infatti sta al di sopra della storia e fornisce un punto d’osservazione elevato, da cui potevamo guardare, oltre la confusione e il caso, verso «leggi più sublimi». Gli alberi «si prendevano cura» degli esseri umani, diceva Thoreau; provvedevano al nostro benessere spirituale ed emozionale. «Mostratemi due villaggi, uno circondato di alberi … l’altro un luogo desolato, squallido e senz’alberi, o che ne abbia uno o due soltanto per i suicidi, e io sono certo che nel secondo si troveranno i bigotti più affamati e fanatici e i beoni più disperati».
Nell’America della seconda metà dell’Ottocento, l’Albero Romantico e l’Albero Coloniale coesistettero in tensione. Pressappoco nello stesso periodo in cui Whitman celebrava la sua scure, Thoreau componeva uno struggente necrologio per un pino abbattuto da un boscaiolo. «Una pianta che ha impiegato due secoli per giungere alla perfezione, elevandosi a passi lenti verso il cielo, oggi pomeriggio ha cessato di esistere … Perché la campana del villaggio non suona a morto?». Al volgere del secolo Gifford Pinchot, esperto di scienze forestali per Theodore Roosevelt, propose una nuova metafora, quella dell’Albero Utilitaristico, per riconciliare l’albero-bene di consumo e l’albero-oggetto spirituale; nel suo schema, se necessario, gli alberi potevano ancora essere abbattuti, ma in modo giudizioso, facendo attenzione a conservare alcuni boschi molto amati. Il compromesso di Pinchot, però, non resse, e alla fine, almeno nella mente popolare, l’albero di Thoreau prevalse sull’ascia di Whitman. Oggi, la maggior parte di noi vede l’albero e la foresta attraverso gli occhi di Thoreau. Il quale avrebbe facilmente riconosciuto l’albero descritto dai nostri autori naturalisti, che si erge fuori dalla cultura come una sorta di testimone morale e spirituale. L’Albero Romantico è, in effetti, l’immagine speculare dell’Albero dei Puritani; se questi ultimi abbattono gli alberi per redimere la natura, i romantici li venerano per redimere la cultura. Entrambi considerano natura e cultura come antagoniste; soltanto, esprimono un voto diverso.
Ovviamente, la metafora arborea che un popolo fa propria avrà una grandissima influenza sugli alberi di quell’epoca. Gli Alberi dei Puritani tendono a essere abbattuti all’insegna del bigottismo; gli Alberi Coloniali, senza cerimonie. Gli Alberi Politici vengono messi a dimora nei momenti di stabilità, ma quando è tempo di rivoluzione sono abbattuti, sia pure con le cerimonie del caso. E l’Albero Romantico? Il suo destino appropriato è di ritrovarsi in un parco o in una riserva naturale, lontano dai traffici degli esseri umani. In generale, più che piantato, l’Albero Romantico viene conservato, giacché gran parte della sua autorità spirituale gli deriva dall’indipendenza dagli esseri umani, dalla sua incontaminata Alterità. E in effetti è proprio all’idea romantica di albero e in generale di natura che dobbiamo l’invenzione delle aree incontaminate protette, uno dei grandi contributi americani alla cultura mondiale.
Qual è il mio posto tra queste metafore? Da qualche parte fra l’Albero Politico e quello Romantico, credo. Nell’accingermi a piantarlo, sto agendo in linea con la metafora politica: voglio lasciare il mio segno in questo luogo, e voglio rivolgermi al futuro. Francamente, però, sarei stato altrettanto felice di ereditare degli alberi, e di passare direttamente all’infatuazione romantica. Desideravo con tutto il cuore dei grandi alberi, qui, in modo da potermi immergere in pensieri emersoniani, al riparo della loro ombra. La maggior parte dei miei sentimenti inconsapevoli sugli alberi l’ho ereditata dai romantici. Le mie conclusioni iniziali su Joe Matyas erano esattamente quelle che avrebbe tratto Thoreau: da questo «luogo desolato, squallido e senz’alberi» avrebbe concluso che il suo proprietario era un bigotto fanatico e un beone disperato: un pagano in una terra di adoratori della natura.
Tuttavia, come ho detto, non mi sento più a mio agio con una descrizione così compiaciuta. Joe visse alla luce di una metafora diversa, necessaria per portare a termine un particolare compito storico, quello di colonizzare e costruire l’America. A quel tempo, essa era uno strumento importante come l’ascia. Benché per noi possa essere più difficile da capire, le nostre metafore sulla natura non sono più giuste o più eterne di quella di Joe. Osservata dalla prospettiva della prossima metafora arborea, la nostra apparirà contingente come la sua – e probabilmente altrettanto retriva. Se la storia che sto raccontando ha qualcosa da insegnarci, è che l’idea ottocentesca dell’albero placidamente svettante fuori dalla cultura – anzi, tutta l’idea della natura come di qualcosa che sta «là fuori», una sorta di assoluto metafisico permanente rispetto al quale possiamo giudicare la cultura contingente e confusa – è essa stessa un costrutto culturale, un’invenzione di Emerson e Thoreau e dei poeti romantici inglesi. Certo, una grande invenzione – che ci ha donato le riserve naturali, la nostra insuperata letteratura naturalistica e una gran quantità di splendidi viaggi a contatto con la natura –, ma non dovremmo scambiarla per una verità eterna. Come l’Albero Coloniale o l’Albero Politico, anche l’Albero Romantico non è nulla più (o nulla meno) di uno strumento dimostratosi utile nel realizzare alcuni importanti compiti della storia.
Sto tuttavia cominciando a chiedermi in quale misura esso continui a essere utile. Se finora il giardinaggio mi ha insegnato qualcosa, è che la netta contrapposizione romantica tra natura e cultura non è d’aiuto. La metafora romantica non ci attribuisce alcun ruolo, in natura, salvo che come osservatori o adoratori; agire nella natura significa macchiarla con la cultura (consideriamo l’accezione diffusa: la terra è «vergine» finché l’uomo non le fa «violenza»). L’idea romantica poteva incoraggiarmi a venerare e conservare gli alberi che avevo, ma non mi offriva grandi incentivi a piantarne di nuovi. In effetti è proprio l’immagine del nobile Albero Romantico a far apparire tanto patetici gli striminziti alberelli del vivaio, con il loro cartellino del prezzo. La metafora politica potrebbe essere un po’ più utile – mi aiuta a tenere d’occhio una gratificazione lontana nel tempo –, ma non vi è una certa presunzione in tutte quelle idee grandiose sul piantare alberi per le generazioni future?
Mi sembra che ora sia tempo di usare qualche metafora arborea nuova.
Ma torniamo per un momento da questa foresta di alberi alquanto speculativi al mio albero vero, in attesa di essere piantato.
Dopo aver scavato la buca, preparai il terreno, un argomento sul quale le autorità in materia di messa a dimora degli alberi sono attualmente divise. La linea di pensiero più recente sostiene, contra Snodsmith, che – tanto per cominciare – il terreno non dovrebbe essere migliorato, a meno che non sia insolitamente povero: la teoria è che un albero fatto crescere in una porzione di terreno privilegiato sarà viziato e non riuscirà a sviluppare una costituzione robusta. Il mio terreno è talmente pesante che decisi di dar retta al consiglio della vecchia scuola, di alleggerirlo e arricchirlo. Così, dopo aver smosso la terra sul fondo del cratere con un forcone, aggiunsi una balla di sfagno del volume di 170 litri, un paio di sacchi di letame bovino compostato da 18 chilogrammi e qualche palata del compost di mia produzione (niente fertilizzanti, però: possono bruciare le radici di un giovane albero). In piedi sul fondo della buca, rivoltai e mescolai la miscela con il forcone, e poi ne misi un po’ da parte per dopo. Inoltre graffiai e bucherellai le pareti del cratere: se sono troppo dure o lisce, l’albero finirà per sviluppare una matassa fittissima di radici, più o meno come se stesse crescendo in un vaso.
Il passo successivo consiste nel far arrivare un tubo di gomma fino alla buca e nel riempirla d’acqua. Questo si fa non solo per assicurare un’adeguata fornitura di umidità, ma anche per far assestare bene la terra e rimuovere ogni grossa bolla d’aria che potrebbe far marcire qualsiasi radice eventualmente esposta ad essa. Diedi all’acqua tutto il tempo di filtrare nella terra e poi misurai la profondità della buca, usando un’asse e un filo a piombo. La profondità alla quale si pianta l’albero è un fattore critico: se si esagera, le radici possono soffocare; ma se si resta troppo in superficie, rischiano di rimanere esposte. Il terreno aggiunto alla fine dovrebbe coprire appena la parte superiore del pane di terra. Se il suolo sul fondo della buca è stato disturbato, è importante lasciarlo assestare.
Alla fine avevo un’autentica buca da cinquanta dollari, una buca snodsmithiana, ed era arrivato il momento di presentarle il mio acero. Con l’aiuto di una spessa asse di legno e qualche altra mano disponibile, feci in modo di calarlo nella buca con delicatezza, senza che il pane di terra urtasse troppo. Benché non sia necessario togliere la iuta (si decomporrà abbastanza in fretta) slegai comunque i nodi alla base dell’albero e rimossi, per quanto possibile, tutto il filo metallico che avvolgeva il pane delle radici. Poi, mentre Judith teneva il tronco perpendicolare, cominciai a riempire la buca intorno alle radici con la miscela di terreno che avevo preparato. Ogni volta, dopo qualche palata, innaffiavo e premevo con i piedi sul terreno fresco per spremere fuori l’aria e consolidarlo. Quando il lavoro di riempimento giunse al livello del suolo, formai tutt’attorno al perimetro della buca un bordo di 15 centimetri per raccogliere l’acqua piovana e condurla verso le radici. Riempii questa vasca di acqua diverse volte, inzuppando profondamente le radici, e poi aggiunsi uno strato di pacciame per impedire al terreno di asciugarsi.
Quando si mette a dimora una pianta, sembra sempre di ridurne le dimensioni: all’improvviso il mio acero aveva perso quasi un metro di altezza, il che lo faceva sembrare ancor più insignificante di quando era posato a terra. Senza contare che adesso stava per diventare ancora più striminzito, visto che John mi aveva dato istruzioni affinché lo «cimassi»; per ripristinare un corretto equilibrio tra le radici (che sono già state ridotte al vivaio) e la cima dell’albero, dopo la messa a dimora la chioma andrebbe sfoltita: di circa un terzo, dicono alcuni, benché altri trovino da ridire sulla questione. Se la chioma è troppo ampia, il sistema radicale ridotto dell’albero potrebbe non essere in grado di fornirle abbastanza acqua per sostenere il fogliame eccessivo, e la pianta andrà in shock. (Questo spiega perché gli alberi si mettono a dimora nel tardo autunno, quando non hanno foglie e pertanto hanno poco bisogno di acqua; quando in primavera rispunteranno le foglie, il sistema radicale ormai avrà recuperato). Perciò, con l’obiettivo di ristabilire un corretto rapporto tra chioma e radici, mi arrampicai su una scala e, con riluttanza, amputai diversi rami, già scarsi, del mio albero, in un atto di misericordia orticolturale che trovai difficile da eseguire.
Il passo finale consiste nel fornire all’albero, durante il suo primo anno, una certa protezione dagli elementi, benché – anche su questo punto – si scateneranno le discussioni; la scuola più recente è contraria a viziare indebitamente la nuova pianta. Ad ogni modo, io optai per il vecchio approccio «cuore di mamma», basandomi sulla particolare durezza delle condizioni su questo versante della collina. Per proteggere la corteccia dell’albero dal sole e dal vento invernali, avvolsi il tronco con della carta; per contrastare i topi di campo a cui piace mordicchiare tutto il contorno della base di un giovane albero (e che così facendo lo uccidono), lo fasciai con una sorta di calza ricavata da un pezzo di zanzariera metallica. E infine legai l’albero a un tutore, per evitare che il vento ne disturbasse le fragili radici mentre facevano le loro prime incursioni in un suolo sconosciuto.
Quando arretrai per ammirare il mio lavoro, era ormai il crepuscolo. Era una di quelle sere di ottobre senza nubi in cui la temperatura si abbassa velocemente, marciando a ranghi serrati con il sole; la notte prometteva una gelata letale. E il mio acero appena piantato, questo preziosissimo bastone sormontato di rametti, con tanto di calze e stabilizzato da tiranti, sembrava decisamente troppo vulnerabile per passare la notte fuori casa da solo. Considerando tutto quel lavoro, non sembrava un granché – un vecchio nodoso con un bastone, là fuori da solo, in una pianura senz’alberi, nulla di più lontano dalla nostra immagine di Albero Romantico. E nei giorni che seguirono, sarei rimasto deluso più volte dal fatto che i visitatori nemmeno si accorgevano del mio acero se non ero io a sollecitarli, e meno che mai lo ammiravano. Ma più me ne stavo lì ad osservarlo, più numerosi erano gli aspetti che riuscivo a coglierne. Può darsi sia stata la luce tarda e incerta, ma dopo un po’ non ebbi alcuna difficoltà a immaginare il suo futuro prender forma. Guardavo i ramoscelli sottili e nodosi e potevo figurarmeli, come in un time-lapse, coprirsi di foglie e ramificarsi, primavera dopo primavera, un ramo in due, e poi in quattro, in otto, in sedici: il mio albero si costruiva a ogni estate in una progressione geometrica che alla fine generava una grande chioma ovale.
Dal mio scrittoio, nel loft del fienile, ho una buona vista sul nuovo albero e ogni volta che la mia attenzione si stacca dal lavoro e divaga, sembra fissarsi là, tra i suoi rami senza foglie. Lo so, è un essere fragile per caricarlo di tante riflessioni, ma questo sembra essere il destino degli alberi nel mondo umano – i nostri pensieri e le nostre metafore si aggrappano loro come limatura di ferro a un magnete. Ovviamente gli alberi esistono a prescindere dal nostro elaborare immagini che li riguardano – non li abbiamo certo inventati noi; tuttavia, hanno sposato le nostre metafore in tempi così remoti che non abbiamo idea di come sarebbero da single. Ogni volta, quando crediamo di aver capito che cosa sia veramente un albero – la dimora degli dèi, un bene di consumo, parte integrante della natura trascendente, una componente dell’ecosistema forestale –, salta fuori che ne abbiamo ottenuto una nuova descrizione, di una qualche temporanea utilità pratica. Eppure, considerando ciò che siamo noi, non è cosa da poco: le nostre metafore contano. Anzi, le nostre metafore sugli alberi, in linea di massima, determinano il loro destino.
Gli alberi sono entrati nella cronaca in tempi alquanto recenti. Gli scienziati ci avvertono che sono in difficoltà e che la loro salute è strettamente legata alla nostra in modi mai immaginati prima. È probabile che la deforestazione stia contribuendo ad alterazioni potenzialmente catastrofiche dell’atmosfera terrestre. Nessuna meraviglia, quindi, che adesso le immagini degli alberi sembrino comparire dappertutto: nelle gallerie d’arte, sulle copertine delle riviste, nei loghi e nelle pubblicità di prodotti, nei discorsi dei politici. La mia impressione è che, poiché percepiamo la progressiva usura delle nostre antiche metafore sugli alberi e sulla natura nel suo complesso, ci stiamo guardando intorno per trovarne di nuove e più potenti. Quando il mio acero raggiungerà l’età matura probabilmente avrà un significato molto diverso da quello che ha oggi.
Quali potrebbero essere queste nuove metafore? Di recente, alcuni filosofi e attivisti hanno ipotizzato che il mio albero (e in generale la natura) possieda dei «diritti». Costoro considerano la storia occidentale come una lotta incessante per ampliare la cerchia di coloro che detengono diritti: dai nobili ai proprietari terrieri, e poi ai maschi bianchi, agli uomini in generale e, più recentemente, alle donne. Ora ci propongono di allargare ancor di più questo cerchio, così da comprendervi la natura. Come se nulla fosse, stabiliscono analogie tra la condizione degli afroamericani prima dell’abolizione della schiavitù, da un lato, e l’attuale condizione della natura, dall’altro. Tale equazione legittima un’azione radicale in difesa della natura, e gruppi come Earth First! ricorrono regolarmente alla prassi di conficcare lunghi chiodi nel tronco degli alberi – il cosiddetto tree spiking – per difenderli da chi intende abbatterli. Se si accetta che gli alberi hanno pari diritti, il fatto che questa prassi metta a rischio la vita dei boscaioli e degli operai delle segherie sembra molto meno inquietante.
In un libro intitolato Should Trees Have Standing?, uno studioso di diritto, Christopher D. Stone, si è spinto fino a sostenere che si dovrebbe riconoscere a foreste, laghi e montagne il diritto di intentare cause legali nei tribunali americani. L’idea non è forzata come sembra; agli occhi della legge, aziende e navi sono già «persone giuridiche», e quindi perché non anche gli alberi? L’argomentazione di Stone venne effettivamente accolta dal giudice William O. Douglas, e in anni recenti sono state intentate con successo alcune cause legali per conto di alberi e altri oggetti naturali.
Non sono sicuro di apprezzare l’idea che il mio acero diventi un attaccabrighe dalla querela facile. Benché i proponenti dei diritti della natura abbiano sicuramente a cuore l’interesse del mio albero e della natura in genere, mi preoccupa il fatto che, in un mondo dove gli alberi avessero dei diritti, con ogni probabilità quelli degli esseri umani sarebbero sostanzialmente diluiti. I diritti dell’individuo – questa conquista tanto fragile della storia occidentale, e ottenuta a così caro prezzo – non se la passerebbero bene in un mondo di «diritti della natura»: se non altro perché, in natura, le specie contano sempre più degli individui. Dalla prospettiva «biocentrica» che gli ambientalisti radicali ci stanno spingendo ad adottare, gli ultimi grizzly contano più di qualsiasi singolo essere umano. Nel tentare di espandere il liberalismo al punto da fargli abbracciare la natura, potremmo finire per distruggerlo.
Naturalmente questa è un’obiezione meramente pragmatica, e non modificherà le posizioni di chi pensa di aver scoperto una nuova verità sulla natura. L’idea dell’albero come detentore di diritti, in realtà, non è che un’altra metafora, che siamo liberi di accettare o respingere. Se farà presa in questo paese (e temo che possa riuscirci) sarà perché coincide sia con la nostra tradizione liberale, sia con l’Albero Romantico di Thoreau. (Perché che cosa è mai l’Albero Attaccabrighe se non un Albero Romantico assistito da un avvocato?). Eppure, con tutto il loro parlare di biocentrismo, i fautori dei diritti della natura non sfuggono mai davvero alla trappola dell’antropocentrismo: i diritti, dopo tutto, sono un’invenzione umana, che sta sempre a noi concedere o negare.
E, comunque, non possiamo trovare una metafora meno goffa dell’ennesima fondata sui «diritti»? In effetti, la scienza ha recentemente proposto alcune nuove descrizioni degli alberi che mi hanno colpito come molto più promettenti e che, a posteriori, conferiscono un singolare carattere di prescienza agli antichi, intensi sentimenti del genere umano verso gli alberi.
Pensiamo all’albero come all’apparato respiratorio della Terra: un organo che contribuisce a regolare l’atmosfera del pianeta espirando ossigeno fresco e inalando l’anidride carbonica che gli animali, i processi di decomposizione e la civiltà riversano in essa. In questa nuova descrizione, l’albero non è soltanto un membro dell’ecosistema forestale locale (dove sappiamo già da tempo che esercita un’influenza considerevole sulla vita, sul suolo e anche sul clima); è anche un organo vitale in un sistema globale più intricato e interdipendente di quanto avessimo mai realizzato. Con ogni probabilità, la Terra non è un’astronave ma un organismo, e gli alberi potrebbero essere i suoi polmoni.
Usando strumenti per l’analisi dei gas installati sul versante di un vulcano nelle Hawaii, gli esseri umani hanno realmente osservato il respiro della Terra, che segue un ritmo annuale: ogni estate, mentre le foreste inspirano, nell’atmosfera dell’emisfero settentrionale la quantità di anidride carbonica diminuisce; e a ogni inverno, quando la fotosintesi segna il passo e il mondo civilizzato aumenta il consumo di combustibili fossili, i livelli di anidride carbonica tornano ad aumentare – ogni anno un po’ più alti. (In questa nostra epoca, probabilmente, il respiro della Terra sta facendosi affannoso, mentre l’inalazione di anidride carbonica da parte delle foreste fatica a tenere il passo con il pesante respiro caldo della civiltà). Qui, allora, troviamo i lineamenti di una nuova metafora arborea, di grande potenza, bellezza e significato.
La scienza ha anche finito per considerare gli alberi come barometri della nostra salute ecologica, giacché sembrano manifestare, molto prima che affiorino altrove, gli effetti dei danni arrecati dall’uomo all’ambiente. Gli ecologi pensano che l’effetto serra si presenterà dapprima nelle foreste, dove le specie che amano i climi freschi, incapaci di migrare verso nord abbastanza velocemente per tenere il passo con il clima sempre più caldo, potrebbero ben presto ammalarsi e soccombere. Già le foreste del New England mostrano gli effetti delle piogge acide (come il lettore ricorderà, questa è la ragione per cui mi portai a casa un acero riccio; il mio albero probabilmente è un indice dei nostri primi sforzi per adattarci a questo nuovo mondo). Gli alberi sono come i canarini che i minatori usavano portare con sé nelle miniere di carbone; poiché gli uccelli soccombevano ai gas velenosi molto prima degli esseri umani, mettevano in guardia i minatori sulla presenza di pericoli invisibili.
Potendo scegliere, preferirei che a prender piede fosse l’Albero Polmone o l’Albero Canarino, piuttosto che l’Albero Attaccabrighe. Queste prime due metafore (che in effetti sono strettamente correlate) hanno il pregio di costringerci a vedere le connessioni fra le nostre piccole azioni locali e la salute globale del pianeta; ci incoraggiano a preservare gli alberi che abbiamo e a piantarne di nuovi; ma – ancora più importante, credo – la metafora del polmone ci mette nuovamente in rapporto reciproco con gli alberi. Erode le idee romantiche sulla loro Alterità, orientandoci verso un piano esistenziale condiviso. Se arrivassimo a pensare agli alberi come a polmoni, e alla Terra come a un organismo, non avrebbe più senso pensare a noi stessi come a creature esterne alla natura, né agli alberi come a esseri esterni alla cultura. In effetti, tutta la metafora esterno/interno potrebbe appassire, e sarebbe una buona cosa.
Ovviamente è impossibile prevedere quale di queste nuove metafore prenderà piede, ammesso che una di esse lo faccia; dipenderà da quanto si dimostreranno utili, come pure dalle solite vicissitudini delle nostre conversazioni sulla natura. In qualsiasi momento, infatti, potrebbe affacciarsi un nuovo Thoreau – che stavolta potrebbe, o meno, essere uno scienziato – e ricreare completamente la nostra idea di albero, lungo linee che forse non possiamo prevedere. Questo però sono in grado di dirlo: se potessi sapere che ne sarà del mio acero da qui a cent’anni, saprei anche moltissimo sul destino della natura.
Un giorno, non molto tempo fa, ho riflettuto esattamente al tipo di notizia che vorrei ricevere dal mio albero. Era un mattino, di buon’ora, dopo una notte che aveva portato la prima neve. Nel cielo d’oriente il sole era così basso e così luminoso, che l’acero gettava un’ombra insolitamente lunga e ben definita sulla bianca superficie innevata. Correva dritta a ovest attraverso il prato, poi piegava su per una collinetta, e infine s’addentrava nei boschi, dove io ne persi traccia.
E allora che cosa volevo sapere da laggiù, dall’orizzonte? Di certo il rapporto stilato sul mio albero da un botanico sarebbe stato utile. L’acero riccio è una specie che ama i climi freschi, e se nel caldo clima del 2091 si fosse ammalato, saprei che l’effetto serra è reale e non siamo stati in grado di evitarlo. Ma forse ancor più rivelatrice della relazione di uno scienziato sarebbe una lettera, scritta nel futuro, che per caso dedicasse qualche frase alla descrizione del mio albero, nel linguaggio di tutti i giorni. Da quella potrei apprendere in che modo la gente del 2091 guarderà a un albero, e questo mi informerebbe bene sul futuro stato della natura. Se la lettera lo descrivesse in termini che Joe Matyas – o se è per questo, anche Henry Thoreau – avrebbe trovato familiari, ci sarebbe di che preoccuparsi, perché significherebbe che siamo rimasti impantanati nelle antiche metafore sulla natura, e che probabilmente non siamo riusciti a districarci dalla nostra difficile situazione attuale.
Ma forse la lettera conterrebbe le prove di una nuova metafora, qualcosa di intenso, potente e, almeno per qualche tempo, vero. Con ogni probabilità, al principio suonerebbe strana, perfino incomprensibile. Ma alla fine il suo significato affiorerebbe. Ecco cos’è un albero, dunque! Come abbiamo mai potuto pensare altrimenti? In tal caso, potrebbe esserci ragione di sperare che qualche nuova verità abbia messo radici, e che forse abbiamo finalmente dato una base più salda al nostro rapporto con la natura.
2. Questa fu una decisione ancor più cruciale di quanto pensassi. In seguito scoprii che l’acero riccio è una specie invasiva disprezzata dai giardinieri americani più raffinati. Inoltre fa un’ombra molto fitta in cui non cresce quasi nulla. L’acero canadese nativo, che è più bello, alla fine si riprese dai suoi problemi con i tripidi; io rimango comunque fedele al mio bistrattato acero riccio, se non altro quale durevole riconoscimento della mia naïveté orticolturale.
3. Le migliori descrizioni degli atteggiamenti dei puritani e dei coloni nei confronti del paesaggio si trovano nella storia ecologica di William Cronon, Changes in the Land, Hill & Wang, New York, 1983 [La terra trasformata: indiani e coloni nell’ecosistema americano, trad. it. di R. Arrigoni, Selene, Milano, 1993], e in John Stilgoe, Common Landscape of America, 1580-1845, Yale University Press, New Haven, 1982.
Tratto da: Michael Pollan, Una seconda natura, Educazione di un giardiniere, Adelphi
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