La decrescita come progetto politico urbano e locale
La città lacerata
La distruzione delle città in tempo di pace – con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare dei centri commerciali, l’estensione delle zone residenziali, l’emergere dei grattacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la proliferazione dei non-luoghi (stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.), l’asfissia del traffico automobilistico – è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla “super” o “iper” modernità (parola che trovo più giusta di “post”-modernità).
La modernità con l’industrializzazione dell’Ottocento aveva distrutto la città medioevale e barocca, generando problemi di ogni sorta e sofferenze enormi di cui testimoniano i romanzi di Dickens o di Zola; tuttavia, un certo equilibrio si era mantenuto o ricostituito attorno ai grandi viali (basta pensare all’esempio della Parigi di Haussman). Questo equilibrio tutto relativo traduceva nel tessuto urbano un equilibrio altrettanto relativo tra la società con la sua moralità tradizionale resiliente (etica del lavoro, senso del dovere, dell’onore e dell’onestà), le istituzioni (esercito, giustizia, educazione, belli arti, ecc.) e l’economia capitalista con la sua accumulazione illimitata. La rottura di questo equilibrio è stata compiuta con la cosiddetta “globalizzazione” o “mondializzazione”, che si può datare in modo simbolico dalla caduta del muro di Berlino nel 1989. Non è tanto l’estensione degli scambi o della finanza su scala planetaria che è nuova (che esiste almeno dal 1492), è invece la mercificazione e la finanziarizzazione del mondo. Con ciò che i Francesi chiamano le tre “D”, dérèglementation, désintermediation, décloisonnement (assenza di regolazione, assenza di intermediazione, assenza di barriere), deciso in 1986 da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, si assiste letteralmente a l’onnimercificazione del mondo. Distruzione della società salariale e dello stato sociale, dischiusura delle economie e dei mercati e delle transazioni finanziarie. Tutto diventa oggetto di traffico, fino al corpo umano, al sangue, ai geni. Si passa da una società con mercato ad una società di mercato, da una società con crescita ad una societa di crescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da una economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della Crescita (con la “C” maiuscola) non distrugge soltanto la città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio. Per questa ragione, i tentativi onorevoli degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni (Geddes), Broadacre city (Wright), città compatta, città diffusa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita. Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis3. Solo con l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.
Negli anni Sessanta, i professori di economia e i tecnocrati si riempivano la bocca con i circoli virtuosi della crescita. A questo periodo, chiamato dagli economisti francesi «i trent’anni gloriosi» (1945/1975), è seguita un’altra epoca che gli stessi (o i loro critici) hanno designato come «i trent’anni pietosi» (les «trente piteuses»). In realtà, i trenta anni “gloriosi”, anch’essi, se facciamo il bilancio dei guasti fatti all’ambiente e all’umanità, sono stati «trent’anni disastrosi» («trente désastreuses») come dice il “giardiniere planetario”, Gilles Clément4. Alla fine, i circoli virtuosi si sono rivelati piutosto perversi. Il deregolamento climatico che ci minaccia oggi è il risultato delle nostre “follie di ieri”.
Invece il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto “R”: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti innescano un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile5.
Durante i trent’anni gloriosi, non era possibile denunciare i misfatti della crescita e dello sviluppo se non nel Sud, laddove erano più evidenti: deculturazione, omologazione, pauperizzazione. Se, nel Nord, la pauperizzazione nel senso economico del termine era contraria a ciò che pareva evidente durante l’epoca consumista, la deculturazione e la depolicitizzazione avanzavano comunque a grandi passi. Alcuni li analizzavano e denuciavano in modo più o meno raffinato, come Ivan Illich, Guy Debord o Pasolini. «Il potere, scrive quest’ultimo nei suoi Scritti corsari (1975), è divenuto un potere consumistico, infinitamente più efficace nell’imporre la propria volontà che qualsiasi altro potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione edonistica della vita ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione»6. L’esplosione urbana, con la “periferizzazione” dei nuovi ceti medi o immigrati (secondo modello delle villette residenziali, periferie dormitorio popolari, habitat pavillonnaire, grands ensembles) è centrale in questo processo di corruzione politica dovuta alla crescita. La potente affermazione della grande distribuzione (super e ipermercato), andando di pari passo con quella dell’automobile e della televisione, aggrediva silenziosamente l’essere cittadini, creando un altro popolo invisibile e muto, e facilmente manipolato da un potere mediatico privo di scrupoli legato alle grandi compagnie transnazionali. La globalizzazione, favorendo un processo di deteritorializzazione e di delocalizzazione ha provocato lo smantellamento delle reti di protezione sociale e portato a termine la distruzione della cultura popolare. L’affermarsi di questi processi ha aperto la strada a una classe politica populista corrotta, persino criminale, di cui in Italia il fenomeno “Berlusconi” costituisce una illustrazione caricaturale. Ma la berlusconizzazione, con o senza il “Cavaliere”, continua a far danni in tutta l’Europa e non solo. Il fenomeno delle “maggioranze soddifatte”, secondo la felice intuizione di John Kenneth Galbraith, precipitando i ceti medi dalla solidarietà all’egoismo individuale, e gli stati occidentali nella contro-rivoluzione neo-liberale che ha distrutto lo stato previdenziale, al tempo stesso ha permesso questo processo e lo ha mascherato.
È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città.
Il progetto della società della decrescita si articola intorno al circolo virtuoso delle otto “R”. Si può dire delle otto “R” che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più “strategico” delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti i comandamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di milioni di persone7. Il problema della città ormai distrutta e tutta da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del territorio lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale.
Rilocalizzare significa certo produrre localmente ciò che serve a soddisfare i bisogni della popolazione, partendo da imprese locali finanziate dal risparmio raccolto localmente. Ogni produzione che si possa svolgere su scala locale per i bisogni locali, deve essere realizzata localmente. Se le idee non devono conoscere frontiere, i movimenti delle merci e dei capitali devono essere ridotti all’indispensabile. Internalizzando i costi esterni del trasporto (infrastrutture, inquinamento, come l’effetto serra e lo sregolamento climatico) si rilocalizzerebbero un gran numero di attività. E sicuramente il famoso vasetto di yogurt alla fragola non incorporerebbe più 9000 km!8.
Ma nell’ottica della costruzione di una serena società di decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. A ciò consegue che ogni decisione di natura economica che possa essere presa su scala locale per i bisogni locali deve esse presa localmente. Un principio fondato sul buon senso e non sulla razionalità economica. «Cosa importa guadagnare qualche franco su un oggetto, quando poi bisogna contribuire con migliaia di franchi, per spese diverse, alla sopravvivenza di una frazione della popolazione che non può più, a giusto titolo, partecipare alla produzione dell’oggetto?». Questo significa che tutte le decisioni economiche, politiche, culturali, che possono essere prese a livello locale debbono essere prese localmente.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Il progetto di decrescita urbana e locale richiede due volani interdipendenti: l’innovazione politica e l’autonomia economica.
Inventare la democrazia ecologica locale
Per contrastare la periferizzazione urbana e politica generata dalla crescita, la soluzione potrebbe consistere nel riprendere “l’utopia” dell’“ecomunicipalismo” di Murray Bookchin9. «Una comunità ecologica ricorrerebbe alla municipalizzazione della propria economia, e si unirebbe ad altre municipalità in modo da integrare le proprie risorse in un sistema federativo su base regionale». «Non è totalmente assurdo, scrive Bookchin, pensare che una società ecologica possa essere costituita da un municipio di piccoli municipi, ognuno dei quali sarebbe costituito da un “comune di comuni” più piccoli […] vivendo in una armonia perfetta con il loro ecosistema». La riconquista o la re-invenzione dei “commons” (il demanio comunale, i beni comuni, lo spazio comunitario) e l’auto-organizzazione di “bioregioni” costituiscono una illustrazione possibile di questo procedimento. La bioregione o ecoregione può essere definita come un’entità spaziale coerente che traduce una realtà geografica, sociale e storica. Può essere più o meno rurale o urbana – distinzione che oggi purtroppo sta per sparire.
La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne (o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività). Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o multipolare10. Si può pensare all’esperienza condotta a Milano con il progetto “Ecopolis città di villaggi” alla fine degli anni Ottanta, dove il villaggio era inteso come superamento delle periferie e della condizione di perifericità.
Per alcuni ci troviamo confrontati ad un “dilemma democratico”, che, in particolare nel campo dell’ecologia, si può formulare così:
Più un’unità politica è piccola e quindi direttamente controllabile da parte dei suoi cittadini, maggiori sono i campi su cui non ha sovranità. La sua capacità di decisione e di azione non si esercita infatti su questioni che travalicano l’ambito territoriale di sua competenza, che tuttavia subisce l’influenza delle dinamiche extraterritoriali.11
D’altra parte, tanto più si espande l’ambito territoriale di governo, tanto più calano le opportunità di partecipazione dei cittadini. C’è qui una constatazione di fatto, ma Paola Bonora suggerisce di non affrontare la questione sul versante dimensionale, dato che «non esiste una “misura” ottima, un confine perfetto, per l’esercizio della sovranità». Conviene allora affrontare il problema partendo dall’identità. La cosa importante è l’esistenza di un progetto collettivo radicato in un territorio concepito come luogo del vivere insieme e dunque da preservare e curare per il bene di tutti. La partecipazione è quindi implicita nell’azione e diviene «custode e promotrice dello spirito dei luoghi». La dimensione scompare dunque come problema topografico o di entità demica, insomma di misuratori descrittivi astratti, ma si configura come questione sociale di riconoscimento identitario e di capacità di azione coordinata e solidale. Di un agire collettivo che, in maniera indipendente dalla scala, si muove su obiettivi condivisi in direzione del bene comune. Considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Bookchin, è interessante ma può aver successo solo se le organizzazioni di quartiere partecipare alla produzione dell’oggetto?». Questo significa che tutte le decisioni economiche, politiche, culturali, che possono essere prese a livello locale debbono essere prese localmente.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori. Il progetto di decrescita urbana e locale richiede due volani interdipendenti: l’innovazione politica e l’autonomia economica.
Inventare la democrazia ecologica locale
Per contrastare la periferizzazione urbana e politica generata dalla crescita, la soluzione potrebbe consistere nel riprendere “l’utopia” dell’“ecomunicipalismo” di Murray Bookchin9. «Una comunità ecologica ricorrerebbe alla municipalizzazione della propria economia, e si unirebbe ad altre municipalità in modo da integrare le proprie risorse in un sistema federativo su base regionale». «Non è totalmente assurdo, scrive Bookchin, pensare che una società ecologica possa essere costituita da un municipio di piccoli municipi, ognuno dei quali sarebbe costituito da un “comune di comuni” più piccoli […] vivendo in una armonia perfetta con il loro ecosistema». La riconquista o la re-invenzione dei “commons” (il demanio comunale, i beni comuni, lo spazio comunitario) e l’auto-organizzazione di “bioregioni” costituiscono una illustrazione possibile di questo procedimento. La bioregione o ecoregione può essere definita come un’entità spaziale coerente che traduce una realtà geografica, sociale e storica. Può essere più o meno rurale o urbana – distinzione che oggi purtroppo sta per sparire.
La bioregione urbana, costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le diseconomie esterne (o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività). Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o multipolare10. Si può pensare all’esperienza condotta a Milano con il progetto “Ecopolis città di villaggi” alla fine degli anni Ottanta, dove il villaggio era inteso come superamento delle periferie e della condizione di perifericità.
Per alcuni ci troviamo confrontati ad un “dilemma democratico”, che, in particolare nel campo dell’ecologia, si può formulare così:
Più un’unità politica è piccola e quindi direttamente controllabile da parte dei suoi cittadini, maggiori sono i campi su cui non ha sovranità. La sua capacità di decisione e di azione non si esercita infatti su questioni che travalicano l’ambito territoriale di sua competenza, che tuttavia subisce l’influenza delle dinamiche extraterritoriali.11
D’altra parte, tanto più si espande l’ambito territoriale di governo, tanto più calano le opportunità di partecipazione dei cittadini. C’è qui una constatazione di fatto, ma Paola Bonora suggerisce di non affrontare la questione sul versante dimensionale, dato che «non esiste una “misura” ottima, un confine perfetto, per l’esercizio della sovranità». Conviene allora affrontare il problema partendo dall’identità. La cosa importante è l’esistenza di un progetto collettivo radicato in un territorio concepito come luogo del vivere insieme e dunque da preservare e curare per il bene di tutti. La partecipazione è quindi implicita nell’azione e diviene «custode e promotrice dello spirito dei luoghi». La dimensione scompare dunque come problema topografico o di entità demica, insomma di misuratori descrittivi astratti, ma si configura come questione sociale di riconoscimento identitario e di capacità di azione coordinata e solidale. Di un agire collettivo che, in maniera indipendente dalla scala, si muove su obiettivi condivisi in direzione del bene comune. Considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Bookchin, è interessante ma può aver successo solo se le organizzazioni di quartiere dispongono di un vero potere e non sono soltanto intermediari. Per questo è importante che esista un progetto collettivo di riappropriazione dello spazio politico locale. Purtroppo, «i quartieri nella maggior parte dei casi vengono visti al più come organi di ascolto».
Una delle iniziative più originali e promettenti è certamente la “Rete del Nuovo Municipio” che, basandosi su esperienze come il bilancio partecipativo, propone un’idea di futuro locale alternativo e buone pratiche di democrazia.
Si tratta di un’associazione formata da ricercatori, movimenti sociali e numerosi responsabili locali provenienti di piccoli comuni, ma anche di enti più grandi come la Provincia di Milano e la Regione Toscana, che a livello locale vogliono risolvere in un modo onesto i problemi generati dalla dismisura della società della crescita. L’originalità della rete, alla cui ultima riunione a Bari (ottobre 2005) hanno partecipato 500 persone, testimonia di una realtà che vede una grande partecipazione di chi a partire dalla dimensione locale vuole cercare di risolvere seriamente i problemi generati dagli eccessi della società della crescita. L’originalità di questa Rete sta nella scelta di una strategia che si fonda sul territorio, ovvero nella concezione della realtà locale come campo di interazione tra attori sociali, ambiente fisico e patrimonio territoriale. Come sostiene la Carta, la Rete promuove «un progetto politico che valorizzi le risorse e le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto della eterodirezione del mercato unico»12. In altre parole, si tratta di un laboratorio d’analisi critica e di autogoverno per la difesa dei beni comuni.
Nella stessa direzione va l’esperienza delle “città lente” (slow city). Questo movimento completa quello di “Slow food” al quale aderiscono ormai in tutto il mondo centomila produttori, contadini, artigiani e pescatori che lottano contro l’omologazione del cibo per ritrovare il gusto e i sapori. La rete mondiale “Slowcities” raccoglie città che limitano volontariamente la loro crescita demografica ad un massimo di 60000 abitanti per ritrovare la lentezza (oltre ciò diventa impossibile parlare di locale e di lentezza). Si ritrovano qui le idee di uno dei socialisti utopici più importanti, William Morris, precursore per molti versi della decrescita13.
La società della decrescita implica un protezionismo forte contro la concorrenza selvaggia e sleale. Ma questo non esclude una apertura larga verso “spazi” che adotteranno misure paragonabili. Se, come diceva Michel Torga nel 1954, «l’universale altro non è che il locale senza i muri», si può dedurre che, viceversa, il locale altro non è che l’universale con delle frontiere, dei limiti, delle zone cuscinetto, interpreti e traduttori (e anche guide per i clandestini). L’identità scelta, più o meno plurale eppure legata ad una visione comune del suo destino, è un elemento essenziale per dare consistenza all’unità bioregionale14. Benché profondamente radicato, il progetto locale non è chiuso ed egoistico, ma al contrario presuppone aperture ed idee generose del dare e dell’accogliere15.
Singleton nota che chi parla di locale e di comunità, mettendo in dubbio la possibilità o l’opportunità d’un universalismo politico astratto (ossia, un governo mondiale),
rischia molto di vedersi affibbiare tutti i nomi che la Modernità ha colpito d’anatema: fascismo, nazionalismo, machismo, paternalismo, elitismo, passatismo… Come far comprendere che la decrescita non è un ritorno alla relittualità comunitaria (della piccola famiglia nucleare, del quartiere di alto rango, dell’egoismo regionale), ma a una ritramatura organica del locale (permettere alle persone di essere maggiormente insieme come lo sono state fino agli anni Sessanta grazie, tra l’altro, a scuole di villaggio e a imprese “familiari”, a negozi all’angolo e a cinema di quartiere, invece de passare la loro vita a fare la spola fra complessi scolastici, zonizzazioni industriali e grandi superfici di periferia)16.
Nella prospettiva qui offerta, il locale non è un microcosmo chiuso ma un nodo in una rete di relazioni trasversali virtuose e solidali, allo scopo di sperimentare pratiche di rafforzamento democratico capaci di resistere al dominio liberista (per esempio i bilanci participativi).
Ritrovare l’autonomia locale
Urbana o rurale, la bioregione deve raggiungere la sua autonomia economica. Il programma della rilocalizzazione implica prima la ricerca dell’autosufficienza alimentare, e poi l’autonomia economica e finanziaria. Bisognerebbe mantenere e sviluppare le attività di base in ogni regione: agricoltura e orticultura, di preferenza organica, nel rispetto delle stagioni. Willem Hoogendick si è interrogato su una interessante inchiesta olandese (l’Olanda costituisce un caso limite). Secondo i calcoli dell’istituto di economia rurale olandese (LEI) fatti nel 1980, l’autosufficienza agricola era allora una scelta sostenibile per i Paesi Bassi, malgrado una densità di popolazione tra le più alte del mondo. Più recentemente, lo stesso istituto ha calcolato – i ricercatori stessi ne sono rimasti sorpresi – che i 16 milioni di abitanti potrebbero da subito consumare cibo proveniente da una agricoltura biologica domestica. Si dovrebbe solo ridurre il consumo di carne e aumentare quello dei prodotti stagionali. Si tratterebbe di una agricoltura estensiva all’aria aperta con aziende agricole miste (allevamento, prodotti vegetali e uso del letame), e anche di una orticultura estensiva con attività di conservazione, essicamento dei prodotti e rispettive trasformazioni. Poi, i nostri rifiuti, compresi alla fine i nostri escrementi, dovranno ritornare alla terra come fertilizzanti e concimi. Sottoscrivendo i “Panieri di prodotti freschi” (“paniers fraicheur”) con singoli contadini e aiutandoli nella raccolta (come già si pratica un po’ ovunque nel mondo con le AMAP, i GAS, ecc. ) possiamo stabilire legami più stretti tra coltivatori/allevatori e consumatori dei loro prodotti. E questi alimenti saranno più freschi e più sani. La loro impronta ecologica sarà infinitamente più leggera (meno frigorifero, meno stoccaggio, meno trasporti)17. I GAS (gruppi di acquisto solidale) e gli AMAP (associations pour le maintien de l’agriculture paysanne) vanno in questa direzione. Un passo ulteriore consiste nell’organizzarsi in reti per garantirsi reciproca complementarità ed estendere la loro assise (esperienza di Brioude). Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e “lasciar stare” (abbandonare) il produttivismo: scambi equilibrati che rispettano l’indipendenza delle regioni, significano commercio dei surplus regionali mutuali senza sovraccaricare gli uomini e gli ecosistemi (scambiare burro contro ulivi e così via).
Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia rinnovabile18. Si incoraggerà il commercio locale: un posto di lavoro precario creato nella grande distribuzione distrugge cinque posti fissi nei negozi di vicinato19. Secondo l’Istituto Nazionale Francese di Statistica e di studi economici (l’INSEE), la nascita delle “grandi superfici” (grandes surfaces=centri commerciali) alla fine degli anni Sessanta ha eliminato il 17 % dei panifici (17800), l’84 % dei negozi alimentari (73 800), il 43 % delle ferramenta (4300). Si tratta di una parte importante della sostanza stessa della vita locale che scompare e del tessuto sociale che si disfa20. Dato che oggi, in Francia, le cinque centrali d’acquisto della grande distribuzione coprono il 90 % del commercio al minuto, c’è molto lavoro da fare… Infine, bisogna pensare di inventare una vera politica monetaria locale. Per mantenere il potere d’acquisto degli abitanti, i flussi monetari dovrebbero rimanere il più possibile nella zona, mentre le decisioni economiche devono essere prese il più possibile a livello regionale. Secondo un esperto (uno degli inventori dell’Euro): «Incoraggiare lo sviluppo locale o regionale e conservare allo stesso tempo il monopolio della moneta nazionale è come provare a disintossicare un alcolizzato con il gin»21. Il ruolo delle monete locali, sociali o complementari è di mettere in relazione i bisogni insoddisfatti con risorse che altrimenti rimarrebbero inutilizzate. Le microesperienze sono numerose, dagli assegni dei sistemi di scambi locali, le monete fondenti, i creditos argentini, fino ai buoni d’acquisto specifici (trasporto, pranzi, fureai kippu in Giappone, “coupon de relation fraternelle”, per la cura degli anziani, ecc). Tuttavia, il riappropriarsi sistematico della creazione e dell’uso locale del denaro non è mai ancora stato tentato. La scala ideale per tale esperienza sarebbe senza dubbio ancora la bioregione. Bisogna pensare a immaginare delle monete “bioregionali”.
In sintesi, la regionalizzazione significa: meno trasporti, catene di produzione più trasparenti, incentivi per produrre e consumare in modo sostenibile, minore dipendenza dai flussi di capitali e dalle multinazionali e alla fine una maggior sicurezza in tutti i sensi del termine. Regionalizzare e ricontestualizzare l’economia nella società locale preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la base di tutta l’economia,
– apre a ciascuno un accesso più democratico all’economia,
– riduce la disoccupazione,
– rafforza la partecipazione (e dunque l’integrazione) e anche la solidarietà,
– fortifica la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress22.
Per concludere: iniziative locali e urbani decrescenti
In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita.
Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare la possibilità di fare dei passi avanti nella politica a questo livello. L’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri è interessante: riapertura controcorrente della stazione e del collegamento ferroviario, moltiplicazione delle aziende statali autonome per i beni comuni (acqua, trasporti, ma anche pompe funebri), creazione di piste ciclabili, di spazi verdi, mantenimento dei contadini locali e di piccoli negozi, rifiuto della speculazione immobiliare e dell’installazione dei supermercati. Tutto questo ha permesso di evitare una periferizzazione della città, considerata inevitabile trent’anni fa, e ha ridato senso al vivere localmente. L’organizzazione di un festival annuale del libro che coinvolge tutta la popolazione e la cui risonanza aumenta è un simbolo forte di questo rinnovamento. `
È importante fare conoscere le iniziative di ogni tipo e coordinarle. Collettività locali, dalla Carolina Nord a Châlon-sur-Saône, prendono l’iniziativa prima dello Stato e mettono a punto piani di lotta contro il cambiamento climatico. La riduzione di consumo di energia può ispirarsi all’esempio di BedZED (Beddington Zero Energy Development). Alcune regioni decidono di rifiutare gli OGM (L’Alta Austria, la Toscana, e addirittura la Polonia). Le ordinazioni delle collettività locali e degli stabilimenti pubblici (scuole, ospedali, ecc.) rappresentano una parte significativa delle ordinazioni pubbliche (12 % del Pil in Francia). Questo rappresenta una leva per diffondere la conversione ecologica nell’insieme dell’economia; basta imporre ai beneficiari buone pratiche ambientali attraverso il capitolato d’oneri d’appalto23. I municipi possono, per gli stabilimenti di loro pertinenza, prevedere rifornimenti che favoriscano imprese e negozi locali (Chambéry), imporre prodotti provenienti dell’agricoltura biologica per le mense e i ristoranti pubblici (Lorient, Pamiers), rifiutare l’uso dei pesticidi a vantaggio di tecniche meccaniche o termiche per la diserbatura (Rennes, Grenoble, Mulhouse), scegliere il compost piuttosto che i concimi chimici24. La promozione dei trasporti pubblici si sviluppa in alcune regioni francesi: il consiglio regionale della regione Rhône-Alpes, per esempio, ha approntato 400 treni in più dal 1997, rinnovato 115 stazioni e il 60 % del materiale. Il risultato è una crescita annuale della frequentazione dal 5 al 6 %25.
Fin da ora, conclude Yves Cochet, dobbiamo svolgere un ruolo attivo nella vita comunale participando alle elezioni, assistendo alle riunioni del Consiglio, diventando membri di associazioni che promuovono pratiche e culture della sobrietà; più zone pedonali e piste ciclabili invece di strade per il passaggio di automobili; più negozi di vicinato invece dei grandi centri commerciali; più piccoli edifici invece di grandi palazzi; meno spostamenti, più servizi in prossimità, meno circonvallazioni, meno zonizzazione urbana ecc.26. Bisogna sostituire il WTO (OMC) con l’OML (Organizzazione mondiale per la Localizzazione) con lo slogan: proteggere il locale globalmente27.
Note
1. Secondo l’espressione di Jean-Claude Michea, L’enseignement de l’ignorance et ses conditions modernes, Micro-Climats, Paris 1999.
2. Cfr. M. Augé e M. Revelli.
3. T. Paquot, Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, La découverte, Paris 2006 e Utopies et utopistes. Repères, La découverte, Paris 2007.
4. G. Clément et Louisa Jones, Une écologie humaniste, Aubanel, Paris 2006. 5. Si potrebbe allungare la lista delle “R” con: radicalizzare, riconvertire, ridefinire, ridimensionare, rimodellare, riabilitare, reinventare, rallentare, restituire, rendere, riscattare, rimborsare, rinunciare, ripensare, rieducare ecc., ma tutte queste “R” sono più o meno incluse nelle prime otto.
5. Si potrebbe allungare la lista delle “R” con; radicalizzare riconvertire, ridefinire, ridimensionare, rimodellare, riabilitare, reinventare, rallentare, restituire, rendere, riscattare, rimborsare, rinunciare, ripensare, rieducare, ecc., ma tutte queste “R” sono più o meno incluse nelle prime otto.
6. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975.
7. «Quattro tematiche possono strutturare lo spazio in divenire delle società di sobrietà, sottolinea Yves Cochet: l’autosufficienza locale e regionale, il decentramento geografico dei poteri, la rilocalizzazione economica e il protezionismo, la pianificazione concertata e il razionamento» (Y. Cochet, Pétrole apocalypse, Fayard, Paris 2005, p. 208).
8. Secondo la tesi di Stéphanie Böge pubblicata nel 1993 dal Wuppertal Institut, un vasetto di yogurt alla fragola di 125 grammi venduto a Stoccarda nel 1992, ha percorso 9115 km, se si sommano il percorso del latte, quello delle fragole coltivate in Polonia, quello dell’alluminio per l’etichetta, la distanza dalla distribuzione, ecc. (“Silence”, 167, 1993).
9. M. Bookchin, Pour un municipalisme libertaire, Atelier de création libertaire, Lyon 2003.
10. A. Magnaghi, Dalla città metropolitana alla (bio)regione urbana, in A.Marson (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 69-112.
11. R.A. Dahl, I dilemmi della democrazia pluralista, Il Saggiatore, Milano 1988.
12. Cfr. Carta del Nuovo Municipio, in www.nuovomunicipo.org.
13. News of nowhere/Nouvelles de nulle part.
14. Se la lingua è, come dice Martin Heidegger, la “casa dell’essere”, «la babelizzazione, come dice Thierry Paquot, permette non soltanto la diversità delle culture, ma anche modi di essere e di pensare». Essa participa di ciò che definisce una ecologia delle lingue (T. Paquot, Terre urbaine, cit., p. 181).
15. P. Bonora, op. cit., p. 118.
16. M. Singleton, “Entropia”, n.1, 2006, p. 52.
17. W. Hoogendick, Let’s regionalise the economy – and cure ourselves of a host of ills!
18. Y. Cochet, op. cit., p. 140.
19. C. Jacquiau, Les coulisses du commerce équitable, Mille et une nuits, Paris, 2006.
20. Cfr. N. Ridoux, La décroissance pour tous, Parangon, Lyon 2006, p. 11.
21. B. Lietaer, Des monnaies pour les communautés et les régions biogéographiques: un outil décisif pour la redynamisation régionale au XXIème siècle, in Jérôme Blanc, Exclusion et liens financiers, Monnaies sociales, Rapport 2005/2006, Economica, Paris 2006, p. 76.
22 W. Hoogendick, op.cit.
23 P. Canfin, L’économie verte expliquée à ceux qui n’y croient pas, Les petits matins, Paris 2006, p. 72.
24 Hulot, op. cit., p. 170.
25 N. Ridoux, La décroissance pour tous, cit., p. 86.
26 Cochet, op. cit., p. 200.
27 Secondo il suggerimento di Y. Cochet, op. cit., p. 224.
Tratto da: Serge Latouche, La decrescita come progetto politico urbano e locale26