A veder che strazio qui si faccia della verità
verrebbe voglia di rovesciare il tavolo
e parlare addirittura dalla parte del cuore, che sta a sinistra.
ROBERTO LONGHI,
Proposte per una critica d’arte, 1950.
Nel discorso di insediamento, pronunciato al Senato della Repubblica il 24 febbraio 2014, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha riservato al patrimonio culturale poche, ma esplicite, parole: «Quando dico che si mangia con la cultura dico che, allora, bisogna anche avere il coraggio di aprirsi agli investimenti privati nella cultura».
Una dirompente novità? No: un doppio salto mortale nel passato. L’inno al salvifico intervento dei privati è il mantra che, unendo destra e sinistra, ha attraversato il discorso pubblico italiano sul patrimonio culturale negli ultimi trent’anni, dall’età di Craxi a quella di Berlusconi. È il 1985 quando Gianni De Michelis annuncia che il futuro del patrimonio starà nell’«istituto della concessione al sistema delle imprese»1. Dieci anni piú tardi è Walter Veltroni, allora ministro per i Beni culturali, a professare la stessa fede: «I beni culturali? Hanno bisogno dell’iniziativa privata, che potrà favorire una gestione attiva del patrimonio»2. Dopo quindici anni, nel 2010, il pulpito tocca a un altro indimenticato ministro del Patrimonio, Sandro Bondi: «Per quanto riguarda le risorse, ribadisco l’idea di un maggior coinvolgimento dei privati nella cultura»3. Nel 2012 gli fa eco il pomposo, quanto inutile, Manifesto per la Cultura, lanciato in grande stile dal «Sole 24 Ore»: «La complementarità pubblico /privato, che implica una forte apertura all’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa e non presentarsi solo in episodi isolati».
Finita troppo velocemente la parentesi anticonformista del ministro Massimo Bray (che dichiarava spesso: «Io sono per lo Stato»), la litania è ricominciata come se nulla fosse con il suo successore Dario Franceschini, che ripete a ogni intervista: «Dobbiamo aprire ai privati»4.
Nessuno, tuttavia, ha raggiunto il mistico ardore di Giovanna Melandri, ministra per i Beni culturali dall’ottobre 1998 al giugno 2001, per la quale «l’apporto del privato, sia in termini di risorse che di capacità manageriale e industriale, è come sempre strategico. I Beni Culturali stanno lanciando una nuova stagione di alleanza con il privato; le risorse dello Stato infatti non saranno mai sufficienti a valorizzare un patrimonio cosí vasto come il nostro»5. E la maturità non ha scalfito la corazza di questa intemerata Giovanna d’Arco del privato: «Dobbiamo smetterla con la spocchia culturale. In Italia serve una santa alleanza fra pubblico e privato», ripeteva nel 2013. E alla giornalista che le chiedeva se questa santa alleanza potesse essere «come quella tra Matteo Renzi e Luca di Montezemolo per l’evento della Ferrari a Ponte Vecchio», l’ex ministra e attuale presidente del piú grande museo pubblico di arte contemporanea (il Maxxi di Roma) rispose sicura: «Perché no? Non ci trovo nulla di scandaloso. Come per Diego Della Valle al Colosseo. Anzi, ho sentito che un big come la Salini vorrebbe offrire risorse per il rilancio di Pompei e sta incontrando difficoltà. Questo mi dispiace molto»6.
Insomma, come ha scritto uno dei piú ferventi accoliti del culto privatistico, «che i privati non sono il mostro divoratore dei nostri Beni culturali, ma il possibile alleato per salvarli, ormai lo sanno anche i bambini»7. Quel che i bambini – e non solo – rischiano di non capire è cosa sia esattamente il Privato ai piedi del quale ci si genuflette come di fronte a un santo taumaturgo. Si invocano mecenati o sponsor? Concessionari o appaltatori? Gestori o finanziatori? Acquirenti o investitori? Fondazioni bancarie o associazioni non profit? O si invoca tutto insieme, appassionatamente e indistintamente?
E ancora: l’avvento del taumaturgico Privato va visto come un esito infausto, ma obbligato (lo lascerebbe intendere il prevalere dell’area semantica del bisogno, della necessità, del coraggio, del dovere…), o è invece da considerare una svolta virtuosa, un trapasso che attua la sussidiarietà di cui parla l’articolo 118 della Costituzione? Se diamo la prima risposta, siamo proprio sicuri che non ci sia alternativa? È proprio vero che lo Stato non può, né potrà, fare piú del quasi niente che fa oggi? E se, invece, diamo la seconda risposta, siamo certi che i privati aiutino (sussidiarietà viene da subsidium, aiuto) lo Stato a realizzare gli obiettivi posti dai principî fondamentali della Costituzione stessa? Non può darsi che essi perseguano, invece, obiettivi del tutto diversi, e magari opposti, a quelli dello Stato?
E quando si parla della «cultura» in cui fare entrare questi miracolosi risanatori, di che cosa parliamo, esattamente? Di produzione culturale o di patrimonio culturale (cioè di paesaggio e patrimonio storico e artistico)? Dei grandi musei e dei siti archeologici, o anche degli archivi e delle biblioteche? Del poco che può produrre reddito, o del moltissimo che non potrà mai farlo? E davvero ha un senso separare la tutela (che anche i piú estremisti sostenitori della liberalizzazione lascerebbero ai compiti dello Stato) dalla valorizzazione (che quasi tutti vogliono privata)? E siamo certi di sapere chi valorizza cosa? Sono davvero i privati a valorizzare il patrimonio? O non è il patrimonio che valorizza i loro bilanci? E affidarsi ai privati significa davvero “aprire” il patrimonio a tutti, contro un presunto elitarismo dei tecnici, o significa invece consegnarlo a pochi, e dunque chiuderlo ancora di piú? E come è possibile che nel 2014 si adoperino ancora gli stessi toni messianici di trent’anni prima? Nel linguaggio della politica italiana il Privato non è solo un taumaturgo, è anche un Messia la cui venuta è sempre rinviata: ma le cose stanno davvero cosí? Hanno davvero ragione tutti questi profeti e apostoli del dio Mercato? Davvero oggi l’urgenza è «aprire ai privati»?
Il libro che state leggendo è stato scritto per tentare di rispondere a queste domande. Forse bisogna essere davvero dei bambini per aver voglia di farlo: ma spetta ai bambini dire che il re è nudo.
Il metro col quale ho cercato di misurare le sedicenti verità sui privati è il metro della Costituzione. Perché l’articolo 9, e i suoi nessi con gli altri principî sui quali è stata fondata la Repubblica, ha spaccato in due la storia dell’arte, rivoluzionando il senso del patrimonio culturale. La Repubblica tutela il patrimonio per promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la ricerca (art. 9): e questo serve al pieno sviluppo della persona umana, e alla realizzazione di una uguaglianza sostanziale (art. 3). Oltre al significato universale del patrimonio, questo sistema di valori ne ha creato uno tipicamente nostro: il patrimonio appartiene a ogni cittadino – di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile. Il patrimonio ci fa nazione non per via di sangue, ma per via di cultura e, per cosí dire, iure soli: cioè attraverso l’appartenenza reciproca tra cittadini e territorio antropizzato. Perché questo altissimo progetto si attui è necessario, però, che il patrimonio culturale rimanga un luogo terzo, cioè un luogo sottratto alle leggi del mercato. Il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi.
Questo non vuol dire che non ci sia spazio per un impegno dei privati: al fianco, e non al posto, dello Stato. Ma da piú di trent’anni il leitmotiv del pensiero unico dominante in Occidente è che la modernizzazione coincide con la progressiva scomparsa dello Stato. Questa politica si basa su una «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra»8. Luciano Gallino ha spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio»9. E non ci sono prospettive di cambiamento: oggi la “sinistra” al governo in Italia dichiara di ispirarsi a Tony Blair, cioè a uno dei massimi nemici ideologici dello Stato. E l’ideologia neoliberista è diventata sempre piú fondamentalista, assomigliando ormai a una religione, e dimenticando i cardini dello stesso pensiero liberale. Per Adam Smith era ovvio che le istituzioni pubbliche dovessero farsi carico delle attività per le quali «il profitto non potrebbe mai rimborsare il costo a un singolo individuo o a un piccolo gruppo di individui»10. E per Karl Popper «se lo Stato non interferisce, possono interferire altre organizzazioni semipolitiche come monopoli, trusts, sindacati»11. Tradotto nei termini che ci riguardano, in Italia ci siamo dimenticati che i privati non potrebbero mai gestire il patrimonio al posto dello Stato; e che il vuoto di potere e progetto pubblico che stiamo determinando viene costantemente riempito da monopoli, il cui interesse non coincide con quello della comunità. Ci siamo dimenticati che «i beni pubblici, se tali vogliamo che rimangano, devono essere forniti a spese del settore pubblico»12: con la conseguenza che «oggi l’incapacità del mercato e degli interessi privati di operare a vantaggio della collettività è sotto gli occhi di tutti»13.
Può sembrare strano che, oggi, ci si preoccupi di questo. Come mi ha scritto un giovane amico: «Di fronte agli stravolgimenti epocali che avvengono sotto i nostri occhi – dalla fine dell’humus terrestre al triste e rapido inquadramento delle vite umane nelle tecnologie digitali – poco importa del patrimonio artistico. E non lo dico per cinismo. Le basi della civiltà stanno venendo compromesse talmente alla radice che la nostra attenzione dovrebbe, a mio avviso, guardare lí. A che serve che lo Stato protegga tante opere d’arte (allo scopo di creare cittadini-umani consapevoli) se altri processi ben piú urgenti e devastanti stanno minando qualsiasi base per la creazione di cittadiniumani consapevoli? È di quelli, prima di tutto, che ci si dovrebbe preoccupare».
Capisco, e rispetto profondamente, questo punto di vista. Posso solo rispondere che la conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare, forse vincere questa epidemia di disumanizzazione. E la conoscenza del patrimonio culturale è una parte di questa conoscenza: ed è la parte per la quale avverto una responsabilità diretta e ineludibile.
Se sottoporremo alla legge del mercato anche questa medicina avremo una speranza di meno. Perché privatizzare anche il patrimonio culturale vuol dire – come mi ha detto un’anziana insegnante durante un incontro pubblico – «fare ammalare la medicina». È davvero quello che vogliamo?
1 In Le mura e gli archi. Valorizzazione del patrimonio storico-artistico e nuovo modello di sviluppo, Atti del convegno di Firenze (6-7 dicembre 1985), a cura del Dipartimento cultura e della sezione Beni culturali del Partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 73.
2 «Corriere della sera», 5 giugno 1996.
3 http://www.airi.it/2010/01/intervista-al-ministro-per-i-beni-e-attivita-culturali-sandro-bondi
4 Intervista ad Aldo Cazzullo, in «Corriere della sera», 22 marzo 2014.
5 http://ifg.uniurb.it/static/lavori-fine-corso-2000/uccello/melandri.htm
6 «Panorama», 20 luglio 2013.
7 P. CONTI, in «Corriere della sera», 5 luglio 2014.
8 L. GALLINO, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, p. 77.
9 Ibid.
10 Citato in T. JUDT, Guasto è il mondo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 147.
11 Ibid., p. 146.
12 Ibid., p. 147.
13 Ibid., p. 148.
Tratto da: Tomaso Montanari, Privati del patrimonio, Einaudi
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