Amico: Da dove sbuchi, Socrate? Lo so che sei andato a caccia della bellezza di Alcibiade! Quando l’ho visto l’altro ieri mi è proprio sembrato un bell’uomo; un uomo, però, Socrate, per dirla tra noi: e il suo mento è già quasi coperto di barba.
Socrate: E che significa questo? Non sei tu forse un ammiratore di Omero, che ha detto che il momento più affascinante della giovinezza è lo spuntare della prima barba? E questa è proprio l’età di Alcibiade.
Amico: Come vanno le cose ora? Vieni da un incontro con lui? Come è disposto verso di te il ragazzo?
Socrate: Bene, mi è sembrato, e soprattutto oggi: infatti ha parlato molto in mio favore ed è venuto in mio aiuto; torno proprio da un incontro con lui. Ti voglio raccontare una cosa davvero straordinaria: Alcibiade era vicino a me e io non gli prestavo affatto attenzione e spesso me ne dimenticavo.
Amico: E quale fatto così importante può essersi messo in mezzo fra te e lui? Certo non puoi aver incontrato un altro più bello, almeno in questa città.
Socrate: Anzi, molto più bello.
Amico: Cosa dici? Un cittadino o uno straniero?
Socrate: Uno straniero.
Amico: Di dove?
Socrate: Di Abdera.
Amico: E questo straniero ti è sembrato così bello da apparirti più affascinante del figlio di Clinia?
Socrate: Ma mio caro amico, come può non apparire più bello chi è più sapiente?
Amico: E così arrivi da noi, Socrate, dopo aver incontrato un sapiente?
Socrate: Sì. Il più sapiente fra i sapienti del nostro tempo, se Protagora ti sembra tale.
Amico: Che dici? Protagora è in questa città?
Socrate: Ormai da tre giorni.
Amico: E arrivi ora, dopo un incontro con lui?
[310] Socrate: Sì, e dopo aver parlato e ascoltato molto.
Amico: Perché allora non ci racconti la conversazione, se niente ti trattiene? Fai alzare questo schiavo e siediti qui!
Socrate: Va bene! Mi farete un favore ascoltandomi.
Amico: E sicuramente anche tu a noi raccontandoci.
Socrate: Il favore sarà così reciproco. Allora ascoltate.
La notte scorsa, alle prime luci dell’alba, Ippocrate, figlio di Apollodoro e fratello di Fasone, bussò a tutta forza alla mia porta con un bastone. Non appena qualcuno gli aprì subito entrò dentro di corsa e parlando a gran voce disse: “Sei sveglio o dormi?”
E io, riconosciuta la sua voce, dissi: “Questo è Ippocrate. Non mi porterai forse qualche brutta notizia!”
“No di certo, anzi te ne porto una bellissima”.
“Allora parla: cosa c’è e perché sei venuto qui a quest’ora?”
Avvicinatosi a me disse: “E’ arrivato Protagora!”
“L’altro ieri. Tu l’hai saputo solo ora?”
“Sì, per gli dei, solo ieri sera”. E trovato nel buio il mio piccolo letto si sedette ai miei piedi e raccontò: “Sono venuto a saperlo proprio ieri sera molto tardi di ritorno da Enoe. Mi era infatti scappato lo schiavo Satiro: voelvo dirti che l’avrei inseguito, ma chissà per quale altro motivo me ne sono dimenticato. Al mio ritorno abbiamo cenato e solo al momento di andare a dormire mio fratello mi ha detto che Protagora era arrivato. Avrei voluto venire subito da te, ma poi mi è sembrato che fosse troppo tardi. Non appena il sonno mi ha tolto via la stanchezza, mi sono alzato in fretta e sono venuto qui così come mi trovavo”.
E io, accortomi della sua impazienza e della sua ansia, chiesi: “Che cosa ti importa? Forse Protagora ti ha fatto qualche torto?”
E lui, ridendo, disse: “Sì, per gli dei, Socrate, perché lui solo è saggio, ma non rende saggio anche me”.
“Ma sì, per Zeus, se gli dai del denaro e lo convinci renderà saggio anche te”.
“Per Zeus e gli dei, bastasse questo! Non risparmierei né i soldi miei né quelli dei miei amici: vengo da te proprio per questo motivo, perché tu gli parli in mio favore. Io infatti sono ancora troppo giovane e non ho mai né visto né ascoltato Protagora: ero ancora un bambino quando venne in città per la prima volta. Comunque, Socrate, tutti lo lodano e dicono che sia il più bravo a parlare. Perché non andiamo subito da lui così da trovarlo ancora in casa? È ospite di Callia, figlio di Ipponico, ho sentito dire. Forza, andiamo”.
[311] “Non ancora, amico, è troppo presto. Alziamoci e andiamo nel cortile e passeggiando lì intorno passeremo il tempo finché non si farà giorno. Solo allora potremo andare. Protagora trascorre infatti molto tempo in casa. Perciò stai tranquillo: lo troveremo certamente lì”.
Ci alzammo dopo aver parlato così e andammo a passeggiare in cortile. Volevo mettere alla prova la motivazione di Ippocrate, perciò cominciai ad esaminarlo e a fargli domande.
“Dimmi, Ippocrate, tu ora ti prepari ad andare da Protagora e a dargli del denaro come compenso per la tua educazione: ma da chi pensi di andare e chi vuoi diventare? Supponiamo, per esempio, che ti venisse in mente di andare dal tuo omonimo Ippocrate di Cos, della famiglia degli Asclepiadi, e di dargli denaro come compenso per la tua educazione. Se qualcuno ti chiedesse: «Dimmi, Ippocrate, chi è questo Ippocrate al quale stai per dare un compenso?», cosa risponderesti?”
“Direi che è un medico”.
“E tu cosa vorresti diventare?”.
“Un medico”.
“Supponiamo invece che tu pensassi di andare da Policleto di Argo o da Fidia di Atene e di dare loro denaro per la tua educazione. Se uno ti domandasse: «Chi sono Policleto e Fidia ai quali vuoi pagare questo denaro?» cosa risponderesti?”
“Direi che sono scultori”.
“E tu cosa vorresti diventare?”
“Evidentemente uno scultore”.
“Molto bene. Tu ed io andremo da Protagora, pronti a dargli una ricompensa in denaro per la tua educazione: se basteranno le nostre ricchezze lo convinceremo con queste, altrimenti spenderemo anche quelle dei nostri amici. Se qualcuno, vedendo che ci diamo tanto da fare, ci domandasse: «Ditemi, Socrate e Ippocrate, chi è Protagora al quale volete dare i vostri soldi?» cosa gli potremmo rispondere? Con quale altro nome sentiamo chiamare Protagora? Sentiamo, per esempio chiamare Fidia scultore e Omero poeta, ma che nome sentiamo dare a Protagora?”
“Socrate, lo chiamano sofista”.
“Andiamo dunque a dargli denaro in quanto sofista?”
“Sì”.
[312] “Se poi ti si domandasse: «Tu stesso vai da Protagora per diventare chi?»”
E quello, arrossendo – infatti si stava già facendo giorno, perciò lo si poteva vedere chiaramente -, disse: “Se c’è qualche somiglianza con gli esempi precedenti, è chiaro che vado da lui per diventare sofista”.
“E tu, per gli dei, non ti vergogni di presentarti ai Greci come un sofista?”
“Sì, per Zeus, Socrate, se devo dire quello che penso”.
“Forse, Ippocrate, tu credi che l’insegnamento che riceverai da Protagora non sarà di questo tipo, ma come quello che si riceve dai maestri di grammatica, di musica e di ginnastica. Infatti non hai appreso queste discipline per esercitare un mestiere, per diventare cioè un professionista, ma per la tua educazione, come si addice a un libero e privato cittadino”.
“Mi sembra che sia piuttosto questo il tipo di insegnamento di Protagora”.
“Sai quello che stai per fare ora o ti sfugge?”
“Riguardo a che cosa?”
“Riguardo al fatto che stai per affidare la tua anima a un uomo che, come affermi, è un sofista. Mi stupirei, poi, se tu sapessi cosa sia mai un sofista. Se lo ignori non sai neanche a chi affidi la tua anima e neanche se questo è un bene o un male”.
“Credo di saperlo”.
“Dimmi, chi pensi che sia un sofista?”
“Io credo che sia un esperto del sapere, come dice il nome”.
“Che siano esperti del sapere si può dire anche dei pittori e degli architetti. Se qualcuno però ci chiedesse: «Di quale sapere sono esperti i pittori?» potremmo dirgli che sono esperti della rappresentazione delle immagini, e così di seguito. E se qualcuno chiedesse: »Di quale sapere è esperto il sofista?», cosa gli potremmo rispondere, di cosa si occupa?”
“Cos’altro potremmo dire, Socrate, se non che si occupa di rendere abili nel parlare?”.
“Forse diremmo la verità, ma sicuramente non sarebbe sufficiente. La risposta richiederebbe infatti un’altra domanda: su quale argomento il sofista rende abili nel parlare? Il maestro di cetra, per esempio, rende abili nel parlare su quello che sa, cioè l’arte di suonare la cetra. Non è vero?”
“Sì”.
“Bene. Su quale argomento il sofista rende abili nel parlare? Evidentemente su ciò che sa”.
“E’ naturale”.
“Di cosa è esperto il sofista e di cosa può rendere esperto anche l’allievo?”
“Per Zeus, non sono capace di risponderti”.
[313] “Allora? Capisci a quale pericolo stai per esporre la tua anima? Se tu fossi costretto ad affidare a qualcuno il tuo corpo, rischiando che questo possa diventare forte o debole, rifletteresti a lungo se farlo o meno, chiederesti consiglio ad amici e familiari, penseresti per molti giorni. Al contrario, per quanto riguarda la parte che consideri più importante del corpo, l’anima, e dalla cui condizione dipende la felicità o l’infelicità della tua vita, non hai chiesto il consiglio né di tuo padre né di tuo fratello né di nessuno di noi, tuoi amici, sulla necessità di consegnare o meno la tua anima a questo straniero venuto fino a qui: ne senti parlare la sera, come tu stesso dici, e sul far dell’alba ti presenti, senza parlarne prima e senza chiedere se convenga o meno affidarti a lui. Sei pronto a spendere il tuo denaro e quello dei tuoi amici, come se ormai avessi deciso che è strettamente necessario per te frequentare Protagora, che neanche conosci – come tu stesso affermi – e con il quale non hai mai parlato. Per di più lo chiami sofista, ma è chiaro che ignori chi sia un sofista, al quale pure stai per affidarti”.
Sentite queste parole, disse: “Pare proprio così, Socrate, in base a quello che dici”.
“Il sofista, Ippocrate, non sembra forse una specie di negoziante o venditore delle merci di cui si nutre l’anima? Credo che sia qualcosa di simile”.
“Ma, Socrate, di cosa si nutre l’anima?”
“Di conoscenze, certamente. Fai però attenzione, mio caro, che il sofista, lodando quello che vende, non ci truffi, proprio come coloro che vendono gli alimenti per il corpo, cioè il negoziante e il commerciante. Questi infatti delle merci che portano non sanno quale sia utile e quale dannosa per il corpo, ma per venderle le lodano tutte. Non lo sanno neanche quelli che comprano da loro, a meno che non capiti un maestro di ginnastica o un medico. Allo stesso modo anche coloro che portano le conoscenze in giro per le città e le vendono a chi di volta in volta le richiede, lodano tutto quello che vendono, ma forse qualcuno, mio caro, ignora cosa sia utile e cosa dannoso per l’anima tra le cose che vendono. Lo stesso succede anche a quelli che comprano da loro, a meno che non capiti un medico dell’anima. Ora, se riesci a sapere quali tra questi insegnamenti risulti utile o dannoso, potrai tranquillamente comprarli da Protagora o da chiunque altro. Al contrario, caro amico, stai attento a non mettere a rischio e a giocare a dadi quanto vi è di più caro.
[314] Si rischia molto di più nell’acquistare gli insegnamenti che non i cibi. I cibi, infatti, e le bevande, una volta acquistati dal venditore o dal commerciante, si possono portare via in altri recipienti. Prima di berli o mangiarli si può, dopo averli riposti in casa, chiedere consiglio, domandare a un esperto se va bene mangiarli o meno, in quale quantità e quando. In questo modo non si rischia molto nell’acquisto. Al contrario, non è possibile portar via le conoscenze in un altro recipiente, ma, dopo aver pagato il prezzo pattuito, acquisito e ricevuto l’insegnamento nell’animo bisogna andar via o con un danno o con un beneficio. Esaminiamo dunque queste affermazioni anche con coloro che sono più vecchi di noi. Noi, infatti, siamo ancora troppo giovani per risolvere una questione così importante. Ora, come era nostra intenzione, andiamo e ascoltiamo Protagora e, dopo averlo ascoltato, discuteremo anche con gli altri. Lì infatti non c’è solo Protagora, ma ci sono anche Ippia di Elide – credo che ci sia anche Prodico di Ceo – e molti altri sapienti”.
Presa questa decisione ci incamminammo. Giunti nel protiro ci fermammo e concludemmo un discorso che avevamo cominciato per strada. Non volevamo lasciarlo incompiuto, ma entrare dopo averlo finito: ci fermammo nel protiro e parlammo finché non ci convincemmo l’un l’altro. Avevo l’impressione che il portiere, un eunuco, ci stesse ascoltando e sembrava che si fosse irritato con i visitatori per la folla dei sofisti. Bussammo alla porta: ci aprì, ci vide e disse: “Ecco altri sofisti! Il padrone non ha tempo!”. E chiuse con tutte e due le mani la porta con tutta la forza che poteva. E noi bussammo di nuovo. Quelloi, a porta chiusa, ci rispose dicendo: “Ma insomma, non avete sentito che è occupato?”
“Amico, non veniamo per Callia e non siamo sofisti. Forza, apri! Siamo venuti per vedere Protagora. Digli che siamo qui!” Alla fine a malincuore ci aprì la porta.
[315] Entrati, incontrammo Protagora che passeggiava nel primo portico. Di seguito a lui passeggiavano da un parte Callia, figlio di Ipponico, e suo fratello da parte di madre Paralo, figlio di Pericle, e Carmide, figlio di Glaucone; dall’altra parte l’altro figlio di Pericle Santippo, Filippide, figlio di Filomelo, e Antimero di Mende, che era il migliore tra i discepoli di Protagora e ne apprendeva l’arte per diventare sofista. Altri seguivano il gruppo ascoltando la conversazione: ed erano per lo più stranieri, che Protagora si portava dietro da ciascuna delle città che visitava. Li incantava con la voce come Orfeo e quelli lo seguivano ammaliati dalla sua voce. C’erano alcuni Ateniesi. Io stesso alla vista di questa schiera provai piacere, notando con quale grazia facevano in modo di non intralciare il cammino di Protagora. Ogni volta che lui e i suoi discepoli si giravano, quelli che lo seguivano si disponevano ordinatamente da una parte e dall’altra: dopo aver fatto un giro, gli rimanevano sempre dietro in un modo molto coreografico.
Dietro di lui riconobbi, come disse Omero, Ippia di Elide, seduto nella parte opposta del primo portico. Accanto a lui su degli sgabelli sedevano Erissimaco, figlio di Acumeno, Fedro di Mirrina, Androne, figlio di Androzione, e tra gli stranieri alcuni dei suoi concittadini e altri. Mi sembrò che stessero interrogando Ippia su questioni astronomiche relative alla natura e alla meteorologia, e quello, seduto sul suo seggio, dava giudizi e passava in rassegna le domande. Riconobbi anche Tantalo – infatti c’era anche Prodico di Ceo e stava in una stanza, che prima Ipponico usava come dispensa. Ora Callia, costretto dal gran numero degli ospiti, l’aveva liberata per riceverli. Prodico era ancora a letto, avvolto in pelli e coperte in abbondanza, come si vedeva. Nei letti accanto a lui sedevano Pausania del demo di Cerameo, e con Pausania un adolescente ancora bambino e, come credo, di famiglia nobile, certamente molto bello d’aspetto. Mi sembrò di aver sentito che il suo nome fosse Agatone e non mi meraviglierei se fosse stato l’amato di Pausania. C’erano questo ragazzo e tutti e due gli Adimanti, il figlio di Cepide e il figlio di Leucofilide, e anche alcuni altri. Da fuori non potevo capire di cosa discutessero, sebbene desiderassi molto ascoltare Prodico, che mi sembra un uomo onnisciente e divino. Un rimbombo prodotto nella stanza dalla profondità della voce non rendeva però comprensibili le parole.
[316] Eravamo appena entrati e dietro di noi arrivarono Alcibiade il bello – come tu lo chiami e io sono d’accordo – e Crizia, il figlio di Callescro. Quando noi entrammo, avendo indugiato un poco e osservate queste cose, ci avvicinammo a Protagora e io dissi: “Protagora, io e questo Ippocrate che vedi siamo venuti da te”.
“Volete parlare con me solo o anche con gli altri?”
“Per noi non c’è nessuna differenza: stabiliscilo tu stesso dopo aver ascoltato il motivo per cui siamo venuti”.
“Qual è dunque questo motivo?”
“Ippocrate è uno della città, figlio di Apollodoro, di famiglia illustre e ricca: per le sue capacità mi sembra che sia in grado di gareggiare con i coetanei. Credo che abbia voglia di diventare un cittadino importante e pensa che ciò sarà possibile se ti frequenterà. Dunque considera tu, se ritieni che sia necessario discutere di queste cose da solo a solo o davanti agli altri”.
“Socrate, ti preoccupi giustamente per me. Uno straniero che va, infatti, in grandi città e in queste convince a frequentarlo i giovani più illustri, che, per diventare migliori grazie al suo insegnamento, tralasciano le compagnie degli altri, familiari ed estranei, anziani e giovani, è necessario che stia attento a questo comportamento. Ne nascono, infatti, non piccole invidie e altre ostilità e insidie. Io sostengo che l’arte sofistica sia antica, ma che quelli che l’hanno praticata tra gli uomini antichi, temendo l’invidia che ne può derivare, la travestirono e la mascherarono alcuni con la poesia, come Omero, Esiodo e Simonide, altri con iniziazioni e profezie, come i seguaci di Orfeo e di Museo. Mi sono accorto che alcuni altri la mascherano anche con la ginnastica, come Icco di Taranto e il sofista Erodico di Silimbria, in origine megarese, ancora vivente e in nulla inferiore a nessuno. Con la musica la mascherarono il vostro Agatocle, un grande sofista, e Pitoclide di Ceo e molti altri. Tutti questi, come dico, temendo l’invidia usarono come veli queste arti. [317] Io, su questo punto, non sono d’accordo con loro: ritengo che non abbiano ottenuto ciò che volevano. Non possono ingannare gli uomini potenti della città, per i quali hanno inventato questi travestimenti – i più, infatti, non si accorgono di nulla, per dirla in breve, ma accolgono con entusiasmo quanto questi dicono -. Invece non riuscire a fuggire una volta scoperti, pur avendoci provato, è una grande stoltezza e impresa folle che non può che rendere gli uomini più ostili. Si finisce infatti oltretutto per passare per delinquenti. Io dunque ho scelto la strada contraria: dichiaro di essere sofista e di educare gli uomini. Credo che questo atteggiamento sia migliore di quello, confessare piuttosto che negare. Ne ho escogitati altri oltre a questo così da non patire nessun danno per la mia dichiarazione, con l’aiuto degli dei. Già da tempo esercito quest’arte. Io infatti ho molti anni – non c’è nessuno tra di voi dei quali non potrei essere padre per età – così mi sarà molto gradito se vorrete fare discorsi davanti ai presenti”.
Sospettai che volesse mettersi in mostra davanti a Prodico e a Ippia e vantarsi del fatto che noi, suoi ammiratori, eravamo venuti da lui. “Perché non invitiamo anche Prodico e Ippia e quelli che si trovano con loro per ascoltarci?”
“Sì”
“Volete dunque – disse Callia – che sistemiamo la stanza per poter discutere seduti?”
Sembrava necessario. Eravamo felici perché stavamo per ascoltare tutti quegli uomini sapienti e, essendoci presi da noi sedie e sgabelli, ci sedemmo vicino a Ippia – infatti lì c’erano degli sgabelli. In quel momento arrivarono Callia e Alcibiade con Prodico, che avevano fatto alzare dal letto, e quelli che si trovavano con Prodico. Dopo che tutti ci sedemmo, Protagora disse: “Socrate, ora puoi dire, dal momento che questi sono presenti, il motivo per cui poco fa mi hai parlato in favore di questo ragazzo”.
[318] E io: “Dico le stesse cose di prima, Protagora, sul motivo della nostra visita. Ippocrate desidera frequentarti, e vorrebbe sapere quale vantaggio gliene può derivare. Questo è il nostro discorso”.
Presa la parola, Protagora disse: “Ragazzo, se mi frequenterai, dal giorno in cui verrai da me, potrai tornare a casa migliore e ugualmente il giorno successivo e di giorno in giorno progredirai sempre”.
E io, avendo ascoltato, dissi: “Protagora, non è affatto straordinario quello che dici, ma è naturale: anche tu, pur essendo di questa età e così saggio, se qualcuno tu spiegasse quello che per caso non sai, diventeresti migliore. Ma la questione è un’altra. Supponiamo che Ippocrate, cambiata improvvisamente intenzione, desiderasse frequentare questo giovane arrivato da poco in città, Zeusippo di Eraclea. Giunto da lui, come ora da te, ascolterebbe da lui le stesse identiche cose che ha ascoltato da te, cioè che di giorno in giorno, frequentandolo, diventerà migliore e progredirà. Se domandasse a Zeusippo: «In che cosa dici che diventerò migliore e in che cosa progredirò?», egli potrebbe rispondere: «Nella pittura». Supponiamo che ugualmente vada da Ortagora di Tebe e che ascolti da lui le stesse cose che ha ascoltato da te. Se domandasse in che cosa ogni giorno diventerà migliore frequentandolo, direbbe: «Nell’arte di suonare il flauto». Così anche tu rispondi al ragazzo e a me che ti domando a suo nome: Ippocrate, frequentandoti, dal giorno in cui inizierà a venire da te, in che cosa e rispetto a cosa diventerà migliore e così progredirà, Protagora, nei giorni successivi?”
E Protagora, sentite queste parole, disse: “Tu hai fatto una bella domanda, Socrate, e io mi rallegro nel rispondere a chi mi pone bene le domande. Se Ippocrate verrà da me non gli capiteranno quelle cose che gli accadrebbero frequentando un altro dei sofisti. Infatti gli altri rovinano i giovani: questi a parole evitano le tecniche, ma poi inevitabilmente tornano ad utilizzarle, insegnando l’astronomia, la geometria e la musica”. E dicendo questo lanciò uno sguardo a Ippia. “Giunto da me non imparerà nient’altro che quello per cui è venuto. Il mio insegnamento consiste nella facoltà di prendere decisioni sia riguardo alle questioni private – come, per esempio, si possa amministrare nel modo migliore la propria casa – sia riguardo a quelle pubbliche, come essere, cioè, il più idoneo a parlare e a gestire gli affari della città”.
[319] “Ho capito bene? Mi sembra infatti che tu stia parlando dell’arte politica e prometta di formare buoni cittadini”.
“Proprio questo, Socrate, è il mestiere che esercito”.
“Possiedi veramente una bella arte, se la possiedi davvero. Io poi non ti dirò nient’altro se non quello che penso. Non pensavo, Protagora, che quest’arte si potesse insegnare: ma come non crederti dal momento che tu lo affermi? È giusto che io dica il motivo per cui ritengo che non sia insegnabile né acquisibile dagli uomini. Dico, infatti, che gli Ateniesi sono saggi, come gli altri Greci. Noto che, in assemblea, quando la città deve deliberare sulla costruzione di un edificio, vengono chiamati gli architetti come consiglieri; quando invece bisogna deliberare sulla costruzione di navi, vengono chiamati i costruttori di navi e nello stesso modo si procede per tutte le altre cose che si ritiene possano essere insegnate e apprese. Se poi prova a dare consigli a qualcun altro, che gli ateniesi non ritengono un esperto, anche se è bello, ricco e nobile, non gli prestano affatto maggiore ascolto, ma lo deridono e lo contestano. Alla fine quello che cercava di parlare, sommerso dai fischi, si allontana da solo oppure le guardie pubbliche lo trascinano via o lo sollevano di peso per ordine dei pritani. Riguardo alle tecniche così si comportano. Quando si deve deliberare sull’amministrazione della città, invece, esprimono il loro parere, alzandosi in piedi, allo stesso modo il falegname, il fabbro e il calzolaio, il mercante e l’armatore, il ricco e il povero, il nobile e il plebeo. Nessuno li critica, come i precedenti, di tentare di dare consigli non avendolo imparato da nessuno né avendo mai avuto un maestro: è chiaro che non ritengono che la tecnica politica sia insegnabile. Non è così solo nell’amministrazione della città, ma anche nella vita privata, poiché i sofisti e i migliori cittadini non sono capaci di trasmettere agli altri le virtù che possiedono. [320] Pericle, ad esempio, il padre di questi ragazzi, li ha fatti educare alla perfezione nelle discipline che richiedono maestri, mentre per quelle in cui lui stesso è sapiente né provvede di persona né li affida a un altro: i suoi figli vagano soli e pascolano come animali selvatici, sperando di incontrare per caso la virtù. Eccoti poi un altro esempio: ancora Pericle, tutore di Clinia – il fratello minore di Alcibiade qui presente – temeva che questi fosse corrotto da lui. Separò i due fratelli e sistemò Clinia in casa di Arifrone, per farlo educare. Prima che fossero passati sei mesi, Arifrone riconsegnò Clinia a Pericle, non riuscendo a ricavarne nulla di buono. Potrei elencarti molte altre persone, che, pur essendo sapienti, non fecero progredire nessuno, familiare o estraneo. Considerando questi esempi, Protagora, non credo che la virtù sia insegnabile. Tuttavia sento che tu affermi il contrario: sono disposto a piegarmi e a riconoscere che tu dica la verità, poiché mi sembri esperto di molte cose – molte le hai imparate, altre le hai scoperte da solo -. Se dunque puoi dimostrarci in modo più chiaro che la virtù è insegnabile, non rifiutarti, dimostracelo”.
“Socrate, non mi rifiuterò; preferite però che ve lo dimostri raccontando un mito, come gli anziani ai più giovani, o con un ragionamento?”
Molti dei presenti risposero che scegliesse lui. “Mi sembra più piacevole – disse – raccontarvi un mito”.
“Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito – disse – tu controllerai”. Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.
Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia».
[323] Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici – naturalmente, dico io – se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate.
Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos’altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza – dire la verità – in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano.
Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato.
[324] Fra questi vizi ci sono l’ingiustizia, l’empietà e in generale tutto ciò che è contrario alla virtù politica; di fronte a ciò ognuno biasima e ammonisce, evidentemente perché pensa che la virtù politica si acquisisca attraverso lo studio e l’apprendimento. Se infatti, Socrate, vuoi capire quale valore abbia punire coloro che commettono ingiustizie, i fatti stessi ti dimostreranno che gli uomini credono che la virtù si possa acquisire. Nessuno punisce coloro che commettono ingiustizie per il semplice fatto che sono stati ingiusti, a meno che non voglia vendicarsi in modo irrazionale, come una bestia; chi, invece, vuole punire secondo ragione, non vendica l’ingiustizia commessa – dal momento che non può annullare ciò che è stato – ma punisce in vista del futuro, affinché non venga commessa ingiustizia di nuovo, né da quello né da un altro che lo veda punito. Ha un tale proposito perché è convinto che la virtù sia insegnabile; dunque punisce per distogliere dal vizio. Senza dubbio la pensano così tutti coloro che puniscono, sia in privato che in pubblico. Gli altri uomini e non meno gli ateniesi, tuoi concittadini, puniscono e castigano coloro che ritengono colpevoli; così, in base a questo ragionamento, anche gli ateniesi sono tra coloro che ritengono che la virtù sia acquisibile e insegnabile. In conclusione, Socrate, adeguatamente ti è stato dimostrato, come mi sembra, che i tuoi concittadini giustamente accettano che un fabbro o un calzolaio partecipi alle decisioni politiche e che inoltre pensano che la virtù sia insegnabile e acquisibile.
Ancora resta da risolvere la questione che ponevi riguardo agli uomini virtuosi: perché mai questi curino l’educazione dei figli in tutte le discipline che sono di competenza dei maestri e li rendano sapienti, mentre non li rendono affatto migliori nella virtù in cui essi stessi eccellono. Su questo argomento, Socrate, non ti racconterò un mito, ma esporrò un ragionamento. Rifletti: esiste o non esiste qualcosa di unico, di cui è necessario che tutti i cittadini siano partecipi, se la città deve esistere? In questo si dissolve il dubbio che tu ponevi e non in un altro ragionamento.
[325] Se infatti esiste questo qualcosa di unico, e non è né l’architettura né l’arte del fabbro né l’arte della ceramica, ma è la giustizia, la sapienza e la santità (insomma quell’unica cosa che io chiamo virtù dell’uomo); se questo è ciò di cui è necessario che tutti partecipino e se ognuno deve agire in conformità con questa virtù, se vuole imparare o fare qualsiasi cosa, e non può fare nulla senza questa; se è necessario istruire e punire chi non ne sia partecipe, bambino, uomo, donna, finché, punito, non divenga migliore, e se invece è necessario scacciare dalla città o uccidere come inguaribile chi, educato e punito, non obbedisca; se le cose stanno così, se questa è la natura di questa virtù, considera che strano comportamento hanno gli uomini virtuosi, che insegnano ai figli altre cose, ma questa no. Abbiamo dimostrato che gli uomini pensano che la virtù è insegnabile, in pubblico e in privato; tuttavia, pur essendo tale virtù insegnabile e potendo essere coltivata, sembra che tutti insegnino ai figli altre cose, la cui ignoranza non procura loro la pena di morte. Non insegnano invece e non dedicano ogni cura alla virtù, l’ignoranza della quale procura ai loro figli – se non l’hanno appresa e non sono stati indirizzati ad essa – pena di morte, esilio e, oltre alla morte, la perdita dei beni e insomma, per dirla tutta, la rovina delle famiglie. Sembra che sia proprio così, Socrate. Ma sin dall’infanzia, e poi per tutta la vita, i genitori si occupano del’educazione dei loro figli. Non appena un bambino inizia a comprendere quanto gli viene detto, la nutrice, la madre, il pedagogo e il padre stesso si preoccupano che diventi migliore giorno dopo giorno: gli insegnano e gli mostrano, per ogni cosa che egli faccia o dica, che questo è giusto, quello ingiusto, questo è bello, quello brutto, questo è sacro, quello empio, questo si può fare, quello no. Se ubbidisce volentieri, bene; se no, lo raddrizzano con minacce e percosse, come un legno storto e curvo. In seguito, mandando i figli a scuola, i genitori suggeriscono ai maestri di prendersi cura della loro buona educazione più che dell’apprendimento della grammatica e della cetra.
[326] I maestri si occupano di loro: non appena i ragazzi hanno imparato l’alfabeto e cominciano a comprendere le parole scritte, come prima comprendevano la lingua parlata, danno loro da leggere, sui banchi, le composizioni poetiche dei grandi autori e li costringono a impararle a memoria. In quelle composizioni ci sono molti insegnamenti, molte descrizioni, lodi ed encomi di antichi uomini valorosi: il ragazzo, ammirandoli, li imiterà e desidererà diventare come loro. I maestri di cetra, in modo analogo per ciò che loro compete, si prendono cura anche del buon equilibrio dei giovani e si preoccupano che stiano sulla retta via. E poi, quando i ragazzi hanno imparato a suonare la cetra, insegnano loro le poesie di altri bravi poeti melici, intonandole sulla cetra, e piegano i ritmi e le armonie perché diventino familiari alle anime dei ragazzi. In questo modo saranno più miti e, divenuti più armoniosi ed equilibrati, saranno anche abili nel parlare e nell’agire. Infatti tutta la vita dell’uomo ha bisogno di ritmo e armonia. E ancora, inoltre, li mandano dal maestro di ginnastica, affinché, con corpi più vigorosi, agiscano in nome di sani principi e non si dimostrino vili perchè deboli nel corpo, in guerra come nelle altre circostanze. Vengono educati così quelli che se lo possono permettere – in particolar modo i più ricchi – e i figli di questi, che cominciano in giovanissima età a frequentare i maestri e se ne allontanano molto tardi. Quando hanno lasciato i maestri, la città a sua volta li costringe a imparare le leggi e a vivere secondo il loro modello, affinché non agiscano a caso nella vita sociale. I maestri di grammatica, dopo aver abbozzato le lettere con lo stilo, danno la tavoletta ai ragazzi che non sono ancora in grado di scrivere e li costringono a seguire il tracciato delle linee. Allo stesso modo la città, dopo aver tracciato le linee guida delle leggi, creazioni di capaci e antichi legislatori, obbliga poi a governare e ad essere sudditi in base a queste e punisce chi vada al di fuori del tracciato. E il nome di questa punizione, presso di voi e altrove in molti luoghi, è «raddrizzare», poiché la pena «raddrizza». Dunque, Socrate, dal momento che c’è questa attenzione per la virtù, sia in pubblico che in privato, ti meravigli e dubiti che la virtù sia insegnabile? Non devi meravigliarti; piuttosto dovresti farlo se non fosse insegnabile.
Perché allora da padri virtuosi nascono figli mediocri? [327] Impara anche questo: non c’è da stupirsi, se io prima dicevo la verità, quando affermavo che, se deve esistere la città, è necessario che tutti siano partecipi della virtù. Se infatti le cose stanno così – e senza dubbio è così – scegli una qualsiasi altra professione o disciplina e rifletti. Poniamo il caso che la città non possa esistere se tutti non fossimo suonatori di flauto, ciascuno secondo le sue possibilità, e che ognuno insegnasse quest’arte a tutti, in pubblico e in privato, punendo chi non suona bene, e non tirandosi indietro. Considera anche come ora nessuno si rifiuti di insegnare la giustizia, né tenga segreto il suo sapere, come invece accade per le altre arti (è utile a tutti, credo, il reciproco scambio di giustizia e virtù, perciò tutti parlano volentieri con tutti e insegnano cosa è giusto e legittimo). Se dunque anche nell’arte di suonare il flauto noi con entusiasmo e generosità ci istruissimo vicendevolmente, credi forse, Socrate, che i figli dei buoni suonatori sarebbero buoni musicisti, più dei figli dei suonatori mediocri? Credo di no: chi nascesse per caso naturalmente disposto alla musica, crescerebbe illustre, di chiunque fosse figlio; invece, da chiunque nascesse uno privo di attitudini, crescerebbe privo di fama. Da un buon auleta potrebbe nascere un cattivo musicista e da un mediocre musicista potrebbe nascere un buon auleta, ma tutti sarebbero auleti sufficientemente esperti rispetto ai profani e a coloro che non hanno alcuna esperienza dell’arte di suonare il flauto. Così, anche ora, considera che chiunque a te sembri il più ingiusto tra quelli allevati fra le leggi e fra gli uomini, è in realtà giusto e anzi maestro di quest’arte, se dobbiamo giudicarlo rispetto a uomini che non hanno alcuna educazione né tribunali né leggi né alcuna necessità che li costringa continuamente ad aver cura della virtù, come i selvaggi che il poeta Ferecrate ha messo in scena l’anno scorso alle Lenee. Se ti trovassi realmente fra questi uomini, come i misantropi in quel coro, saresti contento incontrando Euribato e Frinonda, e ti lamenteresti, rimpiangendo la malvagità degli uomini di qui.
[328] Ora, Socrate, ti arrabbi, poiché tutti sono maestri di virtù, ciascuno in base alle sue capacità, e nessuno ti sembra tale. Ma se tu cercassi il nostro maestro di greco, non potresti trovarlo; allo stesso modo, se tu cercassi chi abbia insegnato ai figli degli artigiani il mestiere che hanno imparato dal padre, per quanto erano capaci il padre e gli artigiani suoi colleghi, e anche se cercassi chi abbia istruito questi ultimi, io credo, Socrate, che difficilmente troveresti il loro maestro. Facilmente invece potresti trovare il maestro di chi non è esperto in nulla, né nella virtù né in tutte le altre discipline. Quindi, se c’è qualcuno fra noi che si distingue un po’ nel rendere migliori gli altri, bisogna accontentarsi. Io credo di essere uno di questi, e meglio degli altri uomini penso di riuscire ad aiutare a diventare bravi e virtuosi, in maniera adeguata al pagamento che percepisco e anche maggiore (gli allievi pure la pensano così). Perciò ho adottato questo metodo di riscossione dell’onorario: dopo che qualcuno è venuto da me, se vuole, mi versa il denaro che ho richiesto; in caso contrario, va in un tempio, e, dopo aver giurato quanto pensa che valgano i miei insegnamenti, deposita la cifra.
Socrate, ti ho esposto il mito e il ragionamento per mostrare come la virtù sia insegnabile e come gli Ateniesi la considerino tale, e come non ci sia da meravigliarsi che da padri virtuosi nascano figli mediocri e da padri mediocri figli virtuosi. Infatti anche i figli di Policleto, coetanei di Paralo e di Santippo che sono qui, non valgono quanto il padre e anche i figli di altri artisti. Non è giusto biasimare ora i figli di Pericle, qui presenti: sono ancora giovani”.
Protagora, dopo aver parlato a lungo così, tacque. E io per molto tempo, ammaliato, continuai a guardarlo, come se stesse per dire qualcosa, poiché desideravo ascoltarlo. Quando mi accorsi che in realtà aveva finito, come riavutomi a stento, dissi, rivolto a Ippocrate: “Figlio di Apollodoro, grazie per avermi spinto a venire qui. E’ una gran cosa aver ascoltato le parole di Protagora. In passato, infatti, pensavo che nessuna attività umana potesse rendere gli uomini virtuosi; ora sono convinto del contrario. Però ho un ultimo piccolo dubbio, che evidentemente Protagora chiarirà con facilità, come ha già fatto molte volte. [329] Se qualcuno, infatti, discutesse di questi argomenti con un qualsiasi oratore da piazza, forse ascolterebbe discorsi simili da Pericle o da qualcun altro oratore; se poi, però, chiedesse spiegazioni su qualche punto del discorso, come accade con i libri essi non saprebbero né rispondere né a loro volta porre domande. Se qualcuno chiede un chiarimento, anche piccolo, sui discorsi pronunciati da loro, i retori, anche se la questione è di poco conto, fanno discorsi interminabili, proprio come bronzi percossi che risuonano a lungo e vibrano finché vengono toccati. Protagora invece è capace di pronunciare lunghi e bei discorsi, come dimostrano i fatti stessi, ed è capace anche, se gli viene chiesto qualcosa, di rispondere brevemente. Sa pure porre domande e, qualità assai rara, attendere e ascoltare la risposta. Ora però, Protagora, mi manca solo un piccolo particolare per avere il quadro completo, se rispondi a questo. Tu affermi che la virtù è insegnabile, e io credo a te più che a chiunque altro; mentre parlavi, però, mi sono meravigliato di una cosa: chiarisci questo dubbio nella mia anima. Hai detto infatti che Zeus ha inviato agli uomini la giustizia e il rispetto, e poi più volte nel tuo discorso hai ribadito che la giustizia, la saggezza, la santità erano nel complesso una cosa sola, la virtù. Spiegami allora precisamente con un ragionamento se la virtù è una sola (e la giustizia, la saggezza e la santità sono parti di questa), o se tutte queste cose che ho elencato sono solo nomi diversi di un’unica essenza, la virtù. Questo è l’ultimo tassello”.
“Socrate, è facile risponderti: la virtù è una sola, quelle di cui chiedi sono parti”.
“Sono parti come quelle del volto, bocca, naso, occhi e orecchie, o come le parti dell’oro, che non differiscono in nulla l’una dall’altra, né reciprocamente, né rispetto al tutto, ma si differenziano solo in base alla misura?”.
“Come le parti del volto stanno rispetto all’intero volto, Socrate”.
“Gli uomini, allora, sono partecipi solo di queste parti della virtù, chi di una chi di un’altra, oppure, se qualcuno ne acquisisce una, deve necessariamente possederle tutte?”
“Nient’affatto. Molti uomini sono coraggiosi, ma ingiusti, e molti a loro volta giusti, ma non sapienti”.
[330] “Dunque anche sapienza e coraggio sono parti della virtù?”
“Senza dubbio; e la sapienza è la più importante fra le parti”.
“E ciascuna di esse è distinta dall’altra?”
“Sì”.
“E ognuna ha anche una sua particolare proprietà? Nelle parti del volto, l’occhio non è come l’orecchio, né è uguale la loro funzione; nessuna parte è uguale all’altra, né per la sua proprietà, né per il resto. Allo stesso modo anche le parti della virtù sono diverse l’una dall’altra, in sé e rispetto alla loro proprietà? È evidente che è così, se il paragone è appropriato”.
“È così, Socrate”.
“Di conseguenza non vi è nessun’altra parte della virtù che sia simile alla scienza, alla giustizia, al coraggio, alla saggezza, alla santità”.
“No”.
“Bene. Ora esaminiamo insieme le caratteristiche di ciascuna di queste parti. Prima di tutto: la giustizia è un fatto concreto o non esiste? A me sembra che esista. A te?”
“Anche a me”.
“E che risponderemmo allora, se qualcuno chiedesse a me e a te: «Protagora e Socrate, ditemi, la giustizia, che avete nominato ora, in sé è giusta o ingiusta?» Io gli risponderei che è giusta; tu che risposta daresti? La mia o un’altra?”.
“La stessa”.
“La giustizia è giusta, direi io a chi me lo chiedesse; e tu?”
“Anch’io”.
“Se poi ci chiedesse: «Dite allora che esiste anche la santità?», diremmo di sì, credo”.
“Sì”.
“«Dunque dite che anche la santità esiste». Diremmo sì, o no?”
“Diremmo sì”.
“«La santità è per natura empia o santa?». Io mi arrabbierei per la domanda, e direi: «Non parlare a vanvera, mio caro; difficilmente potrebbe esistere qualcos’altro di santo, se non è santa la stessa santità». Che cosa diresti tu? Non risponderesti allo stesso modo?”.
“Certo”.
“Se, continuando a fare domande, ci chiedesse: «Come dicevate poco fa? Forse non vi ho capito bene? Affermavate, mi sembra, che le parti della virtù sono tutte diverse l’una dall’altra», io direi: «Per il resto hai capito bene, ma hai frainteso se credi che io abbia affermato questo; Protagora infatti ha risposto così. Io gli facevo domande». [331] Se poi chiedesse: «Dice la verità, Protagora? Affermi davvero che nessuna parte della virtù è simile all’altra? Questo è il tuo pensiero?». Cosa gli risponderesti?”
“Dovrei dire di sì, Socrate, per forza!”
“Allora, Protagora, se ammetti questo, che cosa risponderemmo se ci chiedesse: «La santità non è la stessa cosa della giustizia e la giustizia non è la stessa cosa della santità. Dunque la santità è ingiusta e la giustizia è empia?». Cosa risponderemmo? Io, per me, direi che la santità è giusta e la giustizia è santa. A nome tuo, se me lo permetti, risponderei le stesse cose: la giustizia è la stessa cosa della santità, o molto simile; senza dubbio la giustizia è simile alla santità e la santità è simile alla giustizia. Mi impediresti di rispondere così o sei d’accordo con me?”
“Socrate, non mi sembra certo che la questione sia così semplice da poter affermare con sicurezza che la giustizia è santa e la santità è giusta. Mi sembra invece che ci sia qualche differenza. Ma che importa? Se vuoi, per noi la giustizia sia pure santa e la santità sia giusta”.
“Eh no! Non voglio esaminare i «se vuoi» e i «se ti sembra», ma me e te. Dico «me e te» perché ritengo che la questione potrà essere discussa nel modo migliore se aboliamo i «se»”.
“Ma sì… in qualche modo la giustizia è simile alla santità. In un certo senso ogni cosa assomiglia a qualsiasi altra: infatti il bianco in un certo senso può assomigliare al nero, e il duro al morbido, e così per le altre cose che sembrano opposte fra loro. Anche le parti del volto, che, abbiamo detto, hanno ognuna una funzione e sono una diversa dall’altra, in un certo senso si assomigliano e sono una simile all’altra. Con questo criterio, se volessi, potresti dimostrare che tutte le cose si assomigliano tra loro. Però non è giusto definire «simili» le cose che presentano qualche affinità, né chiamare «dissimili» quelle che presentano differenze, anche se la somiglianza o la differenza è minima”.
E io, meravigliato, gli dissi: “Dunque per te il giusto e il santo si assomigliano solo per qualche piccolo particolare?”
[332] “Non è esattamente così, ma neppure come credi tu”.
“E va bene. Poiché mi sembra che tu sia in difficoltà su questo punto, lasciamo stare. Esaminiamo qualche altro aspetto del tuo ragionamento. C’è qualcosa che chiami stoltezza?”
“Sì”.
“E la sapienza è in tutto contraria a questa?”
“Mi sembra di sì”.
“Quando gli uomini agiscono giustamente e utilmente, ti sembra che siano saggi o stolti?”
“Che siano saggi”.
“Agiscono saggiamente grazie alla saggezza?”
“Per forza!”
“Di conseguenza quelli che commettono ingiustizie si comportano da stolti e non dimostrano di essere saggi agendo così”.
“Pare anche a me”.
“Agire da stolto è dunque il contrario che agire da saggio?”
“Sì”.
“Quindi se si agisce da stolti lo si fa con stoltezza, se da saggi lo si fa con saggezza?”
“Sono d’accordo”.
“Di conseguenza se uno agisce con forza agisce vigorosamente, se agisce con debolezza debolmente?”
“Mi sembra di sì”.
“E se agisce con velocità, velocemente, se con lentezza, lentamente?”
“Sì”.
“Se dunque si agisce in un certo modo lo si fa per una certa causa, se si agisce nel modo contrario lo si fa per la causa contraria?”
“Sì”.
“E allora, c’è qualcosa che sia bello?”
“Certo!”
“C’è qualcosa contrario al bello, eccetto il brutto?”
“Non c’è”.
“E poi? Esiste il bene?”
“Esiste”.
“C’è qualcosa contrario al bene, eccetto il male?”
“No”.
“Esiste qualcosa di acuto nella voce?”
“Sì”.
“C’è qualcos’altro di contrario all’acuto, eccetto il grave?”
“No”.
“Dunque a ciascun elemento corrisponde un solo contrario e non molti?”
“Sono d’accordo”.
“Su, allora, riepiloghiamo ciò su cui siamo d’accordo. Abbiamo concordato che per ogni cosa c’è un solo contrario, non di più?”
“Così abbiamo concordato”.
“E che quando si agisce in modo contrario lo si fa per la causa contraria?”
“Sì”.
“Abbiamo concordato che chi agisce da stolto agisce al contrario di chi agisce da saggio?”
“Sì”.
“E chi agisce da saggio lo fa a causa della saggezza, chi da stolto a causa della stoltezza?”
“Sono d’accordo”.
“Dunque, se si agisce nel modo contrario, lo si fa per la causa contraria?”
“Sì”.
“Si agisce allora in modo saggio a causa della saggezza, in un altro a causa della stoltezza?”
“Sì”.
“Al contrario?”
“Certo!”
“A causa del contrario?”
“Sì”.
“Dunque la stoltezza è il contrario della saggezza?”
“Così sembra”.
“Ricordi che in principio abbiamo concordato che la stoltezza è il contrario della sapienza?”
“Ricordo”.
[333] “E che per ogni cosa esiste un solo contrario?”
“Sì”.
“Allora, Protagora, quale delle due ipotesi dobbiamo abbandonare? Quella in base alla quale ogni cosa ha un solo contrario o quella in base alla quale la sapienza è diversa dalla saggezza, che entrambe sono parti della virtù e che, oltre ad essere diverse, sono anche dissimili in se stesse e nelle loro proprietà, come le parti del volto? Quale delle due ipotesi dobbiamo abbandonare? Infatti i due ragionamenti non vanno d’accordo: non “cantano insieme” e non sono in armonia fra loro. Come potrebbero accordarsi se per ogni cosa deve esistere un solo contrario, e non di più, e invece la stoltezza, che è una cosa sola, sembra avere come contrari la sapienza e la saggezza? È così, Protagora, o no?”
“Ehm… è così”.
“Dunque saggezza e sapienza sarebbero una cosa sola? Prima ci è sembrato che giustizia e santità fossero quasi la stessa cosa. Su, Protagora, non ci scoraggiamo! Esaminiamo anche il resto. Chi commette ingiustizia, ti sembra che agisca da saggio, se compie un atto ingiusto?”
“Mi vergognerei di affermare una cosa simile, anche se molti lo sostengono”.
“Mi devo rivolgere ai molti o a te?”
“Se vuoi, confrontati prima con l’opinione della gente comune”.
“Ma a me non interessa affatto, voglio solo che tu mi risponda se la pensi così o no. Desidero esaminare il discorso in sé, anche se a volte capita di essere esaminati sia a me che faccio domande, sia a chi mi risponde”.
Protagora, all’inizio, si schermiva davanti a noi – diceva che l’argomento era troppo difficile – ma poi acconsentì a rispondere.
“Su, rispondimi da capo. Ti sembra che alcuni siano saggi, pur commettendo ingiustizie?”
“Può darsi”.
“Dici che essere saggi significa pensare bene?”
“Sì”.
“E pensar bene è prendere buone decisioni, commettendo ingiustizie?”
“Mi pare di sì”.
“Si prendono buone decisioni se, commettendo ingiustizie, si hanno risultati positivi o negativi?”
“Se si hanno risultati positivi”.
“Esistono per te cose buone?”
“Sì”.
“Sono buone quelle cose che sono utili agli uomini?”
“Sì, per Zeus. E alcune cose, anche se non sono utili agli uomini, io le chiamo buone”.
Mi sembrava che Protagora si fosse già innervosito e, ansioso, si preparasse a rispondere. Poiché lo vidi in quello stato d’animo, domandai con calma:
[334] “Protagora, intendi per caso le cose che non sono utili a nessun uomo, o quelle che non sono utili in assoluto? Anche queste tu chiami buone?”
“Assolutamente no. Ma conosco molte cose che sono dannose agli uomini, cibi, bevande, farmaci e mille altre e alcune che invece sono utili. Altre poi non sono né utili né dannose agli uomini, mentre sono utili ai cavalli; altre solo ai buoi, altre ai cani; altre a nessuno di questi, ma agli alberi. Quelle che sono buone per le radici degli alberi sono dannose per i germogli. Il letame, ad esempio, se dato alle radici è utile a tutte le piante, se invece fosse usato per i germogli e i ramoscelli giovani, li distruggerebbe completamente. L’olio poi è assolutamente dannoso per tutte le piante e ancora più dannoso per i peli di tutti gli animali, eccetto l’uomo; è infatti utile ai peli dell’uomo e al resto del corpo. Il bene è così variegato e multiforme che la stessa sostanza è utile all’uomo per le parti esterne del corpo, mentre è molto dannosa per quelle interne. Per questo motivo tutti i medici impongono agli ammalati di non usare olio, se non in piccolissime quantità nei cibi, quanto basta ad attenuare l’odore fastidioso dei cibi e delle bevande”.
Detto questo, i presenti rumorosamente applaudirono, per approvare le sue parole, e io dissi: “Protagora, sono un po’ smemorato e, se qualcuno fa discorsi lunghi , dimentico di cosa si stava parlando. Se io fossi sordo tu capiresti, se volessi parlare con me, di dover alzare il tono della voce più che con altri. Allo stesso modo ora, poiché hai incontrato uno smemorato, spezzami le risposte e abbreviale, così seguirò meglio il tuo discorso”.
“In che senso devo rispondere in breve? Devo rispondere più in breve di quanto sia necessario?”
“No di certo”.
“Quanto è necessario?”
“Sì”.
“Devo risponderti nella misura in cui a me sembra opportuno, o quanto sembra opportuno a te?”
“Ho sentito che tu sei capace di insegnare a fare lunghi discorsi sugli stessi argomenti, se si vuole, così da non smettere mai di parlare, e anche brevi discorsi. Ne deduco così che nessuno può parlare più in breve di te. Se dunque vuoi parlare con me, usa il discorso breve”.
[335] “Socrate, io ho già gareggiato nei discorsi con molti uomini. Se avessi fatto quello che tu chiedi, cioè discutere nel modo in cui voleva il mio antagonista, non sarei risultato migliore di nessuno e tanto meno si sarebbe diffuso il nome di Protagora tra i Greci”.
Io compresi che non era soddisfatto di sé per le risposte che mi aveva dato prima. Poiché non era disposto a discutere rispondendo alle domande, non ritenni più interessante essere presente a quella conversazione.
“Protagora, neppure io voglio conversare contro i tuoi desideri, ma discuterò con te se tu vuoi parlare in modo tale che io possa seguirti. Tu infatti, come si dice di te, e come tu stesso affermi, sei capace di conversare sia con discorsi lunghi sia con discorsi brevi: infatti sei saggio. Io invece, anche se volessi, non saprei fare discorsi lunghi. Sarebbe il caso che mi venissi incontro tu che sei capace di discorrere in entrambi i modi, affinché ci possa essere conversazione. Ora dal momento che non vuoi e dal momento che io ho un impegno e non posso rimanere con te se ti dilunghi – infatti devo andare in un posto – me ne vado, anche se avrei ascoltato con piacere le tue parole”.
E così parlando, mi alzai per andarmene. E mentre mi alzavo Callia mi afferrò la mano con la sua destra e con la sinistra si attaccò a questo mantello e disse: “Socrate, non ti lasceremo andar via: se infatti te ne vai la discussione non sarà più la stessa. Ti prego di rimanere con noi: io non ascolterei niente di più gradito della conversazione tra te e Protagora. Dài, fai questo favore a tutti noi”.
E io dissi – già mi ero alzato per andarmene -: “Figlio di Ipponico, ho sempre ammirato il tuo desiderio di sapere, e ancora di più lo lodo ora e lo apprezzo, a tal punto che vorrei farti questo favore, se tu mi chiedessi il possibile. Ora è come se tu mi chiedessi di seguire il corridore Crisone di Imera nel pieno delle sue forze o di gareggiare e seguire uno di quegli atleti che corrono sulle lunghe distanze o che corrono tutto il giorno. [336] Io ti direi che più di te desidererei correre dietro a costoro, ma non posso. Se fosse però necessario vedere correre allo stesso tempo me e Crisone, chiedi a lui di adattarsi. Io infatti non posso correre velocemente, ma lui lo può fare lentamente. Se dunque tu desideri ascoltare me e Protagora, chiedigli di rispondermi anche ora così come prima rispondeva brevemente alle domande che gli venivano poste. Altrimenti, quale sarà il tipo di conversazione? Io infatti credevo che il riunirsi per parlare insieme e il parlare in pubblico fossero due cose diverse”.
“Però vedi, Socrate, mi sembra che Protagora abbia ragione sostenendo che a lui sia permesso parlare come vuole e che tu, da parte tua, puoi parlare come vuoi”.
Alcibiade, presa a questo punto la parola, disse: “Non sono d’accordo, Callia: il nostro Socrate ammette di non saper fare lunghi discorsi e cede a Protagora. Al contrario, riguardo alla capacità di dialogare e di saper spiegare e interpretare un discorso, mi stupirei se fosse inferiore a qualcuno. Se dunque anche Protagora ammette di essere più debole di Socrate nel dialogare, per Socrate è sufficiente. Se invece si oppone, dialoghi allora facendo domande e rispondendo: non faccia un lungo discorso per rispondere a ogni domanda, eludendo le argomentazioni e non volendo spiegare il ragionamento. Non lo tiri, però, neanche alle lunghe al punto che molti degli ascoltatori dimentichino che domanda era stata fatta. Per quanto riguarda Socrate io garantisco che non dimentica, anche se scherza e dice di non avere memoria. Mi sembra che Socrate parli nella maniera più giusta: infatti è necessario che ognuno manifesti la propria opinione”.
Dopo Alcibiade, credo, fu Crizia a parlare: “Prodico e Ippia, mi sembra che Callia protenda troppo per Protagora, mentre Alcibiade è sempre desideroso di vincere qualsiasi cosa cominci. Noi, però, non dobbiamo affatto desiderare che vinca né Socrate né Protagora, ma chiedere a entrambi di non interrompere la riunione nel bel mezzo”.
[337]Parlò così e Prodico disse: “Mi sembra che tu abia ragione, Crizia: chi partecipa a queste discussioni deve essere ascoltatore neutrale, ma non indifferente, di entrambi i contendenti – infatti non è lo stesso. Bisogna ascoltare con neutralità, ma non dare ugualmente all’uno e all’altro contendente la stessa importanza: questa sia maggiore per il più saggio e minore per il meno saggio. Io, per quanto mi riguarda, Protagora e Socrate, ritengo che vi dobbiate mettere d’accordo e gareggiare tra voi sui discorsi, ma non lottare. Gli amici gareggiano tra loro con benevolenza, i nemici, invece, e gli avversari lottano: così la nostra riunione risulterebbe bellissima. Voi, infatti, con i vostri discorsi potreste essere apprezzati e non solo lodati da noi che ascoltiamo. L’apprezzamento risiede nell’anima di coloro che ascoltano senza inganno, invece spesso la lode è nelle parole di coloro che mentono contrariamente alla propria opinione. Noi che ascoltiamo, invece, potremmo in tal modo provare gioia e non piacere: provare gioia è apprendere qualcosa e partecipare alla saggezza solo con la mente; provare piacere, invece, è mangiare qualcosa o provare un’altra sensazione con il solo corpo”.
Dette da Prodico queste cose, molti dei presenti approvarono. Dopo Prodico prese la parola Ippia il saggio: “Uomini che siete qui presenti, ritengo che voi siate tutti consanguinei, familiari e cittadini per natura, non per legge: infatti il simile è per natura consanguineo del simile. La legge invece, che è tiranna degli uomini, agisce violentemente contro natura. Noi conosciamo la natura delle cose, siamo i più saggi tra i Greci, e per questo motivo siamo venuti in questo pritaneo della saggezza greca e in questa casa che è la più grande e la più ricca di questa città. È vergognoso che non ci mostriamo degni di questa nostra reputazione, ma lottiamo fra noi come i più meschini degli uomini.
[338] Io dunque vi prego e vi consiglio, Protagora e Socrate, di incontrarvi a metà strada, guidandovi noi come degli arbitri. Non usate puntigliosi dialoghi fitti di risposte brevi non graditi a Protagora, ma lasciate andare e allentate le briglie al discorso, perchè ci appaia più maestoso ed elegante. Protagora, da parte sua, sciogliendo tutte le vele e abbandonandosi al vento, non si getti nel mare dei discorsi allontanandosi dalla terra. Piuttosto percorrete entrambi una rotta intermedia. Fate dunque così e prestatemi ascolto: sceglietevi un giudice, un arbitro, un pritano che controllerà la giusta lunghezza dei discorsi di ognuno di voi”.
Queste proposte piacquero ai presenti e tutti le apprezzarono. Callia disse che non mi avrebbe fatto andar via e mi domandarono di scegliere un arbitro. Io dissi che sarebbe stato sconveniente scegliere un giudice per i discorsi: infatti se la persona scelta fosse stata peggiore di noi, non sarebbe stato giusto mettere a capo dei migliori uno peggiore di loro. Non sarebbe stato ugualmente corretto neppure se fosse stato uguale. Così dissi: “Chi è uguale a noi farà anche cose uguali a noi, sicché sarà inutile scegliere. Dovrete eleggere uno migliore di noi. È realmente impossibile per voi, io credo, scegliere uno che sia più saggio del nostro Protagora. Se sceglierete uno per niente migliore, ma lo definirete tale, offenderete Protagora: scegliere un arbitro per lui come se fosse un uomo di poco conto (mentre per quanto mi riguarda io certo non mi offenderei)! Faccio allora questa proposta, affinché ci siano la conversazione e i dialoghi che desiderate: se Protagora non vuole rispondere, faccia egli stesso le domande; io risponderò e al tempo stesso cercherò di dimostrargli come credo che debba rispondere chi è interrogato. Quando avrò risposto a tutte le domande che vorrà pormi, a sua volta lui stesso mi fornirà spiegazioni. Se, dunque, non sembra disposto a rispondere attenendosi solo alla domanda, io e voi insieme gli chiederemo quanto chiedete a me, cioè di non rovinare la conversazione. Per questo non c’è alcun bisogno di un arbitro, ma tutti voi insieme sarete arbitri”.
A tutti sembrò giusto fare così. Protagora, pur non essendo molto d’accordo, ugualmente, suo malgrado, acconsentì a fare domande e, quando ne avesse poste a sufficienza, a rispondere a sua volta in maniera molto breve.
[339] Cominciò allora ad interrogarmi più o meno così: “Ritengo, Socrate, che per un uomo la parte più importante della sua cultura consista nel conoscere la poesia. Significa, cioè, essere capace di comprendere tra le cose dette dai poeti quelle corrette e quelle no, e saper spiegare e renderne ragione a chi ne domanda. Ti chiederò qualcosa riguardo alla virtù, che è l’argomento del quale tu ed io stiamo discutendo ora, ma spostandomi nel campo della poesia: questa sola sarà la differenza. Simonide, infatti, in un passo dice a Scopa, figlio di Creonte il Tessalo:
Un uomo buono, però, veramente è difficile diventare,
robusto di mani e di piedi e di mente,
creato senza difetto.
Conosci questo canto, o te lo devo recitare tutto?”.
“Non serve affatto: lo conosco e mi è capitato di averci riflettuto a fondo”.
“Perfetto! Ti sembra dunque che sia stato scritto in una bella forma e che esprima giustamente i concetti, o no?”.
“Mi sembra che sia senza dubbio espresso in ottima forma e corretto”.
“E ti sembra che sia composto in bella forma, se il poeta dice cose in contraddizione con se stesso?”
“No di certo!”
“Allora, osserva meglio!”
“L’ho già esaminato a sufficienza, amico mio”.
“Allora sai che andando avanti nel canto in un passo il poeta dice:
Non ritengo conveniente l’opinione di Pittaco
anche se ne è autore un luminoso sapiente:
“difficile è mantenersi onesto”
Ti rendi conto che la stessa persona esprime sia questo concetto sia quello di prima?”
“Lo so”.
“E ti sembra che queste parole vadano d’accordo con quelle di prima?”
“Mi sembra di sì (e al tempo stesso ebbi paura che mirasse a qualcos’altro). E a te non sembra?”
“Come potrei pensare che vada d’accordo con se stesso uno che esprime questi due concetti? Dapprima afferma che sia difficile diventare un uomo veramente buono, ma poco più avanti, procedendo nella poesia, se ne dimentica e condanna Pittaco, che esprime il suo stesso concetto, cioè che è difficile mantenersi onesto, e dice di non approvare uno che pensa queste sue stesse cose. Dal momento che Simonide rimprovera chi dice le sue stesse cose, è evidente che rimprovera anche se stesso cosicché prima o dopo si è sbagliato”.
Fatte queste affermazioni, provocò l’applauso e la lode da parte di molti degli ascoltatori. A me, in un primo momento, come se fossi stato colpito da un bravo pugile, si annebbiò la vista ed ebbi capogiri sentendo Protagora parlare così e tutti gli altri applaudire rumorosamente. Poi, a te posso dire la verità, per guadagnare tempo e capire cosa volesse dire il poeta, mi rivolsi a Prodico e, chiamatolo, gli dissi:
“Simonide è tuo concittadino, Prodico: sarebbe bello da parte tua andare in suo aiuto. [340] Mi sembra di invocarti allo stesso modo in cui Omero narra che lo Scamandro, assediato da Achille, abbia invocato il Simoenta dicendogli:
Caro fratello, tratteniamo entrambi la forza di questo eroe.
Allo stesso modo anche io ti invoco, affinché Protagora non ci distrugga Simonide. Per riabilitarlo c’è bisogno, infatti, della tua arte, con la quale tu distingui il volere e il desiderare, che per te non sono la medesima cosa, e di tutte quelle cose, belle e molte, che hai detto or ora. Ora considera se la pensi come me. Non mi sembra, infatti, che Simonide si contraddica. Tu, Prodico, esprimi prima la tua opinione: ti sembra che il divenire e l’essere siano la stessa cosa o due cose diverse?”
“Diverse, per Zeus!”
“Lo stesso Simonide nei primi versi ha espresso dunque la sua opinione, cioè che è veramente difficile diventare un uomo buono”.
“E’ vero”.
“Biasima Pittaco – continuai – non per il motivo che crede Protagora, cioè perché dice le sue stesse cose, ma perché dice cose diverse. Pittaco non riteneva infatti difficile questa cosa, il divenire onesto, ma, come diceva Simonide, restare onesto. Come dice Prodico, l’essere e il divenire, Protagora, non sono la stessa cosa. E se l’essere non è la stessa cosa del divenire, Simonide non si contraddice. E forse Prodico e molti altri potrebbero dire, così come dice Esiodo, che è difficile diventare buoni – infatti gli dei hanno posto davanti alla virtù il sudore – ma che quando si arriva alla cima sarà più facile possedere la virtù, per quanto essa sia difficile da raggiungere”.
Dunque Prodico, ascoltate queste mie parole, mi lodò. Protagora, invece, disse: “La tua correzione, Socrate, ha in sé un errore più grande di quello che vuol correggere”.
E io: “Mi sembra di aver fatto un bel danno, Protagora, e di essere un medico ridicolo: rendo più grave la malattia con la mia cura!”
“E’ proprio così”.
“Perché?”
“Sarebbe grande l’ignoranza del poeta se ritenesse così facile impossessarsi della virtù, cosa che è tra tutte la più difficile, come è risaputo”.
[341]E io: “Per Zeus! Al momento opportuno Prodico ascolta i nostri discorsi. La sapienza di Prodico, Protagora, rischia infatti di essere qualcosa di divino e di antico sia se risulta aver preso inizio da Simonide sia ancor prima. Tu, che sei esperto di molte altre cose, ti dimostri totalmente inesperto di questa e non competente come me che sono stato discepolo di Prodico che è qui. Ora mi sembra che tu non comprenda che Simonide non intendeva il termine «difficile» così come lo intendi tu. Per esempio, a proposito del termine «terribile», Prodico mi rimprovera tutte le volte che, lodando te o qualcun altro, dico che Protagora è un uomo sapiente e «terribile»: mi domanda se non mi vergogno di chiamare «terribile» una cosa buona. Infatti terribile è il male. Nessuno dice una «terribile ricchezza» né «una terribile pace» né «una terribile salute», ma dice «una terribile malattia», «una terribile guerra» e «una terribile povertà» come se «terribile» fosse un male. Forse dunque anche gli abitanti di Ceo e Simonide considerano il termine «difficile» un male o qualcos’altro che tu non comprendi. Vediamo cosa ne pensa Prodico – infatti è giusto chiedere a lui spiegazioni sul linguaggio di Simonide. Prodico, cosa voleva intendere Simonide con il termine «difficile»?”
“Un male”.
“Per questo motivo, Prodico, egli rimprovera Pittaco quando afferma che è difficile rimanere onesto: è come dire che è male rimanere onesto”.
“Credi, Socrate, che Simonide abbia voluto intendere qualcosa di diverso da questo e rimproverare a Pittaco di non saper distinguere correttamente le parole perché abitante di Lesbo ed educato in una lingua straniera?”
“Protagora, hai ascoltato Prodico: hai qualcosa in contrario da dire?”
E Protagora: “La questione non sta proprio così, Prodico. Io sono certo che Simonide diceva «difficile» con lo stesso nostro significato, non di male, ma di qualcosa di non facile, a cui si arriva attraverso grandi fatiche”.
“Anche io so, Protagora, che Simonide voleva dire questo e lo sa anche Prodico, ma scherza e credo che abbia voluto provare se tu eri capace di sostenere la sua posizione. Simonide non intende il termine “difficile” come male: ne è una valida testimonianza la frase che segue subito dopo: infatti dice
solo un dio potrebbe avere questo privilegio.
Non pensa dunque che il rimanere onesto sia un male, dal momento che poi afferma che solo un dio potrebbe avere questo privilegio e al solo dio si concede questo dono. Prodico potrebbe altrimenti dire che Simonide è un impudente e niente affatto cittadino di Ceo. Ora ti voglio rivelare quale fosse l’intento di Simonide nel comporre questo canto, se tu vuoi mettere alla prova le mie capacità, così come le chiami tu, riguardo alla poesia. Se non vuoi, sarò io invece ad ascoltarti”.
[342] Protagora dunque, ascoltate queste mie parole, disse: “Va bene, Socrate”.
Prodico, Ippia e gli altri mi pregavano insistentemente.
“Tenterò di esporvi quanto penso di questo canto. A Creta e a Sparta si trova la filosofia più antica e più profonda di tutta la Grecia e lì ci sono moltissimi sofisti. Questi nascondono la loro sapienza e fingono di essere ignoranti per non mostrarsi apertamente superiori a tutti i Greci in sapienza (proprio come i sofisti di cui parlava Protagora) e per sembrare invece superiori nel combattimento e nel coraggio. Ritengono infatti che, se fosse risaputo ciò per cui sono superiori, cioè la sapienza, tutti la eserciterebbero.
Ora, avendo tenuto nascosta la sapienza, hanno ingannato coloro che nelle varie città vivono come gli spartani e che per imitarli si ammaccano le orecchie e avvolgono intorno ai pugni strisce di cuoio, impazziscono per la ginnastica e indossano corti mantelli, ritenendo che gli spartani siano i più forti dei Greci grazie a queste cose. Gli spartani, invece, quando vogliono liberamente incontrarsi con i sofisti e sono stanchi di parlare di nascosto, cacciati tutti questi loro imitatori e qualsiasi altro straniero ci sia nella loro città, conversano con i sofisti senza farlo sapere agli stranieri. Non permettono poi a nessuno dei giovani di andare in altre città, come fanno pure i cretesi, perché non dimentichino gli insegnamenti che sono stati loro impartiti. In queste città non solo gli uomini sono fieri della loro educazione, ma anche le donne. Potrete capire che quanto vi dico è vero e che gli spartani sono stati efficacemente educati ai ragionamenti filosofici da questo: se qualcuno si trova infatti a conversare con il più stolto degli spartani, troverà che per la maggior parte della conversazione l’uomo appare davvero stolto. Tuttavia, poi, quando gli si presenta un’occasione nel discorso, questa stessa persona è capace di scagliare una frase degna di nota, breve e significativa, come un abile arciere, cosicché il suo interlocutore appare niente più che un bambino. Questo dunque hanno compreso sia i contemporanei sia gli antichi, cioè che imitare gli spartani significa amare la filosofia molto più della ginnastica, consapevoli che pronunciare frasi brevi e significative è proprio di uomini che sono stati educati alla perfezione.
[343] Tra questi c’erano Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Briene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene, e il settimo tra loro si narra che fosse Chilone di Sparta. Tutti questi erano ammiratori, amanti e seguaci dell’educazione spartana: chiunque, dai detti brevi e memorabili che ciascuno di loro pronunciò, potrebbe comprendere che la loro sapienza era di origini spartane. Costoro, riunitisi insieme, consacrarono come primizia della loro sapienza ad Apollo nel tempio di Delfi queste iscrizioni che tutti celebrano, «Conosci te stesso» e «Nulla di troppo». Per quale motivo dico queste cose? Perché questo era lo stile della filosofia degli antichi: una brevità spartana. Privatamente si ripeteva anche questo detto di Pittaco, molto lodato dai sapienti: «E’ difficile essere onesti». Simonide, dunque, desideroso di essere annoverato fra i sapienti, capì che se avesse superato questo detto, come un celebre atleta, e lo avesse vinto, sarebbe stato famoso tra gli uomini del suo tempo. Contro tale detto, quindi, e per questo motivo compose questo canto, volendo sottrargli ogni valore, come mi sembra.
Ora esaminiamo tutti insieme il canto, per vedere se dico la verità. Subito, infatti, sin dai primi versi, sembrerebbe che a parlare sia un pazzo poiché, mentre afferma che è difficile per un uomo diventare buono, aggiunge poi quel «però». Il «però», infatti, sembrerebbe essere stato messo senza motivo, a meno che Simonide non parli volendo polemizzare contro il detto di Pittaco. Pittaco dice che è difficile mantenersi onesto, Simonide obbiettando dice «però, non essere, ma diventare buono è veramente difficile, Pittaco» . Simonide non dice «veramente buono»: il termine «veramente” si riferisce non a buono, come se esistessero alcuni «veramente buoni», e altri buoni sì, ma non «veramente» (infatti questo sembrerebbe sciocco e non degno di Simonide). Bisogna invece pensare che nel canto il «veramente” abbia un’altra posizione, immaginando che Pittaco parli e Simonide risponda.
[344] Pittaco direbbe: «Uomini, è difficile mantenersi onesti», e Simonide risponderebbe «Pittaco, però non dici la verità: non essere, ma divenire un uomo buono, robusto di mani, di piedi e di mente, creato senza difetto, questo è veramente difficile». Il «però» sembra essere stato inserito a proposito e il «veramente» è correttamente riferito alla parola «difficile». Tutto il seguito conferma la mia interpretazione. Per ciascuna delle cose dette nel canto, infatti, si può dimostrare che è stata ben costruita – risulta composto con molta grazia e cura – ma sarebbe lungo analizzarlo in tutti i suoi aspetti. Esponiamone piuttosto il significato complessivo e l’intento, che in tutto il canto consiste nel confutare il detto di Pittaco.
Simonide dice, andando avanti di pochi versi, come se parlasse in prosa, che divenire un uomo buono è veramente difficile, ma possibile per un certo periodo di tempo; una volta divenuto buono, rimanere in questa condizione ed essere tale, come tu dici, Pittaco, è impossibile e non umano, ma solo il dio avrebbe un tale privilegio
non è possibile che non sia malvagio
l’uomo che sia colto da un’irrimediabile sventura
Chi è colto da un’irrimediabile sventura alla guida di una nave? Evidentemente non l’inesperto: infatti l’inesperto è già fuorigioco. Come dunque si potrebbe colpire uno già disteso a terra? E’ possibile abbattere solo uno che prima era in piedi, così da farlo cadere. Allo stesso modo un’irreparabile sventura potrebbe colpire un uomo ricco di risorse, e non chi ne è sempre sprovvisto; una violenta tempesta, scatenandosi, potrebbe rendere senza ripari il nocchiero, il sopraggiungere di una stagione avversa il contadino e un’altra sciagura il medico. Così, allo stesso modo, solo a un uomo onesto è possibile divenire malvagio, come è testimoniato anche da un altro poeta che dice:
l’uomo buono a volte è malvagio e a volte è onesto
al malvagio invece non è possibile diventare tale, poiché malvagio lo è sempre.
Chi è pieno di risorse, saggio e buono, quando lo colga un’irreparabile sventura
non è possibile che non sia malvagio
Tu, invece, Pittaco, dici che “è difficile rimanere onesto”: al contrario, diventare onesti è difficile, ma possibile, mentre rimanere tali è impossibile
ogni uomo quando agisce bene è buono
quando agisce male è cattivo.
[345] In cosa consiste il successo nelle lettere e cosa rende l’uomo bravo nelle lettere? Certamente l’impararle. Quale modo di agire rende buono un medico? Certamente l’aver appreso le cure per gli ammalati. «È cattivo se ha una cattiva riuscita». Chi potrebbe diventare un medico cattivo? Evidentemente chi è per prima cosa un medico e poi un medico buono: solo costui potrebbe diventare un cattivo medico. Noi, invece, inesperti di medicina, non potremmo mai, pur agendo male, diventare né medici né architetti né tecnici in nessun’altra disciplina. Chi, pur operando male, non può diventare medico, è chiaro che non potrà diventare neanche un cattivo medico. Così anche l’uomo buono potrebbe diventare cattivo per vecchiaia, per stanchezza, per malattia o per qualche altro accidente. Questo infatti significa avere cattiva fortuna: perdere la conoscenza. Il malvagio non potrebbe diventare malvagio – infatti lo è già -, ma, se volesse diventare malvagio, dovrebbe prima divenire buono. Ecco il significato di questo passo del canto: non è possibile diventare buono, essendolo già, mentre è possibile che uno, da buono, divenga poi cattivo: migliori e per un tempo più lungo sono quelli che gli dei amano.
Tutte queste cose sono state dette contro Pittaco, e ancora di più lo dimostra il seguito del canto. Infatti dice:
Cercando quello che non è possibile che accada
io non getterò mai invano il destino della mia vita in una vuota speranza,
io vi annuncerò quando avrò trovato un uomo puro
tra noi tutti quanti ci nutriamo del frutto della terra dalle ampie vie.
Per tutto il carme così si scaglia contro il detto di Pittaco:
io amo e lodo volentieri (ekòn) coloro che non compiono azioni malvagie
contro la necessità non combattono neppure gli dei.
Anche queste parole sono dette con lo stesso fine polemico. Simonide non era così incolto da sostenere di lodare quelli che non compiono “volentieri” azioni malvagie, come se esistessero alcuni che “volentieri” commettono ingiustizie. Io credo che sia più o meno così: nessun saggio ritiene che qualcuno sbagli di sua volontà e che “volentieri” compia azioni cattive e malvagie, ma sa bene che tutti quelli che agiscono in modo vergognoso lo fanno involontariamente. Simonide non dice di lodare coloro che non fanno il male “volentieri”: quel “volentieri” lo dice pittosto riferendolo a se stesso.
[346] Allude certo al fatto che un uomo buono spesso si costringe a diventare amico di qualcuno, a lodarlo, come per esempio quando a un uomo capita di avere una madre, un padre, una patria o qualcos’altro del genere di natura diversa dalla sua. Ora, quando questa stessa situazione capita ai malvagi, l’accettano volentieri e con biasimo denunciano e accusano la malvagità dei genitori o della patria, per poterli trascurare senza essere per questo incolpati e rimproverati. Biasimano i genitori e la patria più del necessario e aggiungono risentimenti voluti a quelli già inevitabili. I buoni, invece, tentano di nascondere gli errori dei genitori e di lodarli, e se non sono d’accordo con i genitori o con la patria per aver ricevuto un torto, si calmano e si riconciliano costringendosi ad amarli e lodarli. Credo che spesso lo stesso Simonide abbia ritenuto opportuno lodare ed adulare il tiranno o qualunque altro uomo, non «volentieri», ma perché costretto. Questo è il motivo per cui dice anche a Pittaco: se ti biasimo non è perché sono per natura incline a biasimare. Infatti:
Mi accontento di un uomo che non sia malvagio
né del tutto inetto, che conosca la giustizia che giova alla città
e sia onesto; non lo biasimerò
(non sono per natura amante del biasimo),
perché infinita è la stirpe degli stolti
così che, se a qualcuno piace biasimare, potrebbe accontentarsi biasimando gli stolti.
Sono belle tutte le cose alle quali non si mescola nulla di brutto.
Simonide non intende certo dire con questo verso che sono bianche tutte quelle cose alle quali non si mescola nulla di nero, dal momento che questa sarebbe un’affermazione ridicola per molti aspetti. Intende piuttosto valorizzare le qualità intermedie, senza biasimarle. Infatti afferma: «Non cerco l’uomo puro, tra noi che ci nutriamo del frutto della terra dalle ampie vie. Se mai lo troverò ve lo annunzierò»; di conseguenza non loderò nessuno per la sua perfezione, ma mi accontenterò di un uomo di media virtù che almeno non compia azioni malvagie. Infatti dice: «Io amo e lodo tutti». Proprio in questo verso Simonide usa il dialetto di Mitilene e rivolgendosi a Pittaco dice: «Tutti io lodo e amo volentieri (qui è necessario che il lettore faccia una pausa dopo «volentieri»), purché non compiano azioni malvagie», ma c’è pure chi lodo e amo malvolentieri.[347] Pittaco, io non ti avrei mai biasimato se tu avessi detto cose mediamente giuste e vere; tu invece, pur sbagliando completamente su cose molto importanti, credi di dire la verità, perciò io ti biasimo. Prodico e Protagora, a me sembra che Simonide abbia composto il carme proprio avendo in mente queste cose”.
Ippia disse: “Socrate, mi sembra che tu abbia spiegato bene il carme; su questo stesso argomento ho anch’io un discorso ben fatto. Ve lo esporrò, se volete”.
Alcibiade disse: “Sì, Ippia, ma un’altra volta; ora è giusto che, in base agli accordi presi precedentemente, Protagora – se ancora vuole – faccia le domande e che Socrate risponda. Se invece Protagora preferisce rispondere, sia Socrate a fare le domande”.
Io dissi: “Lascio a Protagora la scelta. Se vuole, possiamo abbandonare i discorsi su carmi e versi. A me, Protagora, piacerebbe proseguire con gli argomenti su cui prima ti facevo domande, per portarli a termine esaminandoli insieme a te.
Discutere di poesia mi sembra in realtà una cosa da simposio di uomini mediocri e volgari. Questi infatti, mentre bevono, non sono capaci di intrattenersi fra loro con i propri mezzi, né con la voce né con le parole, a causa della loro ignoranza: fanno rincarare il prezzo delle flautiste, pagando profumatamente la voce estranea dei flauti, con cui si intrattengono fra loro. Al contrario, in un simposio di uomini di valore e di cultura, non vedrai né flautiste né danzatrici né suonatrici di cetra: uomini tali sono capaci di intrattenersi fra loro da soli, senza queste vane chiacchere e passatempi, con la loro stessa voce. Parlano e si ascoltano reciprocamente a turno, con ordine, anche se hanno bevuto molto vino. Allo stesso modo anche le riunioni come la nostra, se coinvolgono uomini di valore (molti di noi pensano di esserlo), non hanno affatto bisogno né di una voce estranea né di poeti, a cui non possono neppure essere poste domande riguardo a ciò che dicono. Infatti molti, citando i poeti nei loro discorsi, interpretano i loro versi in un modo, mentre altri li interpretano in un altro, così che spesso si arriva a discutere di questioni impossibili da risolvere. Gli uomini di valore, invece, non frequentano questo tipo di riunioni e si intrattengono fra loro con i loro mezzi, mettendo alla prova gli altri e dando prova di sé attraverso i loro discorsi.
[348] Mi sembra che tu ed io dobbiamo imitare proprio questi uomini: lasciamo stare i poeti e con i nostri soli mezzi discutiamo fra noi mettendo alla prova la verità e noi stessi. Se vuoi fare tu le domande, sono pronto a risponderti; se non vuoi, permettimi di concludere quei discorsi che abbiamo lasciato a metà”.
Mentre io parlavo in questo modo, Protagora non manifestava affatto quale fosse la sua intenzione. Allora Alcibiade, rivolto a Callia, disse: “Callia, ti sembra che ora Protagora si stia comportando bene, non volendo manifestare se discuterà o no? A me sembra di no. Discuta o dica che non vuole farlo, ci faccia conoscere le sue intenzioni: Socrate potrà parlare con qualcun altro o chiunque altro lo voglia potrà parlare con un altro”.
A questo punto Protagora, vergognandosi, come a me sembrò, sia per le parole di Alcibiade, sia per le preghiere di Callia e degli altri presenti – quasi tutti – a malincuore decise di discutere. Mi invitò a fare le domande, promettendo che avrebbe risposto.
Io dissi: “Protagora, non pensare che io, nel parlare con te, abbia altro scopo se non esaminare questioni su cui di volta in volta sono incerto. Io credo infatti che Omero abbia ragione: quando due camminano insieme, uno comprende prima dell’altro.
Noi uomini, tutti insieme, abbiamo più risorse di fronte a ogni azione, discorso, pensiero. Se poi «qualcuno pensa da solo», subito va in giro a cercare qualcun altro a cui esporre il proprio pensiero e con cui poterlo confermare, finché non lo incontra. Per lo stesso motivo anche io discuto volentieri con te piuttosto che con un altro, ritenendo che tu possa esaminare nel modo migliore sia le questioni sulle quali è naturale che rifletta un uomo di valore, sia in particolare la virtù.
Chi altri se non tu? Tu ti consideri un uomo virtuoso, ma non come tutti gli altri: questi infatti, pur essendo virtuosi, non rendono tali gli altri; tu, invece, sei virtuoso e sei pure in grado di rendere virtuosi gli altri.
[349] Hai una tale fiducia in te stesso che, mentre altri tengono nascosta questa capacità, tu ti sei mostrato pubblicamente di fronte a tutti i Greci, ti sei proclamato sofista, ti sei presentato come maestro di paideia e di virtù, e per primo hai ritenuto opportuno essere pagato per questo. Come potevamo non invitarti a questa ricerca, farti domande e renderti partecipe? Non era possibile. Ora io vorrei che tu ci rinfrescassi la memoria sulle questioni, sulle quali prima ti facevo domande; altre questioni, poi, vorrei esaminarle insieme a te. La domanda era questa, mi pare: questi cinque
nomi – sapienza, saggezza, coraggio, giustizia e santità – si riferiscono a un unico oggetto o esiste per ciascuno di questi un’essenza propria e un oggetto con una sua funzione, ognuno diverso dall’altro? Tu prima hai affermato che questi nomi non si riferiscono tutti alla stessa cosa, ma che ciascuno indica un solo oggetto; tutti poi indicano parti della virtù e non sono come le parti dell’oro, simili le une alle altre e all’intero di cui fanno parte, ma sono come le parti del volto, dissimili l’una dall’altra e dall’intero, ciascuna con una sua funzione. Se ancora la pensi così, dillo; se invece ci hai ripensato, spiega pure. Non te lo farei pesare, se tu ora parlassi in un altro modo e non mi meraviglierei se tu prima avessi
fatto certe affermazioni solo per mettermi alla prova”.
“Socrate, io dico che tutte queste cose sono parti della virtù e che quattro sono abbastanza simili fra loro, mentre il coraggio è molto diverso da tutte. Ecco la prova che quello che dico è vero: infatti tu puoi incontrare parecchi uomini molto ingiusti, empi, sregolati e ignoranti, ma al tempo stesso straordinariamente coraggiosi!”.
“Aspetta! – dissi io – Vale la pena di esaminare quello che dici. Per «coraggiosi» intendi gli audaci o qualcos’altro?”
“Intendo gli audaci e anche i temerari di fronte ai pericoli che molti temono di affrontare”.
“Pensi che la virtù sia bella e proprio perché bella ti proclami maestro di questa?”
“E’ bellissima, se non sono impazzito”.
“Ma è in parte bella e in parte brutta o è bella nel complesso?”
“E’ bella nel complesso, quanto più è possibile”.
“Sai chi sono quelli che con audacia si gettano nei pozzi?”
[350] “Sì, i palombari”.
“Lo fanno poiché sono capaci o per qualche altro motivo?”
“Perché sono capaci”.
“Chi sono quelli che con coraggio si battono a cavallo? Quelli abili nel cavalcare o quelli incapaci?”
“Quelli abili nel cavalcare”.
“Chi sono quelli che combattono con lo scudo? Quelli che sanno usare lo scudo, o no?”
“Quelli che lo sanno usare. E per tutte le altre cose, se a questo miri, quelli che sanno sono più audaci di quelli che non sanno. Gli stessi diventano più audaci quando hanno imparato piuttosto che prima di sapere”.
“Hai mai visto alcuni che non conoscono tutte queste cose, ma che tuttavia sono audaci?”
“Sì, e anche troppo audaci”.
“Ma questi audaci sono anche coraggiosi?”
“E allora il coraggio sarebbe una cosa orribile. Sono pazzi, piuttosto”.
“Allora come definisci i coraggiosi? Non sono forse gli audaci?”
“Sì, sì”.
“Eppure non è forse vero che quelli che sono audaci senza sapere, non sembrano coraggiosi ma pazzi? E d’altra parte poco fa i più sapienti non ti sembravano anche i più audaci e, essendo i più audaci, i più coraggiosi? E in base a questo ragionamento la sapienza non coincide forse con il coraggio?”
“Non ricordi bene, Socrate, quello che dicevo e che ti ho risposto. Io, quando tu mi hai chiesto se i coraggiosi fossero audaci, ho detto di sì; ma tu non mi hai chiesto se gli audaci fossero coraggiosi: se infatti me lo avessi chiesto, avrei detto «non tutti». Quindi non hai per niente dimostrato che i coraggiosi non sono audaci e che la mia affermazione non è corretta.
Tu dici poi che quelli che sanno sono più audaci di quanto lo fossero prima di sapere e di altri che non sanno, e per questo credi che il coraggio e la sapienza siano la stessa cosa: procedendo in questo modo potresti credere che anche la forza fisica sia sapienza. Se infatti, proseguendo con questo ragionamento, tu mi chiedessi se chi è forte fisicamente è anche potente, io risponderei di sì. Se poi mi chiedessi se quelli che sanno lottare sono più potenti di quelli che non sanno lottare e se, dopo aver imparato, siano più potenti rispetto a quanto lo fossero prima di imparare, direi di sì.
Accettate queste cose, sarebbe possibile per te, usando le stesse argomentazioni di prima, dire che in base alla mia ammissione la sapienza è forza fisica. Io, invece, anche in questo caso, non dico che i potenti sono forti, ma solo che i forti sono anche potenti.
[351] Infatti la potenza e la forza fisica non sono la stessa cosa: una, la potenza, è frutto di studio e anche di follia e di passione, la forza fisica invece è un dono della natura ed è frutto della buona cura del corpo. Allo stesso modo anche nell’esempio di prima l’audacia e il coraggio non sono la stessa cosa: i coraggiosi sono sì audaci, ma gli audaci non sono certo tutti coraggiosi. L’audacia infatti è frutto, per gli uomini, di studio e anche di passione e di follia, come la potenza, mentre il coraggio è un dono della natura ed è frutto della buona cura dell’anima”.
“Protagora, pensi che alcuni uomini vivano bene e altri male?”
“Sì”.
“Ti sembra che un uomo vivrebbe bene se fosse tormentato e afflitto dal dolore?”
“No”.
“E se invece morisse dopo aver vissuto felicemente? Non ti sembra che abbia vissuto bene?”
“Mi sembra di sì”.
“Vivere con gioia è dunque bene, vivere afflitti da dolori è male”.
“Sì, purché si viva godendo delle cose belle”.
“Che dici, Protagora? Anche tu, come molti, consideri cattive alcune cose piacevoli e buone alcune cose dolorose? Io dico: le cose, in base al fatto che sono piacevoli, non sono forse anche buone, indipendentemente da quello che ne potrà derivare? E a loro volta ugualmente le cose dolorose, nella misura in cui sono dolorose, non sono anche cattive?”
“Non so, Socrate, se devo risponderti così su due piedi, in base a come poni la domanda, che le cose piacevoli sono tutte buone e le cose dolorose sono tutte cattive. Mi sembra però che, non solo in relazione all’attuale risposta, ma anche in relazione a tutta la mia vita, sia più prudente per me dire che alcune cose piacevoli non sono buone e che alcune cose dolorose non sono cattive, mentre altre lo sono; in terzo luogo alcune cose non sono né l’uno né l’altro, né buone né cattive”.
“Non chiami forse piacevoli quelle che partecipano del piacere e che lo procurano?”
“Senza dubbio”.
“Questo dunque intendo dire: in quanto piacevoli non sono forse anche buone? E il piacere in sé non è forse un bene?”
“Come tu dici ogni volta, Socrate, «esaminiamo la questione»: se la ricerca avrà lo stesso esito del nostro ragionamento e bene e piacere ci sembreranno la stessa cosa, ne converremo insieme; se no, allora ne discuteremo”.
“Vuoi condurre tu la ricerca o devo condurla io?”
“E’ giusto che conduca tu; tu infatti hai iniziato il discorso”.
[352] “Forse possiamo chiarire la questione in questo modo. Ad esempio, se qualcuno vuole esaminare una persona in base all’aspetto esteriore e vuole giudicarne lo stato di salute o qualche altra qualità del
corpo, dopo aver guardato il volto e le mani dice: «Su, spogliati e mostrami il petto e la schiena, perché io possa esaminarti con più accuratezza». Io voglio fare la stessa cosa per questa ricerca: vedendoti così disposto in relazione al bene e al piacere, come tu affermi, devo dirti: «Su, Protagora, svelami anche questo aspetto del tuo pensiero: che cosa ne pensi della scienza? La pensi come la maggior parte degli uomini o in un altro modo? Ai più la scienza sembra una cosa né forte né adatta a guidare né idonea a comandare; non solo le attribuiscono una natura tale, ma ritengono che spesso la scienza, pur essendo presente in un uomo, non riesca a guidarlo, ma che altre cose prendano il sopravvento: l’ira, il piacere, il dolore, l’amore, spesso la paura. La scienza è per i più come uno schiavo, trascinata qua e là da tutto il resto.
Anche per te è così o pensi che la scienza sia qualcosa di bello, che sia capace di guidare l’uomo, e che, se uno conosce il bene e il male, non sia trascinato da niente altro e agisca solo come ordina la scienza? Credi che l’intelletto sia sufficiente a portare aiuto all’uomo?»”
“Sembra che sia come tu dici, Socrate. Se è vergognoso per altri, figurati quanto lo è per me affermare che la sapienza e la scienza non sono le più potenti fra tutte le cose umane!”
“Parli bene e dici la verità. Sai però che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te: dicono che molti, anche se conoscono il bene, non vogliono metterlo in pratica, pur essendo possibile per loro, ma preferiscono agire secondo altri princìpi. Se io chiedo quale sia la causa di questo comportamento, rispondono che quelli che agiscono così lo fanno o perché vinti dal piacere o dal dolore o perché dominati da qualcuna delle passioni di cui parlavo poco fa”.
“Socrate, credo che anche in molte altre questioni gli uomini si sbaglino”.
[353] “Allora, preparati a convincere gli uomini insieme a me e a insegnare che cosa accade loro quando affermano di essere vinti dai piaceri e di non praticare per questo motivo il bene, benché lo conoscano. Se infatti noi dicessimo: “Non sono giuste le cose che dite, vi sbagliate” ci chiederebbero: “Protagora e Socrate, se quello che ci accade non è essere vinti dal piacere, allora che cosa è mai e che cosa pensate che sia? Ditecelo!»”
“Che bisogno c’è, Socrate, di esaminare l’opinione della massa, che parla a vanvera?”
“Credo che la ricerca consista nello scoprire in quale relazione si trovi il coraggio con le altre parti della virtù. Se dunque la pensi ancora come prima, cioè che sia io a condurre la ricerca come penso sia meglio, seguimi; se non vuoi, se lo desideri, lascerò stare”.
“Va bene; continua come hai cominciato”.
“Se ancora una volta ci chiedessero: «Che cosa pensate che sia quello che per noi è essere vinti dai piaceri?» Io risponderei: «Ascoltate: io e Protagora tenteremo di spiegarvelo. Non vi accade forse la stessa cosa quando siete trascinati dai cibi, dalle bevande e dagli amori, che sono piacevoli, e, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia cedete?»”
“Direbbero di sì”.
“E allora potremmo chiedere ancora: «In che senso affermate che sono cose cattive? Forse perché sul momento procurano piacere e perché ciascuna di loro è piacevole, o perché poi provocano malattie e povertà e molte altre cose simili? Oppure, anche se in futuro non procurano nessuna di queste cose, ma solo godimento, sarebbero pur sempre cattive, poiché, non importa in che modo, fanno godere chi le prova?» . Io credo, Protagora, che risponderebbero che queste cose non sono cattive in base al fatto che procurano piacere sul momento, ma per ciò che segue, le malattie e il resto”.
“Penso che molti risponderebbero così”.
“Essendo causa di malattie e di povertà non sono forse anche causa di dolori? Sarebbero d’accordo, mi pare”.
Protagora disse di sì.
“«Allora, in base al ragionamento mio e di Protagora, vi sembra che queste cose siano cattive per qualche altro motivo se non perché procurano dolori e ci privano di altri piaceri?”. Sarebbero d’accordo?».
[354] Eravamo entrambi della stessa opinione.
“Poi se domandassimo loro il contrario: «Quando affermate che ci sono alcune cose buone che sono anche dolorose, forse intendete gli esercizi ginnici, le campagne militari, le cure mediche, con le loro cauterizzazioni, tagli, medicamenti, diete, che sono tutte cose buone, ma dolorose?» Risponderebbero di sì?”.
Era d’accordo.
“«Forse allora definite buone queste cose perché sul momento procurano estreme sofferenze e dolori o perché in un momento successivo derivano da loro salute, benessere fisico, salvezza degli stati, dominio su altri e ricchezza?»
Sceglierebbero la seconda ipotesi, mi pare”.
Era d’accordo.
“«E queste cose sono buone per qualche altra ragione se non perché procurano piaceri e ci separano e ci allontanano dai dolori? O avete un altro criterio, in base al quale le considerate buone, che non siano i piaceri (che procurano) e i dolori (che allontanano)?» Direbbero di no, mi sembra”.
“Anche secondo me direbbero di no”.
“«Perciò inseguite il piacere come un bene e fuggite il dolore come un male?»”
Protagora era d’accordo.
“«Ritenete dunque che il dolore sia un male e che il piacere sia un bene. Inoltre considerate un male la stessa gioia intensa, se ci priva di piaceri più grandi di quelli che esso stesso procura o ci causa dolori più grandi dei piaceri che contiene. Se la considerate un male per qualche altro motivo e in virtù di un altro criterio, dovreste dirlo anche a noi, ma non vi sarà possibile””.
“Neppure secondo me è possibile”.
“«Non possiamo fare le stesse considerazioni anche sulla sofferenza? Non considerate forse un bene la
sofferenza, se allontana dolori più grandi di quelli che contiene o procura piaceri più grandi dei dolori? Se però, considerando la sofferenza un bene, avete presente un criterio diverso da quello che dico, dovete dircelo; ma non potrete»”.
“Dici la verità”.
“«E ancora, se voi mi chiedeste: ‘Perché la fai tanto lunga?’ ‘Perdonatemi’- direi. Infatti non è facile dimostrare che cosa sia mai quello che voi definite ‘essere vinti dai piaceri’; da questa derivano poi tutte le altre dimostrazioni». [355] Potete ancora cambiare opinione, se siete capaci di sostenere che il bene sia una cosa diversa dal piacere, o che il male sia una cosa diversa dal dolore; oppure a voi basta vivere felicemente la vita senza dolori? Se vi basta e se per voi bene e male non sono altro che ciò che conduce al piacere o al dolore, ascoltate cosa ne consegue. Infatti vi dico che, se le cose stanno così, il ragionamento diventa ridicolo. Voi affermate che spesso l’uomo, pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa, pur essendo possibile non farlo, trascinato e sconvolto dai piaceri; poi dite che l’uomo, pur conoscendo il bene, non vuole farlo, vinto dai piaceri del momento”.
Che tutto questo sia ridicolo, sarà evidente se non useremo molti nomi contemporaneamente, ‘piacere’, ‘dolore’, ‘bene’ e ‘male’: poiché sembra che si tratti di due cose, chiamiamole con due nomi, in primo luogo ‘bene’ e ‘male’ e poi ‘piacere’ e ‘dolore’. Stabilito questo, diciamo: l’uomo pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa. Se qualcuno ci chiedesse: «Perché?» «Perché è vinto» diremmo; «Da cosa?» quello ci domanderà; per noi non sarà più possibile dire «dal piacere», poiché adesso il piacere ha cambiato nome e si chiama ‘bene’. Allora gli risponderemo e diremo: «Perché è vinto»; «Da cosa?» dirà; «Dal bene, per Zeus!» diremo. Se il nostro interlocutore è un po’ arrogante, riderà e dirà: «È davvero ridicolo quello che dite, se affermate che qualcuno fa il male, pur sapendo che è male e pur non essendo lecito farlo, perché è vinto dal bene. Per voi il bene può o non può vincere il male?». E’ evidente che dovremmo rispondere che non può, se che chi è vinto dai piaceri compie il male. «In che cosa – dirà forse – i beni sono inferiori ai mali e i mali ai beni? Forse in base al fatto che gli uni sono più grandi, gli altri più piccoli? O che gli uni sono di più e gli altri di meno?» Non potremmo che essere d’accordo. «E’ evidente dunque – dirà – che per voi ‘essere vinti’ significa scegliere mali maggiori in cambio di beni minori». Su questo siamo d’accordo. Attribuiamo ancora una volta i nomi di ‘piacere’ e ‘dolore’ a queste stesse cose e diciamo: l’uomo fa cose dolorose – prima dicevamo ‘cose cattive’ – pur sapendo
che sono dolorose, vinto dai piaceri, che evidentemente non sono in grado di prevalere.
[356] E in cosa altro il piacere è inferiore rispetto al dolore, se non per l’eccesso o per il difetto dell’uno rispetto all’altro? Piaceri e dolori possono essere reciprocamente più grandi o più piccoli e più o meno numerosi, in maggiore e in minore intensità. Se poi qualcuno dicesse: «C’è però molta differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il dolore o il piacere futuri!” «E questa differenza consiste in qualcos’altro se non nel piacere e nel dolore? No di certo. Tu, come un bravo pesatore, dopo aver raccolto il piacere e il dolore e aver aggiunto sul piatto della bilancia la vicinanza e la lontananza nel tempo, dimmi quale dei due piatti è più pesante. Se infatti poni a confronto i piaceri con i piaceri, devi
sempre scegliere i più grandi e i più numerosi; se invece poni a confronto i dolori con i dolori, devi scegliere i meno numerosi e i più piccoli. Se poi poni a confronto piaceri e dolori, nel caso in cui i dolori siano superati dai piaceri, e se i dolori vicini sono superati dai piaceri lontani e i dolori lontani sono superati dai piaceri vicini, devi orientare la scelta laddove c’è l’eccedenza; qualora invece i piaceri siano superati dai dolori, bisogna rinunciarvi. Le cose stanno così o in un altro modo?». So che non potrebbero rispondere diversamente”.
Anche lui era d’accordo.
“«Poiché le cose stanno così, rispondetemi a questa domanda: una stessa grandezza vi appare maggiore da vicino e minore da lontano, o no?»”
“Diranno di sì”.
“«E lo stesso accade per il volume e la quantità? E voci di uguale intensità non sono forse più forti da vicino, più deboli da lontano?»”
“Direbbero di sì”.
“«Se dunque per noi questo fosse l’agire bene, fare e scegliere le cose grandi, fuggire e non fare
le cose piccole, quale vi sembrerebbe la salvezza della vita? L’arte della misura o il potere dell’apparenza? L’apparenza forse ci ingannerebbe e ci farebbe spesso prendere e lasciare senza criterio le stesse cose e pentirci, sia quando agiamo, sia quando scegliamo le cose grandi e piccole. L’arte della misura, invece, renderebbe vana l’illusione dell’apparenza e, dopo aver mostrato la verità, farebbe in modo che l’anima, accanto alla verità, fosse tranquilla e ci salverebbe la vita”. Gli uomini sarebbero d’accordo sul fatto che l’arte della misura ci potrebbe salvare oppure affermerebbero che è un’altra arte a salvarci?”.
“Direbbero che è l’arte della misura”.
“«Cosa accadrebbe se la salvezza della vita per noi dipendesse dalla scelta tra il pari e il dispari (che consiste poi nel capire quando sia giusto scegliere il più e quando il meno, o preso per sé o in relazione ad altro, sia che sia vicino, sia che sia lontano)? Che cosa ci salverebbe la vita? Non sarebbe forse la scienza? [357] E non sarebbe proprio la scienza della misura, poiché è un’arte che riguarda l’eccesso e il difetto? E la scienza del pari e del dispari non è forse l’aritmetica?»Tutti sarebbero d’accordo con noi, o no?”. Anche a Protagora sembrava che sarebbero stati d’accordo.
“«Bene; poiché ci è sembrato che la salvezza della vita risieda nella giusta scelta fra piacere e dolore – fra il più numeroso e il meno numeroso, fra il più grande e il più piccolo, fra il più lontano e il più vicino – questa non è forse una forma di misura, poiché è una ricerca dell’eccesso e del difetto e della reciproca uguaglianza fra piaceri e dolori?»”
“Necessariamente”.
“Poiché è una misura, deve essere anche un’arte e una scienza”.
“Saranno d’accordo”.
“«Esamineremo in un secondo momento di quale arte e di quale scienza si tratti; per la risposta mia e di Protagora alla vostra domanda basta sapere che è una scienza. Se ricordate, avete iniziato a farci domande quando io e Protagora abbiamo concordato che nulla è più forte della scienza e che questa domina tutto, dovunque sia, il piacere e tutte le altre cose; voi, invece, affermavate che spesso il piacere ha in suo potere anche l’uomo sapiente. Poiché noi non eravamo d’accordo con voi, ci avete chiesto: ‘Protagora e Socrate, se ciò che accade in questi casi non è essere vinti dal piacere, che cosa è mai e che cosa voi dite che sia? Ditecelo!’. Se subito vi avessimo risposto ‘l’ignoranza’ avreste riso di noi; ora
invece, se rideste di noi, ridereste anche di voi stessi. Infatti voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta fra i piaceri e i dolori – cioè fra il bene e il male – sbaglia per mancanza di scienza, e non solo di scienza in generale, ma anche di quella che abbiamo chiamato arte della misura: un’azione sbagliata per mancanza di scienza sapete forse anche voi che avviene per ignoranza. Dunque ‘essere vinti dal piacere’ non è altro che la più grande ignoranza, di cui Protagora, qui presente, dice di essere medico, come pure Prodico e Ippia; voi però, poiché credete che non si tratti di ignoranza, né andate voi stessi
né mandate i vostri figli dai maestri di queste cose, dai sofisti, come se l’arte di cui parlavamo non fosse insegnabile. Preoccupandovi solo dei vostri soldi e non dandoli a questi maestri, agite male sia nel vostro interesse che in quello della città». [358]
Questo avremmo potuto rispondere ai più; ora insieme a Protagora chiedo a voi, Ippia e Prodico (infatti il discorso è rivolto anche a voi), se vi sembra che io dica la verità o che sbagli”.
Straordinariamente a tutti sembrava che le cose dette fossero vere.
“Anche per voi dunque, il piacere è bene, il dolore è male. Tralascio la sottile distinzione di nomi che fa Prodico: sia infatti che tu lo chiami piacere, diletto, gioia intensa, o come a te piace, caro Prodico, rispondimi a tono”.
Dopo aver riso Prodico fu d’accordo e anche gli altri.
“E che pensate allora di questa affermazione: tutte le azioni che tendono a una vita senza dolore e piacevole, non sono forse belle? E un’azione bella non è forse buona e utile?”
Erano d’accordo.
“Se dunque il piacere è bene, nessuno farebbe le cose che fa se sapesse e credesse che esistano altre cose migliori che sarebbe possibile fare; e essere vinti da se stessi non è altro che ignoranza, mentre dominare se stessi non è altro che sapienza”.
Tutti erano d’accordo.
“E poi? L’ignoranza non consiste forse nell’avere una falsa opinione e ingannarsi su questioni importanti?”
Anche su questo tutti erano d’accordo.
“Non è forse così? Nessuno volontariamente tende al male né a ciò che ritiene essere male, e non è nella natura umana, mi pare, andare volontariamente verso ciò che si ritiene male, invece del bene. Quando infatti si è costretti a scegliere uno fra due mali, qualcuno sceglierà forse il più grande, pur essendo possibile scegliere il più piccolo?”
Su tutte queste cose eravamo d’accordo.
“Che cosa sono per voi timore e paura? Quello che sono per me? Mi rivolgo a te, Prodico. Per me timore e paura – usate il nome che preferite – consistono in una indefinibile attesa del male”.
A Protagora e a Ippia sembrava che il timore e la paura fossero questo, a Prodico invece sembrava che il timore fosse questo, ma la paura no.
“Prodico, non c’è alcuna differenza! Ecco la cosa importante: se le affermazioni di prima sono vere, forse qualcuno si dirigerà volontariamente verso le cose che teme, pur essendo possibile andare in un’altra direzione? Oppure questo è impossibile, se è vero quello che abbiamo detto prima? Infatti abbiamo concordato che ciò che si teme rappresenta un male e che nessuno volontariamente va verso il male né lo sceglie”.
[359] Anche su queste cose tutti erano d’accordo.
“Stabilito ciò, Prodico e Ippia, Protagora ci giustifichi come le risposte di prima possano essere giuste secondo lui. Non mi riferisco alle prime risposte che ha dato; infatti in un primo momento aveva detto che, delle cinque parti della virtù, nessuna è simile all’altra, ma che ognuna ha una sua funzione. Non mi riferisco a questa affermazione, ma a ciò che ha detto in seguito. Infatti poi ha detto che quattro parti della virtù sono abbastanza simili fra loro, mentre una, il coraggio, si differenzia molto e ha aggiunto che io avrei potuto capirlo da questa dimostrazione: «Infatti, Socrate, troverai uomini che sono in tutto empi, ingiusti, sregolati e ignoranti, ma molto coraggiosi; da ciò riconoscerai che il coraggio è molto diverso dalle altre parti della virtù». E io subito mi meravigliai della risposta, e ancor più dopo che abbiamo discusso queste cose con voi. Di seguito gli domandavo se ritenesse audaci i coraggiosi; e quello: «Sì, e anche temerari». Ricordi, Protagora, di aver risposto così?”
Disse di sì.
“Su, spiegaci: di fronte a cosa i coraggiosi sono temerari? Alle stesse cose di fronte a cui i vili sono vili?”
“No”.
“Allora di fronte a cose diverse?”
“Sì”.
“I vili si dedicano a imprese sicure, mentre i coraggiosi a quelle pericolose?”
“Socrate, così affermano i più”.
“È vero, ma non è questo che mi interessa. Di fronte a cosa tu affermi che i coraggiosi sono temerari? Di fronte alle imprese pericolose, sapendo che sono pericolose, o di fronte a quelle che non lo sono?”
“In base ai nostri ragionamenti è stato dimostrato che la prima ipotesi è impossibile”.
“Anche questo è vero; infatti, se quello che abbiamo detto è giusto, nessuno va verso un pericolo che conosce, poiché è stato dimostrato che essere vinti da se stessi è ignoranza”.
Protagora era d’accordo.
“Invece tutti scelgono le cose in cui si sentono sicuri, sia i vili che i coraggiosi, così che sotto questo aspetto i vili e i coraggiosi si orientano verso le stesse cose”.
“Però, Socrate, le cose verso cui si volgono i vili e i coraggiosi sono sotto molti aspetti differenti. Per esempio i
coraggiosi vogliono andare in guerra, i vili no”.
“E’ bello o no andare in guerra?”
“E’ bello”.
“Se dunque è bello, in base ai discorsi di prima è anche buono: infatti abbiamo convenuto che tutte le azioni belle sono anche buone”.
“E’ vero, e anche ora la penso così”.
[360] “Va bene. Ma chi sono secondo te quelli che non vogliono andare in guerra, pur essendo una cosa bella e buona?”
“I vili”.
“Se dunque è una cosa bella e buona è anche piacevole?”
“Così abbiamo concordato”.
“E allora i vili, pur essendone a conoscenza, non si dirigono volontariamente verso ciò che è più bello, migliore, più piacevole?”
“Ma, se ammettiamo anche questo, annulliamo quello che abbiamo concordato prima”.
“E cosa fa invece il coraggioso? Non si muove forse verso ciò che è più bello, migliore e più piacevole?”
“Sì”.
“Dunque, in generale, i coraggiosi non hanno, quando temono, vergognose paure, e quando sono arditi non hanno vergognose audacie”.
“E’ vero”.
“Se non sono sentimenti vergognosi, non sono forse belli?”
Era d’accordo.
“Se sono belli, non sono anche buoni?”
“Sì”.
“Invece i vili, gli audaci e i folli non hanno forse, al contrario, vergognose paure e vergognose audacie?”
Era d’accordo.
“E sono arditi in azioni vergognose e cattive per nient’altro che per incoscienza e ignoranza”.
“E’ così”.
“E allora? Ciò per cui i vili sono vili, per te è viltà o coraggio?”
“Viltà”.
“E i vili non lo sono forse perché ignorano le cose da temere?”
“Certo!”
“Dunque a causa di questa ignoranza sono vili?”
Era d’accordo.
“Ciò per cui sono vili per te è viltà?”
Disse di sì.
“Dunque la viltà non è altro che l’ignoranza delle cose da temere e da non temere”.
Annuì.
“Ma allora il coraggio è il contrario della viltà”.
Disse di sì.
“E la sapienza delle cose da temere e da non temere è contraria alla loro ignoranza?”.
Ancora una volta a questo punto annuì.
“E l’ignoranza di queste cose non è viltà?”
A questa domanda annuì malvolentieri.
“E la sapienza delle cose da temere e da non temere non è forse coraggio, che è il contrario della loro ignoranza?”
A questo punto non volle più annuire e rimaneva in silenzio.
“Perché, Protagora, non rispondi né sì né no alla mia domanda?”
“Concludi tu stesso”.
“Non prima di averti chiesto una sola cosa, se, come prima, ancora sei convinto che esistano uomini molto ignoranti, ma molto coraggiosi”.
“Socrate, tu insisti perché io risponda; allora ti farò contento, dicendoti che, in base a ciò che abbiamo concordato, questo mi sembra impossibile”.
“Io faccio tutte queste domande solo per un motivo: voglio esaminare come stanno le cose riguardo alla virtù e che cosa
sia mai la virtù. [361] Infatti so che, stabilito questo, subito si chiarirebbe la questione su cui tu e io, a turno, abbiamo tenuto un lungo discorso: io sostenevo che la virtù non fosse insegnabile, tu invece sostenevi che lo fosse. A me sembra che ora l’esito dei nostri discorsi, come una persona in carne e ossa, ci accusi e ci derida; infatti, se potesse parlare, ci direbbe: «Siete proprio strani, Socrate e Protagora: tu, che prima dicevi che la virtù non è insegnabile, ora ti vuoi contraddire a tutti i costi, tentando di dimostrare che tutto è scienza, la giustizia, la saggezza e il coraggio. In questo modo potrebbe risultare allora che la virtù è insegnabile. Se infatti la virtù fosse altro dalla scienza, come Protagora tentava di dire, evidentemente non sarebbe insegnabile; ora, se risulterà che la virtù in tutto è scienza, come ti sforzi di sostenere, Socrate, ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse insegnabile. Protagora, a sua volta, che prima sosteneva che la virtù è insegnabile, ora invece si sforza di dimostrare il contrario, cioè che questa tutto sembra, tranne che scienza; e in questo modo non sarebbe minimamente insegnabile». Io dunque, Protagora, vedendo che le parti si stanno capovolgendo, desidero soprattutto che tali questioni si chiariscano. Vorrei che noi, che abbiamo esaminato tutte queste cose, giungiamo poi a definire cosa sia la virtù e se sia insegnabile o no, non lasciandoci indurre in errore dall’inganno di Epimeteo, che trascurò noi uomini anche nella distribuzione, come tu dici. Nel mito Prometeo mi è piaciuto più di Epimeteo; così io, servendomi di questo esempio e cercando di gestire con cura la mia vita, mi occupo di tutte queste cose e, se tu vuoi, cosa che dicevo anche all’inizio, le esaminerei molto volentieri insieme a te”.
E Protagora: “Io, Socrate, apprezzo la tua intenzione e il modo in cui procedi nei tuoi ragionamenti. Credo per molti aspetti di non essere una persona cattiva e per nulla invidiosa degli altri; infatti anche su di te ho pubblicamente affermato che, tra le persone che in genere incontro, apprezzo te più di tutte, in particolar modo fra i tuoi coetanei; dico pure che non mi meraviglierei se tu fossi considerato uno dei sapienti. Ma su queste cose torneremo un’altra volta, quando vuoi; ora è ormai tempo di dedicarsi ad altro”.
[362] “Dobbiamo fare così, se tu vuoi. Infatti anche per me è ora di andare dove dicevo poco fa: sono rimasto solo per fare un piacere al bel Callia”. Dette e ascoltate queste cose ce ne andammo.
Tratto da: Platone, Protagora, (Trad. it. di M.E. Gabrielli e M. Palma)
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