“Il mondo non è mai stato seduto sulle armi quanto lo è oggi”
Questa settimana Torino accoglie un’edizione di Biennale democrazia dal titolo cruciale: Guerre e paci, un Tolstoj al plurale. Come del resto era plurale lui, il conte che aveva combattuto nella guerra di Crimea, era diventato famoso per Guerra e pace ma è stato anche autore di una Lettera per la pace (1910) dove si pone domande che più di un secolo dopo risuonano sinistramente attuali: “Ma come si difenderanno le nazioni contro i loro nemici? Come manterranno l’ordine interno e come potranno vivere senza un esercito?”. Dopo due guerre mondiali e milioni di morti, sembra che siamo da capo. “A differenza delle edizioni precedenti, questa volta il tema sembrava inevitabile, vista la tragica situazione che stiamo vivendo”, spiega Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale.
Professore, che cosa vuole significare questo plurale?
Che non parleremo solo della guerra in senso tradizionale, ma della condizione dell’umanità nelle relazioni tra Stati, società, economie e culture. Discuteremo di guerra armata, ma anche di guerre commerciali, energetiche, informatiche, ecologiche, di genere, di suprematisti di vario tipo; ciascuna combattuta con i propri strumenti.
A Tolstoj era chiara una cosa: una volta avviata la macchina bellica, che porta solo dolore e distruzione, è difficile tornare indietro. E l’Europa si avvia, senza infingimenti e quasi con entusiasmo, al riarmo.
Si parla troppo di armi: è riaffiorato, ma forse non era mai scomparso, quel motto terribile: si vis pacem para bellum. Una massima elaborata ai tempi della pax romana, una pace fondata sul dominio, anche se il concetto era vecchio, forse addirittura platonico. L’idea di armonizzare due opposti e farli convivere come se dovessero esistere insieme è stata sintetizzata in questo calembour che significa non che non si farà la guerra, ma che la pace arriverà dopo aver vinto la guerra. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa ha goduto di decenni di pace, grazie a un equilibrio del terrore tra il mondo comunista e quello capitalista. La pace o, meglio, l’assenza di guerra, si basava sul timore reciproco. Mi armo, non faccio la guerra nella speranza che l’altro abbia paura. Ma può capitare che un’arma nucleare venga lanciata per sbaglio, ad esempio perché le tecnologie di controllo delle armi, sempre più affidate all’intelligenza artificiale, possono cadere in errore. L’equilibrio del terrore non ci protegge affatto dalla guerra. La storia che, come dice Hegel, è un grande mattatoio dimostra che, nonostante tutti gli Stati sovrani si siano sempre armati per paura, i conflitti non sono stati evitati. Ogni parte cerca di avere sempre un’arma in più rispetto all’altra, e questo crea una spirale maledetta, la corsa mondiale agli armamenti. Si innesca una logica perversa dalla quale è difficile uscire; è evidente che il mondo non è mai stato tanto seduto sulle armi quanto lo è oggi.
E le paci al plurale? Si parla molto di una pace giusta per l’Ucraina.
Siamo tutti favorevoli alla giustizia, e quindi anche a una giustizia applicata alla pace. Ma qui c’è una domanda che non amiamo porci: se non siamo in grado di garantire la pace giusta, saremmo disposti a fare la guerra, una guerra definitiva, con le bombe atomiche? È una questione che ha animato il dibattito pubblico in tutto il mondo negli anni Cinquanta. Io – forse lei mi dirà che sono un pusillanime – detesto le guerre. Prima di tutto viene la vita della gente comune e anche quella dei soldati. Trovo piuttosto scandaloso il fatto che, quando si fanno i conti dei morti, si parli del numero di civili e non si consideri quasi mai il numero dei soldati caduti, o li si consideri a parte, in altra categoria. Anche quelle dei soldati sono vite spente. Da un punto di vista morale, potrebbe essere persino peggio morire perché costretti, no? Tornando alla questione della pace giusta, penso che finché c’è vita, c’è speranza: preferirei una pace ingiusta piuttosto che una “morte giusta” per tutti, innocenti compresi. Una pace, per quanto ingiusta, non preclude la possibilità di operare successivamente per ottenere giustizia.
La sua lectio introduttiva a questa edizione di Biennale s’intitola “Su tre cose si regge il mondo”. E sono verità, giustizia e pace: possiamo ancora dire che la democrazia è la sintesi di questi tre capisaldi?
Questa formula proviene da un trattato di sapienza rabbinica chiamato Avot, sottotitolato La saggezza dei padri. Si afferma, appunto, che il mondo si regge su tre cose: verità, giustizia e pace. A me sembra che verità significhi onestà nel guardare le cose per come sono. Non è mai facile, ogni cosa è soggetta a interpretazione, soprattutto in tempi di guerra: non a torto si dice che “la prima vittima della guerra è la verità”, vittima della propaganda. Giustizia è una condizione in cui non si verificano radicali disparità di potere, dove ci sono i potenti e gli impotenti, quelli che possono tutto e quelli che non possono nulla, se non ubbidire. Ricorda la citazione dallo scritto di Kant sulla Pace perpetua: prìncipi “ingordi di guerra”? È un’immagine potente. I prìncipi possono essere ingordi di guerra perché la guerra la fanno sempre fare ai deboli, ai vulnerabili, a coloro che vengono sedotti dalla propaganda. La verità e l’uguaglianza di potere creano la pace e sono la base della democrazia. La guerra è oligarchica, perché è decisa dai pochi che ne traggono vantaggio a danno dei molti che la combattono e rischiano la vita; al contrario la pace è democratica perché riguarda tutti.