Abito a Firenze da quattordici giorni.
Sul Lungarno Serristori, non lontano dal Ponte alle Grazie, si trova la casa di cui mi appartiene il terzo piano, sia nella parte coperta sia nell’altra, vastissima. La camera in sé è soltanto l’atrio (comprende anche la scala che dal terzo piano porta in alto), la vera dimora è rappresentata dall’alta e spaziosa terrazza di pietra, magnifica al punto che potrei abitarla e persino ricevervi degnamente un ospite di riguardo. La parete della stanza all’esterno è coperta a profusione da rose gialle cariche di profumo e da piccoli fiori gialli non dissimili dalle roselline; solo che questi salgono lungo le alte spalliere un poco più quieti e obbedienti, a due a due, quasi come angeli di fra’ Fiesole del Giudizio Universale. In vasi di pietra davanti a questi muri si sono destate molte viole del pensiero, che come caldi, vigili occhi seguono l’attività e il riposo delle mie giornate. Vorrei essere sempre tale che quelle non abbiano a stupire di me e che almeno nelle mie ore più profonde appaia come un essere a loro affine da molto tempo; un essere la cui ultima fede è una solenne e luminosa primavera e insieme, molto più lontano, un bel frutto pesante. Ma come sbiadisce la magnificenza di questa parete rispetto allo splendore dei tre altri lati, dinanzi ai quali pende il paesaggio ampio, caldo, un po’ stilizzato dalla debolezza della mia vista che può cogliere soltanto accordi di colore e incontri di linee! Ricco il mattino nel fulgore di cento speranze, quasi vibrante di attesa impaziente, ricco a mezzogiorno, sazio, carico di doni e pesante di una nuda chiarezza e di una celeste profondità nella sera che si spegne. Comincia l’ora in cui la luce diventa di un blu d’acciaio e le cose si affilano su di essa. Più snelle sembrano levarsi le torri dalla folla delle cupole e i merli del Palazzo della Signoria sono come irrigiditi nel loro antico orgoglio. Finché il silenzio si copre di stelle e la luce soave mitiga di nuovo ogni cosa con la sua dolce tenerezza. La quiete crescente colma di sé come un fiume profondo strade e piazze e tutto dopo breve lotta vi scompare dentro: e alla fine è vivo solo un colloquio, uno scambio di domande e di oscure risposte, un vasto fremito che si completa: l’Arno e la Notte. È l’ora della nostalgia più intensa; e se poi giù in fondo una canzone melanconica sogna sul mandolino, non si pensa di attribuirla a un uomo: è come se tutto salisse dritto da quell’ampio paesaggio che non può più tacere nella sua nostalgica, rara felicità. Esso canta come una donna sola che a notte fonda fa risuonare il nome dell’amato lontano cercando, in quella povera e angusta parola, tutta la sua tenerezza, il suo ardore, tutti i tesori della sua profonda natura.
Decorativi all’estremo sono invece i tramonti. Sopra le Cascine è l’ultimo morente bagliore, e il Ponte Vecchio, su cui le vecchie case sembrano nidi, si infila come un nastro nero in una seta giallo-sole. La città si spiega in pacati toni grigio-bruni, mentre i colli di Fiesole già portano i colori della notte. Soltanto San Miniato al Monte ha ancora sole sul volto semplice e amabile, e io non tralascio mai di cogliere il suo ultimo sorriso come una perfetta lieve grazia.[…]
Rainer Maria Rilke, Il diario fiorentino, trad.it. Giorgio Zampa, Milano 2011
Prima edizione Das Florenzer Tagebuch [17.5.1898], in Rainer Maria Rilke, Tagebücher aus der Frühzeit, Lipsia 1942
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