Capitolo primo
Una bomba a orologeria
3. Tre paradossi
Proviamo a elencare, senza troppi commenti, tre dati di fatto che sono nel nostro Paese altrettanti elementi di forte contrasto.
Primo dato di fatto. L’Italia, questo lo sanno tutti, ha da anni il più basso tasso di crescita demografica d’Europa, e uno dei più bassi del mondo. Pochi si rendono conto, invece, che l’Italia ha il più alto tasso di consumo di territorio d’Europa: gli esempi dati sopra bastano a dimostrarlo. Sempre meno italiani, sempre più cemento sul suolo d’Italia: vogliamo riflettere su questo paradosso?
Secondo dato di fatto, secondo contrasto. L’Italia è fra i pochi Paesi al mondo che abbiano la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nella propria Costituzione (vedi sotto, cap. III.5); ha in merito un complesso di leggi organiche che sono fra le migliori del mondo, forse le migliori; eppure continua ogni giorno la selvaggia aggressione al paesaggio, disprezzando le norme o ‘interpretandole’ per piegarle alla speculazione edilizia. Dovremo dunque dire, come già Dante (Purgatorio, XVI, v. 97): «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?»
Terzo dato di fatto e terzo contrasto. L’Italia ha una lunga tradizione civile di riflessione su queste tematiche, produce in merito cospicua bibliografia storica e giuridica, inventa e dispiega ogni anno decine di convegni, seminari, conferenze, corsi di laurea e di master sul paesaggio, sul suo degrado, sulle ipotesi (finora astratte) di ripristinarlo o ‘restaurarlo’. Eppure, nella scuola italiana non si parla quasi mai di paesaggio (da una sommaria inchiesta risulterebbe che alla fine del liceo meno del 5% degli allievi ha mai discusso in aula questo tema). Nella scuola italiana, insomma, il paesaggio è solo quello dipinto dai pittori italiani e stranieri o descritto da poeti e romanzieri. Non è mai quello dentro il quale noi viviamo, che guardiamo dalla finestra, che ogni giorno vediamo deturpato e offeso. La mancanza di ogni tentativo di educazione alla storia e alla tutela del paesaggio non sarà fra le cause del suo veloce degrado?
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004-2008), consacrato da un vasto accordo politico fra governi di centro-destra e centro-sinistra (vedi sotto, cap. VI.6), prevede espressamente (art. 135) misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica, e in particolare per «la conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni paesaggistici», «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate» e «il ripristino dei valori paesaggistici». Come mai questi principî non trovano applicazione? Per colpa di chi la normativa di tutela vigente (il Codice) non sta arrestando il degrado? Sono alcune delle domande a cui questo libro cercherà di dare risposta.
Sia però chiaro da subito che l’intrico normativo e la labirintica segmentazione delle competenze fra Stato, Regioni, Province e Comuni contribuiscono in modo determinante alla mancata tutela del paesaggio. Sono, di fatto, un aiuto al ‘partito del cemento’. Creano un’area grigia sempre più vasta, in cui l’incertezza del diritto non solo genera conflitti di interesse ed estende lo spazio dell’interpretazione (dando molto lavoro agli avvocati), ma legittima e promuove l’arbitrio del singolo regalandogli la sostanziale certezza dell’impunità. Sempre più spesso, Stato e Regioni promulgano leggi accettabili (talora impeccabili), ma con la certezza che verranno disattese nella prassi quotidiana. La norma tende a diventare un esercizio declamatorio privo di ogni effetto pratico, quella che fu la maestà della Legge ne risulta erosa, anzi svilita a basso espediente. Nascondendosi dietro la facile foglia di fico di una normativa più o meno ben fatta, anzi sbandierandola a ogni occasione, amministratori e politici perpetrano manovre e accordi sottobanco, trasformando il paesaggio e le città, corpo vivo della nostra memoria storica e della nostra identità, in merce di scambio elettoralistica. ‘Chiudono un occhio’ sulle malefatte che li circondano e pretendono che lo chiudiamo anche noi. Davvero ormai, in Italia come altrove, «la nostra esistenza dipende dalle decisioni di uomini che disprezziamo. Tutti gli osceni palazzinari di cui ci lamentiamo da anni, i comuni annaspanti nella corruzione, i costruttori senza regole e i politici imbroglioni sono stati prodotti da noi, sono parte di noi, e il nostro disprezzo non ci ha minimamente protetto dalle loro malefatte» (Orhan Pamuk).
Capitolo terzo
Cultura ed etica della tutela: una storia italiana
1. 2010: quantità e qualità.
«Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede fra il 60 e il 70% dei beni culturali mondiali» (rapporto Eurispes 2006). «L’Italia possiede il 60% delle ricchezze di tutto il mondo» (dichiarazione di un alto funzionario ministeriale)[1], «da sola vale il 55-60% del patrimonio culturale mondiale» (dichiarazione del sottosegretario Andrea Marcucci)[2]. «Il nostro Paese, notoriamente, possiede la maggior parte delle opere d’arte presenti nel mondo» (Sandro Bondi, «Il Giornale», 22 novembre 2008). «Il 72% del patrimonio culturale in Europa si trova in Italia e ben il 50% di quello mondiale sta nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra, 10 settembre 2008)[3].
Affermazioni come queste si rincorrono dai discorsi e interviste dei politici a Facebook, al blog di Beppe Grillo. Le percentuali cambiano sempre (i più modesti si accontentano del 40%), ma sono ritenute talmente solide e sicure (sotto l’usbergo dei ‘dati Unesco’) che le Regioni entrano in lizza fra loro. in questa Italia dei primati, ci saranno più beni culturali in Sicilia o in Toscana? «Il Ministro richiama i risultati di un’indagine svolta dall’Unesco, secondo cui il 60% dei beni culturali mondiali ha sede in Italia e, fra questi, il 60% in Magna Grecia e, fra questi ultimi ancora, il 60% in Sicilia» (dichiarazione del ministro La Loggia al Senato, 28 novembre 2001). Da un assessore toscano ho sentito dire non soltanto che l’Italia ha da sola il 60% dei beni culturali del mondo, ma che il 50% dei beni culturali italiani è concentrato in Toscana (che dunque avrebbe da sola il 30% del patrimonio culturale mondiale). Ma Roma da sola «ha il 30-40% dei beni culturali del mondo» secondo il vicesindaco Mauro Cutrufo («Il Messaggero», 18 agosto 2008). Queste e simili vanterie di ministri e assessori, con le percentuali che essi rivendicano alle proprie città e Regioni, sommiamole fra loro, e avremo un bel risultato: l’Italia da sola supera di gran lunga il 100% dei beni culturali del pianeta. Intorno a noi, il deserto.
Tali dati, o meglio l’insistenza con cui vengono ripetuti, sono sintomo di orgoglio nazionale e di consapevolezza della centralità del patrimonio culturale in Italia. Ma sono anche dimostrazioni, davvero desolanti, di irresponsabile superficialità e approssimazione. Tutti citano a memoria, pochi sembrano accorgersi che la percentuale varia di bocca in bocca come accade nei pettegolezzi, non nelle statistiche. Quasi nessuno dice che questi dati sono inesistenti, che non c’è mai stata «un’indagine svolta dall’Unesco» che abbia quantificato il patrimonio culturale del pianeta, assegnando a ogni Paese la propria quota percentuale. L’Italia svetta, è vero, in cima alle classifiche per il numero di furti d’arte e d’archeologia[4], ma non è poi un dato tanto lusinghiero. Siamo primi anche nella lista dei siti Unisco, ma i 44 siti italiani (su 890) corrispondono solo al 4,9% (la Spagna segue a un’incollatura).
Dov’è dunque il conclamato primato italiano, se proprio vogliamo cercarlo? Non è nella quantità (inafferrabile: i dati non esistono) ma nella qualità. L’Italia davvero si distingue da molti altri Paesi (anche d’Europa) per qualcosa di particolare. Per l’armoniosa integrazione città-campagna, patrimonio culturale–paesaggio, natura-cultura che ha forgiato le caratteristiche più peculiari dell’Italia e degli italiani, e che qua e là ancora resiste. Per la diffusione capillare del patrimonio culturale in ogni città, in ogni villaggio, in ogni valle: tale fu infatti la storia d’Italia da innescare importanti commesse artistiche e notevoli talenti per ogni dove, lasciando fino ad oggi tracce assai cospicue nonostante le depredazioni degli ultimi secoli. Infine, per il tasso medio di continuità d’uso in situ di statue, dipinti, monumenti, che traccia attraverso le generazioni un filo rosso ed è per ogni visitatore una straordinaria ragione di attrazione. Nel nostro Paese, i musei contengono solo una piccola minoranza dei beni culturali, che sono viceversa sparsi in chiese, palazzi, piazze, case, strade, ma anche nelle campagne lì intorno, per valli e colline: questa diffusione capillare fa il carattere speciale del patrimonio culturale italiano, e non essendo riproducibile ne assicura l’assoluta unicità. Inoltre, essa incarna un alto modello di conservazione contestuale. In città come Siena o Venezia, non ha il minimo senso stilare una lista degli edifici ‘importanti’, poiché tutto lo è. Una chiesa, un palazzo, è degno di essere conservato in sé, ma soprattutto in quanto appartiene a una trama fittissima della quale è parte insieme a cento altre chiese e palazzi. In questo insieme coerente e armonioso, che è il prodotto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e di civiltà, il totale è maggiore della somma delle sue parti. È proprio dalla forza cogente della trama urbana che ogni singolo monumento, anche il più importante, prende significato e spessore. Se a Venezia si dovessero conservare solo gli edifici intorno a Piazza San Marco e distruggere il resto, anche la basilica di San Marco perderebbe la più gran parte del suo valore. Lo stesso è vero per i più grandi centri storici (come Napoli o Genova), per piccole città (come Feltre, Noto o Assisi), ma anche per l’insieme città-paesaggio, anche per migliaia di piccoli e piccolissimi villaggi, abbazie, castelli, ville di campagna.
Secolare armonia fra l’edificato e il paesaggio, diffusione capillare del patrimonio e dei valori ambientali, continuità d’uso: queste caratteristiche tanto celebrate e visibili non s’intendono se non si tien conto di un quarto fattore, il ‘modello Italia’ nella cultura della conservazione. Molto prima dell’unità nazionale, gli Stati italiani hanno cominciato a darsi regole in questo campo precedendo di molto ogni altro Paese, europeo e non; la cultura giuridica italiana ha introdotto l’idea che la protezione del patrimonio culturale non debba essere affidata solo alla buona volontà dei singoli, ma debba anzi essere regolata da norme e istituzioni pubbliche. L’Italia è stata la prima a considerare tutela del paesaggio e tutela del patrimonio culturale un tutto unico; è stato il primo Paese al mondo a porre questa duplice tutela fra i principî fondamentali della propria Costituzione. È a questa storia di lungo periodo che dobbiamo rifarci, se vogliamo capire perché tanto si è conservato fino ad oggi, e quanto grave sia, oggi e domani, il rischio di distruggerlo.
La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela non sono due storie parallele che si sono intrecciate per caso. Al contrario, sono due aspetti della stessa storia, due facce della stessa moneta: se il nostro patrimonio è tanto abbondante e diffuso, è perché abbiamo fino a ieri saputo conservarlo; e abbiamo saputo conservarlo perché vi abbiamo riconosciuto il nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima. Le regole e le consuetudini della tutela non sarebbero mai nate senza un forte senso civico innescato dalla presenza tanto intensa del nostro patrimonio culturale; né tale presenza sarebbe tanto densa e duratura, se non fosse stata garantita da regole efficaci nel lungo corso dei secoli. Che vi siano norme pubbliche per la tutela è tutt’altro che ovvio, e infatti non è accaduto per molto tempo nella più gran parte dei Paesi. Nel secolo XX, e in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, le leggi di tutela si sono moltiplicate in vari Paesi (per esempio in America Latina, in Africa, in Asia), seguendo modelli importati dall’Europa; ma i modelli europei, a loro volta, si sono sviluppati seguendo l’esempio che veniva dall’Italia. È di questa tradizione secolare di tutela e del suo apparato istituzionale che dovremmo e potremmo esser fieri, e non di statistiche inventate, di ‘numeri’ che vogliono presentarsi come dati obiettivi, e nascondono (anzi, rivelano) il vuoto culturale di chi li sbandiera.
Capitolo settimo
Noi, i cittadini
1. Fuori luogo.
«Una quercia che cade fa molto rumore; ma una grande foresta cresce in silenzio». Questo proverbio cinese descrive bene lo scenario italiano che stiamo attraversando. Guardiamo increduli il crescente degrado delle nostre città e del nostro paesaggio, e ci sdegniamo ogni giorno per il cinismo dei (pochi) colpevoli, per l’indifferenza dei (molti) spettatori, per le alleanze e compromissioni di fatto fra chi devasta i nostri orizzonti di vita e amministratori pubblici di ogni livello e di ogni partito. E chi manifesta la propria indignazione viene spesso accolto da commenti infastiditi, accusato di inutile pessimismo, invitato a rassegnarsi e a pensare ad altro. È vero il contrario: «sa indignarsi solo chi è capace di speranza» (Seneca). Ma se talora abbiamo la trista impressione d’esser rimasti soli a difendere i valori del paesaggio (e della Costituzione), è perché non sappiamo ascoltare l’inarrestabile fruscio della foresta che cresce. Il nostro sdegno è assai più condiviso e diffuso di quel che crediamo, anzi ogni nuovo delitto contro ambiente e paesaggio spinge altri cittadini a prender coscienza dell’abisso entro il quale stiamo rotolando. E se ci pare che non sia così è perché siamo troppo abituati ad attribuire ai media (in particolare, alla televisione) e alle liturgie dei partiti un grado superiore di realtà, rispetto a quella che pur viviamo. Come se i pensieri, le sofferenze, le paure e gli sdegni del cittadino comune (di ciascuno di noi) non contassero proprio nulla.
Il degrado di cui stiamo parlando non riguarda solo la forma del paesaggio o dell’ambiente, e nemmeno solo gli inquinamenti, i veleni, le sofferenze che ne nascono e ci affliggono. Riguarda un complessivo declino della società italiana, della vita politica, delle regole del vivere comune. Riguarda la corruzione diffusa, l’uso disinvolto delle leggi, l’enorme evasione fiscale tollerata (cioè autorizzata) da governi d’ogni segno, il ruolo delle mafie nella vita pubblica e nell’economia. Riguarda la manipolazione delle notizie e la monetizzazione d’ogni valore, il cartellino del prezzo attaccato alle Dolomiti e ai quadri di Caravaggio, riguarda gli slogan perversi sui ‘giacimenti di petrolio’ dell’Italia, sul nostro patrimonio visto come un serbatoio da svuotarsi in fretta per far cassa, senza nulla lasciare alle generazioni future. Riguarda la bassa sicurezza sui luoghi di lavoro, la crisi della Sanità, le differenze sempre più marcate da Regione a Regione che violano l’egual diritto alla salute di tutti i cittadini (art. 32 Cost.). Ma questo vastissimo orizzonte di crisi non è una buona ragione per rinunciare a un discorso specifico sull’ambiente e sul paesaggio, né per metterlo in sordina perché «ci sarebbe ben altro di cui parlare». È vero quello che ha scritto Barbara Spinelli dopo le tragiche frane di Messina:
“è inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni, la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d’omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli anni ’60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse” («La Stampa», 4 ottobre 2009)
È oggi più che mai necessario parlare di paesaggio. Lo è perché ognuno dei problemi che ci affliggono (dunque anche il paesaggio) merita una specifica attenzione. Ma anche perché il paesaggio è «un entre deux fra la sfera dell’individuo e la sfera della vita collettiva» (Massimo Quaini)[5], e dunque rappresenta una straordinaria cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive se stesso in relazione all’ambiente che lo circonda e alla comunità in cui vive. Quale importanza annette alla propria salute fisica e mentale, quale ruolo assegna alla storia, alla cultura, all’identità dei propri luoghi e del Paese, in qual modo interpreta la gerarchia fra l’immediato vantaggio del singolo e il pubblico interesse della collettività, fra i tempi corti degli affaristi senza scrupoli e la lungimiranza della Costituzione. Se è in grado di comprendere che i danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come cittadinanza ma anche come individui: uno per uno. Come ha scritto Eugenia Albats a proposito del devastato ambiente russo (sostanze tossiche da 6 a 9 volte il massimo livello di guardia), l’apatia dei cittadini è la migliore alleata di chi distrugge l’ambiente. In Russia come in Italia, ieri come oggi, «l’unica possibilità e la condizione pregiudiziale di una ricostruzione stanno in questo: che le persone coscienti ed oneste non restino assenti lasciando libero campo alle rovinose esperienze dei disonesti e degli avventurieri» (Giuseppe Dossetti, 1945).
Il paesaggio è il protagonista di questo libro. È un protagonista che cambia nome volentieri, si chiama talvolta ‘ambiente’, talvolta ‘territorio’: e sotto ogni avatar suscita cupidigia, innesca nuove norme, attrae altri barbari provoca nuove aggressioni. E invece no. Protagonisti di questo libro siamo noi, i cittadini, che nel paesaggio/territorio/ambiente viviamo la nostra vita ogni giorno. Che respiriamo l’aria inquinata dai suoli martoriati, e assistiamo alla morte dell’agricoltura di qualità in favore di prodotti sempre più insapori. Noi, che vediamo spianare dune costiere, abbattere oliveti e pinete, ricoprire di cemento spiagge e prati montani, vediamo boschi che invadono valli già coltivate a vigneto, mentre altri boschi vengono selvaggiamente abbattuti. Noi, che dalle generazioni passate abbiamo avuto in dono un’Italia ricca di valori ambientali, e non sapremo fare altrettanto con le generazioni future; che stiamo tradendo noi stessi e i nostri figli. Noi, che vediamo le nostre città dilagare e dissolversi in anonime periferie-sprawl, e sappiamo che in quell’ambiente senz’anima cresceranno milioni di cittadini, nessuno dei quali saprà davvero che cosa è (meglio: che cosa fu) il paesaggio italiano fino a ieri celebrato.
Siamo, ci sentiamo fuori luogo. Siamo spaesati, in senso sia metaforico che letterale. Non ci riconosciamo negli orizzonti (fisici e politici) che ci circondano. Per quanto aguzziamo lo sguardo, non vediamo un’opposizione degna di questo nome; vediamo una destra nazionalista allearsi per decenni con una Lega separatista, come se fosse la cosa più naturale del mondo; vediamo quella che fu la sinistra cantare all’unisono con la destra le virtù del mercato, crogiolandosi in una strategia per definizione perdente. Vediamo il disgregarsi dello Stato e la morte del pubblico interesse, lo svuotarsi delle istituzioni e la svendita dei beni pubblici, secondo un’economia di rapina pensata per gli amici degli amici. In un Paese sempre più provinciale, non sappiamo più confrontarci con gli altri. In compenso, ci consoliamo inventandoci una realtà fittizia, nella quale a capo delle Regioni non ci sono presidenti, bensì ‘governatori’, carica inesistente che ha il dubbio vantaggio di farci sentire provvisoriamente ‘americani’. In questa realtà di sole parole, ci raccontiamo la favola secondo cui siamo passati dalla Prima alla Seconda Repubblica, per giunta con un sistema ‘bipartitico’ in cui le falle di una legge elettorale iniqua sarebbero recuperabili mediante le ‘primarie’. Non ricordiamo più che in Francia fra l’una e l’altra delle cinque Repubbliche non vi fu solo qualche processo per corruzione e qualche crisi di partito, vi furono imperi e monarchie, guerre e rivoluzioni; e fingiamo di non vedere che la geometria variabile dei dieci o dodici partiti e sub-partiti del 2010, con le loro correnti mascherate da fondazioni e associazioni, non è poi molto diversa da quella del 1985. Persino l’antichissima idea dei beni e degli usi comuni, che dall’antica Roma al Medioevo ad oggi ebbe in Italia vita ininterrotta, viene sempre più spesso rilanciata e travestita, magari con le migliori intenzioni, ribattenzandola in inglese (commons), quasi che in tal modo diventasse più interessante o più credibile.
Siamo, ci sentiamo fuori luogo anche nelle nostre città, nel nostro paesaggio, ridotto a terreno di caccia per chi voglia farvi bottino. Come se non bastasse, ci troviamo istantaneamente d’accordo quando il primo che passa ci spiega che manca in Italia un’architettura moderna, e che il terreno perduto va recuperato velocemente impiantando intorno a Roma, Milano, Torino altrettante cinture di grattacieli; cioè imitando nemmeno più Chicago o New York, ma Singapore o Dubai. I nostri centri storici, eredità preziosa ma fragile, tendono a perdersi entro le periferie che li assediano, capovolgendo ogni gerarchia: piazze medievali, cattedrali e palazzi comunali stanno per diventare una sorta di quartiere dei giochi o di shopping center artificiale, più simile alle evocazioni di cartapesta di Las Vegas che alle città di Dante e di Palladio. Questo processo di disneyficazione era annunciato da molto tempo, ma ora è venuto a maturazione: parve strano a molti, nel 1981, un articolo nella rivista «Urbanistica» secondo cui «la trasformazione di Venezia in una disneyland potrebbe segnare il passaggio a un modo di vivere più creativo, più allegro, più festoso», ma la nomina del suo autore a membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali (2009) indica che il trend è ormai vittorioso[6].
Questi e mille altri disagi sono molto diffusi e condivisi. Eppure, ai più pare ancora fuori luogo esprimerli ad alta voce. Figli di una lunga stagione in cui ogni dissenso e ogni proposta doveva passare attraverso la voce dei partiti, stentiamo ad accorgerci che i partiti di oggi sono intenti a tutt’altro. Sopraffatti dalla complessità dei problemi, aspettiamo che qualcun altro se ne faccia carico, ma non vogliamo vedere che le vittime di questo rimando a ‘qualcun altro’ siamo noi stessi; troppo spesso ci chiudiamo in un imbarazzato silenzio.
Ma è davvero fuori luogo prendere la parola, in quanto cittadini, quando intorno a noi «una minoranza senza principî distrugge un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno» (Theodore Roosevelt: vedi sopra, cap.IV.2)? Siamo tanto smemorati ed estraniati dal nostro ambiente, ci sentiamo tanto fuori luogo da doverci rassegnare al silenzio degli ignavi?
tratto da: Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010.
[1] http://borsadellacultura.a4w.it/stampa16.php.
[2] www.repubblica.it, 18 dicembre 2007.
[3] www.governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=40196.
[4] F. Isman, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia, Skira, Milano 2009.
[5] Quaini, Il ruolo dei paesaggi storici cit.
[6] M. Romano, in «Urbanistica», n. 71 (aprile 1981), pp. 77 e 84.
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