Ma i testimoni non aggiungono alcunché al testimoniato. Questo significa che Dante non è soltanto un testimone. Si sa che il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel che pensa. Pensa che la poesia sia soltanto «bella menzogna» qualora non si faccia «banditrice del vero», testimone della verità che sta nascosta sotto «il velame della favola» e il «favoloso e ornato parlare». Dante pensa della poesia quello che pensa Platone. E anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina-cristiana – comprendente anche la configurazione dell’oltretomba e i viaggi che in esso si possono compiere –, anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano alcune sue prese di posizione.
Scrive allora la Commedia solo per esprimere in un «favoloso e ornato parlare» la verità già pensata da altri? Per questo impegna e consuma tutta la sua vita?
Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di essenzialmente più decisivo. Anche senza rendersene conto, con la Commedia egli intende produrre la nuova immagine salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il dolore e la morte. Questo suo gesto scuote fino alle radici il grande albero della tradizione.
Che Dante scriva la Commedia significa cioè che per lui la grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza salvifica inferiore a quella della dimensione dove la verità e la vita adeguata alla verità sono il contenuto del canto e della poesia.
«Bella menzogna» e «velame della favola», la poesia, quando il suo contenuto non è la verità; ma più potente della nuda verità quando, avendo come contenuto la verità, le conferisce una potenza salvifica ben superiore a quella che la verità possiede di per sé sola.
La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su cui egli fa crescere il proprio linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente culturale, ma esprime la coscienza che ad attendere e a tendere alla salvezza della verità sono tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono identificarsi a quella rinnovata immagine festiva, che è la verità della filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e astrale concettualità, ma, attraverso un ulteriore rinnovamento, con le parole terrene della poesia.
Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica festa di ritornare presso i mortali. Ciò significa che troppo flebile rimembranza è per lui la liturgia cristiana – in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa che dalla poesia non possa separarsi la festa della verità e della cristianità – cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria salvezza e la propria destinazione all’«eterna letizia». La liturgia cristiana deve diventare liturgia poetica.
Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la protezione della cattedrale del passato: scava a fondo nel terreno del suo tempo e sbuca in un altro emisfero. In tale pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di filosofia. Dante non si limita a essere un grande testimone della situazione dove lo scopo dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente concretantesi e la vita a essa adeguata: al di là delle sue convinzioni sulla poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte.
Certo, la poesia è terrena; a differenza della nuda verità parla, oltre che ai sapienti, anche agli indotti; mentre nella letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna letizia la poesia, in quanto indispensabile alla verità, è cioè destinata a scomparire come scompare la fede – giacché la fede è l’assenso alle «cose che non si vedono» (non apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre nel paradiso le cose si mostrano e non hanno bisogno della fede.
Ma perché qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia. E Dante è pur sempre un essere terreno quando giunge al cospetto dei fiori dell’Eterno e della «candida rosa». Rispetto alla verità che si mostra nel paradiso, le forme visibili della «rosa sempiterna» dei beati – «Il fiume e li topazii / ch’entrano ed escono e il rider de l’erbe» (Paradiso, XXX, v.v. 76-77) – sono forme esterne, preamboli, prefazioni – «prefazi» – della loro verità, che in qualche modo esse coprono d’ombre («son di lor vero umbriferi prefazi», ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano in sé stessa. Ma nella condizione terrena – all’interno della quale Dante pur sempre rimane compiendo il suo viaggio nell’oltretomba – è l’ombra terrena della poesia a illuminare la sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che salva: a rendere potente la sua forza salvifica e a rendersi quindi indispensabile alla potenza dell’immagine:
E vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogni parte si mettean ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive.
Poi, come inebriate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
e s’una intrava, un’altra n’uscia fòri.
(Ibid., vv. 61-69)
Come semplice verità della ragione e della fede, l’immagine terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque non dispiega la propria potenza salvifica se i beati non appaiono insieme nelle forme della poesia: come i perpetui fiori dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del cielo, formano le due rive, «dipinte di mirabil primavera», del fiume, «fulvido di fulgore», da cui escono di continuo le scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori depongono rubini nell’oro e che restano a loro volta «inebriate da li odori».
Tratto da: Emanuele Severino, La potenza dell’errare, Sulla storia dell’Occidente