È passato tanto, tanto tempo da quando lessi un romanzo dello scrittore inglese A.J. – «Archibald Joseph», se non mi sbaglio – Cronin, in una traduzione tedesca intitolata Die Sterne blicken herab (E le stelle stanno a guardare). Si trattava di un libro piuttosto ponderoso, ma non è per colpa dell’autore né della sua storia, che ai tempi mi rapì e mi entusiasmò, se a malapena riesco a ricordarne qualche dettaglio. Ciò che mi è rimasto del romanzo, a parte le stelle che stavano continuamente lì a guardar giù, è l’ambientazione in una zona mineraria inglese e la cronaca delle vicende di una misera famiglia di minatori, alternate a quelle di benestanti possidenti («se non mi sbaglio»). Molto più tardi, guardando il film Com’era verde la mia valle di John Ford, le immagini dei volti e dei paesaggi mi indussero a credere che si trattasse non già, come invece sapevo benissimo, di una trasposizione del romanzo di Richard Llewellyn How Green Was My Valley, bensì di The Stars Look Down di Cronin. Con tutto ciò, dell’epos delle stelle che stanno a guardare, conservai nella memoria un solo particolare. Ma è un dettaglio che mi porto appresso ancora oggi, e che ha costituito il punto di partenza del mio girare e rigirare attorno al Luogo Tranquillo e ai luoghi tranquilli, che dura ormai da una vita, e col quale ora deve pertanto cominciare il mio saggio dedicato a questo tema.
Quel dettaglio, nella mia memoria o chissà, forse solo nella mia immaginazione, racconta quanto segue: uno degli eroi di E le stelle stanno a guardare – mi pare fossero due, entrambi bambini, poi adolescenti, il primo ricco di famiglia, il secondo povero – aveva preso l’abitudine di andare in bagno, alla toilette, al gabinetto, senza averne bisogno. E questo accadeva ogni volta che la compagnia degli altri, degli adulti, della famiglia, si faceva soverchia per lui – diventava troppo –, ogni volta che gli riusciva come un peso, una pena. Allora si chiudeva nella ritirata («come dice già il nome») per non dover più sentire chiacchiere, e restava là dentro ben più del dovuto.
La storia, o si tratta invece di una mia rivisitazione?, vuole che sia il discendente dei ricchi a essere attratto dal Luogo Tranquillo, che tale luogo si trovi ben lontano da tutte le sale e le stanze della casa padronale, e che il ragazzo, chiuso lì dentro, non faccia altro che ascoltare il silenzio. Sono invece piuttosto sicuro che, non tanto nella storia, nel romanzo, quanto nella mia rivisitazione, il giovane eroe, in quell’isolamento, lontano dai suoi cari, abbia una fantasia e una sensazione cui in fondo il libro deve il suo nome: che le stelle, quando è lì, lo stiano a guardare. Il suo Luogo Tranquillo del resto non aveva il tetto, si apriva verso il cielo.
Anche per me, adesso, il Luogo Tranquillo ha una storia, per certi versi differente, per altri però paragonabile a quella che ho appena riferito; una storia che, considerato il luogo giammai «monotono», appare vivacemente variegata. Vorrei ora tentare di seguirla, senza un progetto preciso, accompagnandola, a mo’ di parallelo e contrappunto, con le storie o le immagini raccolte altrove qua e là.
Fu sulla soglia tra l’infanzia e l’adolescenza che il Luogo Tranquillo incominciò ad avere per me un significato diverso da quello più scontato e abituale. Se oggi, qui alla mia scrivania, lontano dai paesaggi dell’infanzia, così come dall’infanzia stessa, cerco di evocare i gabinetti del secondo dopoguerra a Berlino Est, a Niederschönhausen, poi a Pankow e, più tardi, la latrina della casa di mio nonno, in campagna, nel Sud della Carinzia, non mi vengono in mente che poche immagini sparse – della grande città nemmeno una –, e a parte questo, soprattutto, io non ci sono, non come bambino e nemmeno come essere umano; in quelle scene manca un soggetto, un io, o me stesso; sono tutte scene inanimate.
Niente di diverso dalle solite cose: i giornali tagliati a mano e ridotti in blocchetti più o meno spessi, forati e legati a una corda appesa a un chiodo sulla parete di assi di legno, con la variante che la lingua di quei ritagli era prevalentemente lo sloveno del settimanale «Vestnik» («Il Messaggero»), cui il nonno era abbonato. Poi c’era il pozzo verticale che dal sedile scendeva giù verso il letamaio collegato alla stalla di sotto – o non portava invece a una sorta di fossa biologica? – e io avevo la sensazione che quel pozzo fosse straordinariamente lungo, così almeno mi sembrava quand’ero bambino, dal momento che il gabinetto si trovava al primo piano della fattoria, costruita su un ripido pendio al centro del villaggio. Il bagno, per l’esattezza, era alla fine di una lunga galleria di legno, proprio nel tratto che conduceva al granaio: come fosse parte del granaio, o un angolo di questo e, al tempo stesso, formasse un tutt’uno anche con la galleria, completamente invisibile. Oltretutto aveva un colore grigiastro, per via delle intemperie, la stessa tinta delle tavole della galleria e delle assi del granaio, perciò restava del tutto invisibile, a malapena riconoscibile come un luogo a sé. Non aveva neanche l’aspetto di un capanno, figuriamoci poi quello di una «latrina», tanto più che sulla porta che lo chiudeva mancava il cuore intagliato più o meno tipico della regione, e che neanche la porta si poteva riconoscere come tale – non sembrava nient’altro che una parete di legno leggermente sporgente tra la galleria e il granaio, agli occhi di un forestiero appariva forse come il ripostiglio per gli attrezzi da carpentiere del nonno. Comunque non capitava spesso che un visitatore entrasse in casa, al massimo, una volta l’anno, veniva a trovarci il rappresentante distrettuale delle Assicurazioni Generali e per lui, in caso di incendio o se un fulmine si fosse abbattuto sull’edificio, un vano simile non avrebbe contato quasi nulla. È sorprendente come, in una maniera o nell’altra, quel rustico gabinetto stesse lì, lontano da tutto il resto, dalla vita quotidiana come dalle occasioni di festa. Difficile immaginare nel villaggio sloveno di Stara Vas – a differenza delle borgate giù in pianura, dove c’era il mercato – la possibilità di fare i propri bisogni in pubblico, come si vede in certi quadri olandesi di genere del XVII secolo.
Tratto da: Peter Handke, Saggio sul luogo tranquillo, Ugo Guanda Editore