L’ideale del Paradiso Terrestre, quale modello di un paesaggio in cui gli interventi dell’uomo non siano interventi-per-la-produzione, interventi utilitari, ma siano interventi-per-la-contemplazione, interventi estetico-metafisici, è l’ideale di una completa coincidenza di paesaggio e giardino: tutto il paesaggio come un giardino. Per ripetere una bella immagine dello Jellicoe: tutti i diversi fili dell’umanità intessuti in un unico tappeto del giardino del paradiso. Al polo opposto di questo ideale, sta, come sappiamo, la prospettiva di una terra interamente sottratta così al paesaggio come al giardino, una terra dalla quale l’urbanizzazione totale abbia fatto scomparire ogni residuo di paesaggio. E naturalmente, diciamo paesaggio nel senso che abbiamo cercato di definire quando la presente ricerca era ancora al suo esordio: natura che in quanto oggetto di esperienza estetica si costituisce ad immagine finita dell’infinito, spazializzando in sé la propria assoluta temporalità – con esclusione, dunque, dal nostro discorso, della nozione di paesaggio industriale, che Jellicoe peraltro ammette, sia pure come una semplice possibilità.
Una terra senza paesaggio, perché interamente urbanizzata ed industrializzata, è anche (non ci dovrebbe esser bisogno di dirlo) una terra senza giardini, giacché l’urbanizzazione totale, la totale industrializzazione non sopportano la destinazione di più o meno ampie porzioni del suolo, sia esso pubblico o privato, alla modellazione della natura come materia d’arte – e cioè a quel non produttivo, e perciò antieconomico, autofinalizzarsi dell’apparenza come oggetto di contemplazione avente valore in se stesso e per se stesso, che è la meta cui aspira chiunque faccia arte. Ed è quello che tutti all’arte chiediamo: non altro essendo, l’opera d’arte, (in questo caso: il giardino) se non una forma che l’uomo ha data alla materia per farne l’oggetto di una esperienza privilegiata rispetto alle altre, perché ha in se stessa la propria ragione ed il proprio scopo, e pertanto si estranea dal processo della produzione e del consumo, e dalle attività che ad esso sono comunque collegate. Nella città dell’uomo, quando questi abbia identificata la propria essenza con la fabbrilità, e si sia ridotto alla esclusiva statura del proprio essere faber, non si può fare posto ai giardini, questi luoghi nei quali il fare è fine a se stesso, e non serve.
Visto però che di aria ed erba ed acque e piante e fiori anche l’homo faber, per continuare a produrre con efficienza, in buona salute e senza frustrazioni, continua ad avere bisogno, come del cibo, del sonno, della bevanda, nella città dell’uomo-produttore-assoluto, homo faber («Handwerker siehst du, aber keine Menschen…», ammoniva però Hölderlin-Iperione), il posto che all’interno della città storica pre-tecnologica era dei giardini, e tutt’intorno ad essa era del paesaggio, viene preso, come abbiamo visto, dagli spazi verdi. Ed è un concetto, questo, di spazi verdi, aree verdi, zone verdi di cui è venuto il momento di inoltrare la confutazione a suo tempo abbozzata, registrando in esso la proposta di surrogare il paesaggio (natura come arte) ed il giardino (arte come natura), con uno strumento utilitario, indifferente al giudizio estetico: e cioè con qualcosa che da una sua empirica funzionalità trae quella giustificazione che giardino e paesaggio cercano, e trovano, al di là di ogni motivazione utilitario-funzionale.
Giardino e paesaggio, infatti, sono i due poli, ormai lo sappiamo, di una relazione paritetica e amorosa dell’uomo con la natura, e quindi, essendo l’uomo ragione e natura insieme, di quell’armonia interiore dell’uomo con se stesso e in se stesso della quale abbiamo visto, aveva parlato Hölderlin nella sua lettera al fratello per il capodanno del 1799. Nelle zone verdi, invece, negli spazi verdi, nelle aree verdi (che già nella loro definizione tradiscono uno scadimento della natura e dei suoi colori, delle sue forme, al di qua di quella che abbiamo a suo tempo definita la meta-spazialità del paesaggio, il suo essere più che spazio soltanto: una immagine della temporalità assoluta) il problema di una esteticità in sé autofinalizzata, non si pone più di quanto non si ponga, di solito, nella progettazione delle raffinerie o delle trafilerie, o delle fonderie, degli stabilimenti chimici: accanto ai quali, a distanza più o meno scrupolosamente calcolata, gli spazi verdi sono impiantati (quando ci sono) con funzioni subalterne rispetto alla produttività. La produttività, infatti, è per il mondo moderno, un surrogato di religione, del quale gli impianti industriali sarebbero i templi e le cattedrali. E la funzione delle aree verdi è quella di promuovere l’efficienza degli uomini-produttori, e quindi di assicurare la continuità e il buon livello della produzione. Una funzione, in definitiva, questa delle aree verdi, che sta alla realtà del paesaggio e del giardino, come all’unione amorosa verace sta l’accoppiamento dei vecchi con le fanciulle pneumatiche («the pneumatic girl»), di cui nel romanzo di Huxley si legge l’anticipazione: una tappa del Brave New World, nella sua fuga in avanti rispetto alla natura, in quella fuga in avanti (verso il nulla della vita?) che è nei programmi dell’urbanizzazione totale, della industrializzazione totale; e che si traduce, in realtà, in una degradazione dell’uomo, sua riduzione ad un livello meccanico, di qua della natura, e non, come si crede, oltre la natura.
tratto da: Rosario Assunto, Il Paesaggio e l’Estetica, Palermo 1994.
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