«Non c’è motivo di non essere tristi», scriveva Cioran in un’opera giovanile. E invece uno ce n’è: l’apparizione di un uomo come lui! Si dovrebbe essere convinti dal suo pessimismo, ma come esserlo fino in fondo se, per convincerci, ricorre a mezzi letterari così affascinanti, così corroboranti? Improbabile che qualcuno si sia suicidato con un libro di Cioran fra le mani. Di solito il pessimismo è di cattivo gusto: è positivista, perfettamente sicuro di sé, chiama le cose per nome. «Siamo i convinti — scriveva Barrès a proposito dei barbari dello spirito — abbiamo dato il nome ad ogni cosa». Quando Flaubert scrive a un’amica che gli capita di vedere in lei lo scheletro, viene voglia di esclamare: «Suvvia, baciatela e fatela finita con queste sciocchezze». Di gran lunga più profonda ci appare la riflessione, sempre di Cioran giovane, davanti a uno scheletro umano: «Pezzo d’idiota!». Qui si tratta veramente di un giudizio sul destino umano, e non del semplice graffio di un decadente, quale Flaubert è stato in fatto di amore e di spirito.
Ma anche i giudizi sulla vita umana possono suonare falsi. Tutta una civiltà per altri versi nobile e profonda, come quella indiana, ha avuto la cattiva ispirazione e in fondo il cattivo gusto di basarsi sulla convinzione che l’universo umano significhi sofferenza. Da quale medicina dell’assoluto scaturisce una diagnosi tanto precisa? Forse dall’idea che l’individuazione è un male e che bisogna reintegrarsi nel grande Tutto; ma in tal caso gli indiani avrebbero ritrovato «l’idea», forse addirittura la cultura nella sua vasta insicurezza, e in tal modo sarebbero perduti, loro e la loro presunta esattezza. Analoga, eppure di natura tale da salvarlo e da salvare la sua opera («Quello che mi salverà sarà il mio lato Mozart», diceva Cioran), è la perdita di sé vissuta dal nostro contemporaneo. Non so di nessun altro in cui i mezzi contraddicano a tal punto i fini. Egli ha ripudiato quella cultura che in realtà lo ren-deva possibile. L’ha contestata, ma la cultura s’è nascosta dietro di lui, come l’angelo di certi dipinti che, alle spalle del santo, gli detta il suo testo.
Non potremmo paragonare la forza della cultura al concetto hegeliano, confermato da tutto ciò che lo smentisce? E la cultura non è simile a un virus che penetra nella cellula vivente e trasforma il codice generico di quella nel suo stesso codice? Nel codice intimo del suo essere, Cioran ha lasciato penetrare il virus della cultura. E che mirabile lavoro vi ha compiuto! «Ad onta della convinzione che tutto a questo mondo è inutile», dice di non poter fare a meno, lui, il pessimista, di elogiare gli entusiasti. E altrove: «Vivo una volta sola nella storia e ho il diritto di guardare le cose in faccia, con il più grave rischio». Ma di che rischio si trattava, ci chiediamo, se non di affrontare l’intollerabile con le armi della cultura e, alla fine, trasformare in preghiera la bestemmia? A quel tempo scriveva anche: «Solo la morte ci rende veramente immortali. Ma perché rinunciare per questo alle illusioni di immortalità che ci offre la vita?». A vent’anni, era intriso delle illusioni che solo la cultura può alimentare. Ricordo che l’espressione del suo volto mi aveva colpito prima ancora che lo conoscessi come collega di studi. Alla biblioteca dell’Università di Bucarest, quando suonava il campanello della chiusura, vedevo staccarsi lentamente dal nulla dei libri («Ho passato in rassegna tutta la sciocca filosofia tedesca», mi avrebbe confessato più tardi) un volto allucinato. Eppure aveva passato in rassegna anche il resto, quel miracoloso resto della cultura vivente. Quando, col nostro gruppo di studenti, siamo arrivati alla conferenza sul disarmo del 1931 (disarmo! 1931!) a Ginevra, progettavamo solo di fare il giro del lago e visitare la villa di Byron.
L’amico Cioran ci ha fatto salire nel luogo da cui l’intransigente Calvino dominava i fedeli; ha sempre avuto un debole per i superuomini e per le loro fragili vittorie. Un’altra volta, a Venezia, mentre noi volevamo visitare piazza San Marco, fu ancora lui a insistere perché andassimo a vedere la statua di Colleoni. Conosceva e amava i vincitori, ma anche le grandi vittime o i deboli con l’impronta del genio. Noi sapevamo a malapena qualcosa di Chateaubriand e lui s’era già soffermato sul destino del «cognato» Chénedollé. Era particolarmente attento al dramma psicologico dei grandi, come Shelley, per leggere il quale aveva studiato con passione l’inglese, o come l’imperatrice Elisabetta d’Austria, l’enigmatica moglie di Francesco Giuseppe. Se essere colti significa sapere tutto quello che sanno gli altri e qualcosa di più, Cioran ci ha sempre stupiti con questo semplice «di più». Così ha stupito il direttore dell’Istituto francese di Bucarest, Alphonse Dupront, che ci aveva assegnato le borse di studio, parlandogli non già degli studi universitari, ma del nord della Francia che aveva percorso in bicicletta, di villaggio in villaggio, con l’interesse di un conoscitore della storia francese. Fu allora (nel 1938) che il direttore prolungò quella borsa che doveva rappresentare il suo certificato di residenza definitiva in Francia.
D’altra parte a quell’epoca aveva già fatto sua la grande arte francese della conversazione, al punto che, sentendolo, il segretario di Hélène Vacaresco ebbe a dichiarare: «Solo dalla contessa di Noailles ho ascoltato una conversazione così brillante». Che peso poteva avere la disperazione su un’anima in cui il virus della cultura aveva lavorato così bene? O forse si trattava di una disperazione totale, raffinata e trasfigurata dalla cultura umana. Quasi sicu-ramente le opere di Cioran, nel loro lato negativo e sotto l’ascesi dell’aforisma, non rendono giustizia a quanto c’è di positivo in quell’intelligenza divorante. Lo attesteranno comunque le sue lettere. Quelle scritte a Mircea Eliade ci sono rimaste. Ma quelle spedite a Beckett, a Michaux, a Gabriel Marcel e a qualche altro grande? Di sicuro non sono il parto di un’anima rozza e disorientata.
Il modo stesso in cui Cioran condanna la bellezza del mondo e della cultura finisce con l’esaltarla. Quando sono arrivato a Parigi, un anno dopo di lui, e gli ho chiesto come fare per conoscerne le bellezze, la risposta è stata: «Considera attentamente la strada in cui abiti». Era una strada di poche decine di metri, con delle case simili a tutte le altre della città, la rue du Préaux-clercs. Ho pensato che non gli importasse molto di Parigi e che si prendesse gioco di me. Dopo un anno, ho capito. Ho capito la suggestione che emanava dal nome della stradina: erano stati proprio dei chierici, dei messaggeri dello spirito, a costruire la città. E in fondo tutta la cultura non è altro che un giardino dei chierici. Cioran stesso è un chierico, addirittura un prete. Eppure ha creduto di poter gettare via la tonaca. E riuscito solo in un caso: quello della filosofia. Da giovane aveva letto tutta la «sciocca» filosofia dei commentatori tedeschi e non sentiva più il desiderio di tornare ai grandi.
Eppure la filosofia, come tutta la cultura, investe anche quelli che la contestano. E Cioran la contesta davvero! Ecco quanto scrive nei Sillogismi dell’amarezza «A che pro frequentare Platone, quando anche un sassofono può farvi intravedere un altro mondo». Davvero? si è tentati di replicare. Ma è proprio quello che afferma Platone: non si tratta di un altro mondo, di un mondo dell’al di là, semmai di un mondo al di qua, una matrice del reale, qualcosa di più profondo della cosa stessa a cui non danno accesso né il sassofono, né i santi che Cioran tanto ama, né Mozart; semmai il delirio filosofico, con Platone, sant’Agostino e anche Kant. Cioran del resto conosceva a fondo Kant — ancora giovane, parlava dello «schematismo dei concetti puri». E conosceva bene anche le sue abitudini, da giovani ridevamo insieme del fatto che il vegliardo di Kònigsberg tenesse sul suo scrittoio la Logica di Tetens. Lui sapeva anche di Tetens, che nessuno oggi cita più. E del resto ho sempre rimpianto di non aver commentato insieme a Cioran i quattro tipi di «nulla» che Kant menziona alla fine della Logica trascendentale.
E proprio da simili «nulla» che scaturiscono la filosofia e la coscienza, anche o per l’appunto la coscienza del nulla di cui Cioran parla quando scrive: «La iattura dell’uomo è di non potersi definire rispetto a qualcosa». Viene fatto di chiedersi: chi l’ha avvertito di questo, se non la filosofia? E quando esclama: «Essere ad ogni istante ai margini di se stessi», non è in piena filosofia, con Fichte e l’esistenzialismo che ha saputo anticipare? Pure Cioran ha rifiutato la filosofia di cui era intriso. Da un certo punto di vista, la sua eccezionale comprensione del fenomeno artistico (su cui c’è da rammaricarsi che abbia scritto così poco) gli dava il diritto di farlo, considerata l’eccessiva sicurezza che la filosofia può conferire, talvolta ignorando ogni altra forma di creazione umana. Non ha voluto sbagliare in questo senso; la contropartita è stata il suo vagabondaggio attraverso le arti, simile al suo peregrinare attraverso i destini umani e le catastrofi dello spirito. Come ogni figliol prodigo dello spirito, cercava l’amore; non ha avuto la pazienza di trovare nella filosofia l’amore dell’idea per il reale, e ha creduto di trovarlo nella santità e nella musica.
Non ammetteva la presunta separazione dell’idea speculativa rispetto al reale. Ma la separazione nasce appunto dall’aspirazione alla trascendenza, dalla ricerca dell’aldilà. Ciò che è al qua di noi, ciò che ci rende possibili, l’immanente è stato chiamato dopo Kant, non è altro che amore, seduzione, maternità, mentre il trascendente resta inaccessibile, freddo, povero di amore, addirittura vano. E così Cioran è restato col più vano, ma anche col più profondo degli amori che l’uomo possa provare, l’amore per il discorso, il folle discorso per aforismi. E ha scelto la più cartesiana delle lingue — lui che, nel 1933, aveva scritto: «Bisogna farla finita col senso francese dell’esistenza, con questa chiarezza che non chiarisce nulla, che non si irraggia, non avendo nemmeno la seduzione della luce crepuscolare». Ed è rimasto con la lingua della perfetta salute dello spirito, nella quale gli è piaciuto trasfondere il succo delle morbosità crepuscolari.
In fin dei conti, se ci si chiedesse, che cosa ha detto in fondo con i suoi discorsi e le sue parole, abbaglianti come un lampo non accompagnato da alcun tuono, si dovrebbe ammettere che ha detto proprio quello che si nasconde a se stessi: che la cultura, e anche la natura, sono solo delle mistificazioni. La natura infatti ci inganna. Con le sue configurazioni passeggere, nasconde il fatto di essere, in fondo, solo un mondo di campi elettromagnetici. E la cultura riesce a dissimulare il fatto di essere solo un modo diverso di chiamare le cose, invece di ammettere che tutto è vanità. Gli unici che lo dicono sono i poeti. Quanto al resto, ci si nasconde dietro la cultura senza neanche ammettere che le scienze dell’uomo, la storia come la filosofia, non hanno scoperto o instaurato alcun ordine umano, mentre le scienze esatte hanno riscontrato dovunque un’irrevocabile tendenza al disordine finale. Il messaggio di Cioran è perfettamente coerente con un capitolo della fisica contemporanea, la termodinamica, i cui tre principi, secondo uno scienziato inglese dotato di senso dell’umorismo, si riducono semplicemente a: I. È impossibile vincere (legge della conservazione); 2. Si è sicuri di perdere (legge dell’entropia); 3. È impossibile uscire dal gioco. In questo senso, la fisica stessa non sa dire niente di diverso dall’Ecclesiaste — e dal nostro contemporaneo Cioran.
Egli ci riporta a quanto di più profondo abbiano ottenuto le investigazioni scientifiche dell’uomo dopo secoli di fulgidi successi. È tutto? Non è tutto, neanche in Cioran. Forse la sua parte di silenzio nasconde le cose migliori che egli aveva da dire, proprio come Sissi, l’imperatrice d’Austria, nascondeva il bel viso dietro un ventaglio. Cioran ha semplicemente rifiutato di scrivere le grandi opere che portava in sé, come ha rifiutato di brillare nei salotti, nelle sale di redazione o nei caffé parigini, come ha rifiutato tutti i premi francesi e stranieri che gli sono stati assegnati. Una volta, in gioventù, probabilmente in occasione di una felice esperienza di vita, mi aveva scritto: «La gloria fra quattro mura supera lo splendore degli imperi». Posso assicurare in tutta sincerità, che la gloria di Cioran fra quattro mura è maggiore del successo che gli è stato tributato.
Tratto da: L’amico lontano, Constantin Noica, Agosto 1985