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Caratteristiche piacevoli delle varie stagioni
L’aurora a primavera: si rischiara il cielo sulle cime delle montagne, sempre più luminoso, e nuvole rosa si accavallano snelle e leggere. D’estate, la notte: naturalmente col chiaro di luna; ma anche quando le tenebre sono profonde. È piacevole allora vedere le lucciole in gran numero rischiarare volando l’oscurità, oppure distinguere solo le luci di alcune di loro. Anche quando piove, la notte ha un suo fascino. Il tramonto in autunno: malinconico quando i raggi del sole calano obliqui dalla vetta dietro cui tramonta, e i corvi a gruppi di due, di tre, di quattro si affrettano disordinatamente al nido; piacevole è anche ammirare gli stormi ordinati dei gabbiani rimpicciolirsi sempre più all’orizzonte. L’armonia del vento e il ronzare degli insetti, quando il sole è calato, infondono una dolce tristezza. D’inverno, il primo mattino: bellissimo, inutile dirlo, quando cade la neve. Bello è anche il candore della brina; oppure, oltre a questo, riattizzare il fuoco rapidamente, quando il freddo è più intenso, e attraversare le sale portando il carbone. È anche piacevole verso mezzogiorno, quando l’ambiente si è intiepidito, vedere il fuoco del braciere, non più alimentato, ridursi a bianca cenere.
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Tra gli alberi che non fioriscono, belli sono l’acero, l’albero di Giuda, il pino a cinque aghi. Il tasoba ha un aspetto modesto, ma quando tutti gli altri alberi, coi fiori ormai appassiti sono interamente coperti di un verde monotono, le sue foglie, che il variare delle stagioni non altera, risplendono in uno stupendo contrasto di rosso fiammeggiante e tenero verde. Del mayumi ricordo solo il nome, perché non ha nulla di particolare. Assai meno bello è il vischio, che ha però un nome curioso. Il sakaki, che si può ammirare durante le danze sacre della festa di Rinji, è veramente prezioso. Soprattutto è interessante pensare che, tra le tante specie di alberi che crescono sulla terra, proprio questo sia stato scelto fin dai tempi più antichi e coltivato con cura per essere offerto alle divinità. L’albero della canfora ha la particolarità di non crescere a fianco di altri, ma di ergersi in solitudine, per cui ha l’aria di essere un po’ troppo altero. È curioso pensare che nelle antiche poesie lo si dica “diviso in mille rami”, come sinonimo di amante. Chissà mai chi potrà averli contati tutti! Il cipresso prospera quasi sempre in luoghi inaccessibili ed è pregiatissimo, giacché soltanto col suo legno si possono elevare grandiose costruzioni di diversi piani. È incantevole udire, nel quinto mese, la sua linfa cadere a goccia a goccia, in armonia con il rumore della pioggia. Graziosi sono gli aceri giovani quando, in autunno, le loro foglioline si tingono di rosso, incominciando dalla punta, in un medesimo disegno, e i fiori ormai appassiti assomigliano a insetti rinsecchiti. L’asuhainoki è un albero che vive solo in luoghi selvaggi: si dice che l’abbia portato per la prima volta in pianura un uomo disceso dall’impervio monte Mitake, e infatti la scorza dei suoi rami è così ruvida che quasi si prova ribrezzo a toccarla. È strano che gli abbiano dato un nome che significa “albero del domani”! Cosa può promettere per il domani un albero di tal genere? Mi piacerebbe sapere chi sia stato così fiducioso da dargli un tal nome. Il nezumochi non è imponente come gli altri, ma proprio la sua bassa statura e le sue piccole foglie gli conferiscono una grazia particolare. È curioso che, pur essendo il sendan, l’arancio selvatico, il pero selvatico e la pasania tutti alberi sempreverdi, soltanto quest’ultima, nelle poesie, sia considerata tale. La quercia bianca è il più solitario tra gli alberi selvatici di montagna, è possibile talvolta ammirare le sue foglie quando le usano per tingere le sottovesti dei dignitari di secondo e terzo grado. Non posso quindi dire, non avendola ammirata di persona, che sia magnifica, però, grazie alla poesia di Hitomaro, me la immagino confondersi per il suo biancore in un silenzioso paesaggio ricoperto dalla neve, come la vide, nel paese di Izumo, il leggendario Susanoo no Mikoto, in un’atmosfera fatata di cose antiche. Anche se si tratta solamente di erbe, alberi, uccelli e insetti, mi sembra che quanti tra essi possono vantare, a seconda delle stagioni, un pregio particolare, non siano affatto da disprezzare. Le foglie di yuzuriba sono morbidissime e lucide, ma per lo stelo rosso che le sorregge e la loro viscida lucentezza assumono un aspetto grottesco e tuttavia attraente. Di solito non si presta loro molta attenzione, ma alla vigilia dell’anno nuovo assumono di colpo una grande importanza perché fungono da piattini per le offerte di cibo sulle tombe, e poi perché si mangiano al primo dell’anno, nella “minestra della longevità”. Queste foglie sono state rese famose dalla poesia d’amore “Un mondo di foglie rosseggianti”. Il castagno è un albero interessantissimo: si dice che vi dimori il dio protettore del fogliame, e castagni sono chiamati i capitani, i tenenti e i sottotenenti delle guardie. I palmizi, pur non essendo belli, hanno un’aria esotica che affascina, e per questo non si dovrebbero mai piantare davanti a case di umile condizione.
tratto da Sei Shōnagon, Note del guanciale, Milano 2002.
Romanzo giapponese dell’XI secolo.
Titolo originale Makura no sōshi; prima edizione italiana 1968,
traduzione Lydia Origlia.