Una ragazzina tedesca dotta di latino e di musica, figlia di un avventuroso medico ex gesuita, fece battere per qualche tempo, come causa externa, il cuore difficile di Baruch Spinoza. Era tra liuti e penombre, porcellane di Delft e classici pagani e cristiani. In quella casa di Amsterdam veniva anche, come allievo di Franz Van den Ende, che insegnava il latino, un Giovane Ricco, Dirck Kerckrinck, che col dono di una bella collana fece pendere dalla sua parte il favore di Clara Maria. Baruch la conobbe bambina, lungamente bevendo il filtro del suo latino in precoce fioritura: la delusione, se questa storia è vera, sarebbe intorno al 1660, quando già era un reietto della sinagoga, soldi per collane non ne aveva, e l’oggetto del suo fluttuare tra Laetitia e Tristitia, Amore e Odio, avrebbe avuto circa quindici anni. Tra gli appunti in olandese noti come Breve Trattato, alcuni sembrano riflettere, in movimenti come di sogno, l’amarezza patita: «Abbiamo il potere di liberarci dall’amore in due modi: o mediante la conoscenza di una cosa migliore, o sperimentando che la cosa amata, considerata prima grande e magnifica, porta con sé una quantità di conseguenze funeste». (Una di queste è illustrata nell’Ethica: la Gioia di una sola parte è negativa per il resto del Corpo). Il Trattato, subito dopo, vaga in profondità: impossibile sforzarsi di liberarsene, anzi è necessario non liberarsene. Per non amare, dice il giovane filosofo, bisognerebbe non conoscere, ma non conoscere equivale a non essere, e dall’amore non bisogna staccarsi perché «senza qualcosa di cui possiamo godere e che sia unito a noi e ci fortifichi, non potremmo esistere». Così chi non ama è come non fosse neppure nato. Si sente, nell’incatenarsi delle astrazioni, come un odore lontano di ferita viva. Altro non c’è, nella biografia di Spinoza, che abbia qualche remota cuginanza con l’amore carnale. La sua filosofia onora le nozze, la buona tavola, gli spettacoli, l’unione delle forze e il commercio degli uomini; la sua vita è appartata, diffidente e solitaria. Intima all’amore di fissarsi immobilmente in un prolixus schema geometrico, dove il battito umano sembra allontanarsi in un’infinita distanza. A volte però il guscio artificiale si rompe, e dentro puoi trovare qualcosa che ha il sapore dell’anima.
Questo scrutatore solitario riconobbe l’onnipotenza del Desiderio – ipsa hominis essentia –, la forza immane dei sentimenti: «La forza di una passione o di un sentimento può superare tutte le altre azioni dell’uomo e la sua potenza, in modo tale che questo sentimento rimane ferocemente attaccato all’uomo» (Eth. IV, prop. VI). C’è nel suo mite latino un acciaio di durezza biblica: «La passione è una carie per le ossa» (Prov. 14, 30), «Il desiderio è spietato come il sepolcro» (Cant. 8, 6). Due mesi prima della sua morte, fu messa in scena a Parigi per la prima volta la Fedra raciniana, dove lo spinoziano ita ut affectus pertinaciter homini adhaereat è da un verso magnifico, unico, incarnato: C’est Vénus tout entière à sa proie attachée. Certe verità spinoziane sono le stesse della poesia e del romanzo: non desideriamo una cosa perché la riteniamo buona, la riteniamo buona perché la desideriamo; la Gioia aumenta la potenza dell’essere, perciò l’Amore e il Desiderio excessum habere possunt; qualunque desiderio nato da un’esatta conoscenza del bene e del male può essere travolto dai desideri nati dalle passioni che ci dominano. Ma la Venere di Spinoza attaccata alla sua preda ha un nome gelatinoso e mortificante: Titillatio. Si può tradurre come Sensazione Deliziosa, ma non è un demone, non è Vénus tout entière; è una Venere eviscerata, in cui bisogna rimettere quel che l’anatomista astratto ha tolto d’indispensabile, di prezioso e di erotico. Ma la vera Venere Spinoza l’aveva in mente, perché la vede, come la passione, attaccarsi pertinaciter al Corpo e impedirgli di pensare e di fare altro.
Desiderio, Gioia e Tristezza sono i tre manipolatori della marionetta umana come soggetto di passioni. S’indovinano le loro mani instancabili dietro lo schermo di un piccolo Teatro d’Ombre dove si compiono senza fine un certo numero di azioni fisse, con variazioni impercettibili mai casuali, sempre necessarie. I tre manipolatori sono a loro volta impugnati da un manipolatore supremo, il conatus, il principio di autoconservazione soggiacente a quello di conservazione universale. Così l’uomo è la marionetta del principio che gli dà il potere sulle cose, e le sue gioie più forti sono il tripudiare della forza che disintegra ogni suo arbitrio.
Mi lascia estaticamente ammirato una trascrizione astratta del subbuglio umano come questa: «L’Odio che è vinto interamente dall’Amore si cambia in Amore, e l’Amore è per questa ragione più grande che se l’Odio non l’avesse preceduto» (Eth. III, prop. XLIV). Che un sistema così rigidamente intellettuale come quello che incarcera e delizia il filosofo, abbia di questi attraversamenti repentini delle voragini di Psiche, stupisce come un effetto teatrale. È un altro lampeggiare di testa tragica raciniana, un incrocio di segni, di elementi di dramma pronti a farsi maschera e favola, ad agire nello spazio senza limiti della scena barocca. È, dietro la tenda dell’Ethica, il suggeritore Spirito dell’Epoca. L’Ethica del profondo sconfessa l’Ethica allo scoperto che sostiene: «L’Odio non può mai essere buono» (Eth. IV, prop. XLV). Ecco là invece un Amore che sarebbe meno grande se l’Odio non l’avesse preceduto. Una bella favola erotica potrebbe servire da esempio, La Bella e la Bestia di Madame Le Prince de Beaumont. L’amore delicato della Bestia vince a poco a poco l’orrore della Bella, e finalmente il suo orrore in Amorem transit, e la metamorfosi della Bestia in uno sposo bellissimo ne è il premio. Certamente l’amore della Bella sarebbe stato meno forte, se l’orrore per la Bestia non l’avesse preceduto.
Interessante sarebbe un confronto tra qualche testo castissimo dell’Ethica III e IV e la dottrina sadiana dell’irresistibilità e legittimità dei desideri. Il Deus spinoziano perfettissimo non è in fondo meno amorale del non-Dio freneticamente bestemmiato da Sade. Concordo con l’osservazione di un interprete recente, Alexandre Matheron (però strutturalista, fiscaleggiante, privo di umano!), che l’uomo di passioni, secondo Spinoza, quando è abbandonato a se stesso, si comporta da uomo feudale. È così: l’uomo naturale è il libertino di Sade, è il signore di Rais, è David che rapisce Betsabea, Ammon che seduce la sorella tra le focaccine. Spinoza, costretto dalla propria ragnatela a mettere tra le perfezioni anche le peggiori scelleratezze, gli contrappone, come modello buono, il cittadino, specialmente l’olandese. Di meglio non c’è che il sapiente, predestinato a essere libero dalle passioni. Il demone della Gelosia è analizzato con intrepida bravura nella tesi trentacinquesima dell’Ethica III, dove il velo geometrico si straccia solo a guardarlo. L’occhio del filosofo si fa coltello: «Chi immagina la donna amata mentre si dà ad un altro, non si contrista soltanto per il colpo inferto al proprio desiderio, ma anche perché è costretto ad immaginare la cosa amata unita alle vergogne e alle escrezioni di un altro, e ad averne ribrezzo». Nel Furioso XXIII, Orlando, dopo la scoperta dell’amore di Angelica e Medoro, è inorridito dall’aver dormito sull’erba dove potrebbero essersi posati gli amanti, gli sembra un verminaio.
Di eccezionale finezza è l’osservazione che la res amata non presenta più al Geloso lo stesso volto di prima, rattristandolo. (E la tesi ventunesima dice, infallibilmente: «Quando una cosa è colpita da Tristezza, è in certa misura distrutta»). Tutto è lì: se il volto non mutasse, cadrebbe forse l’orrore per quei pudenda et excrementa alterius. Ma come potrebbe senza grandissima simulazione mantenersi inalterato il volto? Un’altra impensata combinazione è la gelosia di Arnolphe nell’École des Femmes di Molière: il volto di Agnès, pieno di candore, è sempre lo stesso, non c’è mescolanza con l’impurità di nessuno, appena una vaga occupazione di pensiero, eppure Arnolphe soffre subito come un dannato. C’è anche una Tristezza (prop. XXXVI) relativa all’assenza, nei successivi incontri, di tutte le circostanze del primo, se il primo è stato strabocchevole di delectatio. Basta che una sola manchi, perché l’amante sia rattristato (spinozianamente semidistrutto). È l’origine del Rimpianto, un’altra specie di malinconia d’amore che prepara il terreno alla Gelosia, che le circostanze uniche ricrea a favore di altri.
Spinoza non ama il mistero; a volte, per scioglierne uno, si limita a fare dei guasti nell’insolubile. Parlando della Simpatia e Antipatia che determinano amori e odi a prima vista, nega che siano certe qualità occulte delle anime e dei corpi ad alimentarle, ma alle proprietà misteriose non sostituisce nient’altro che la sua certezza che si tratti invece di qualità note e manifeste. Proviamoci a spiegare razionalmente le cause dell’attrazione e della repulsione, arriveremo soltanto a compilare elenchi di qualità esterne. Lo spinozismo banalizzato che è il fondo della scienza attuale la condanna a un potere impotente, a un eccesso di controlli, esperimenti, statistiche, a cui sfugge l’anguilla delle verità profonde. Dalle res singulares non si vede Dio. Trovo l’abito di Spinoza invariabilmente largo di maniche e stretto di collo; barocco, più che adeguato alla figura. Come si può ridurre le passioni a «idee confuse», dopo averne riconosciuto la potenza e l’inesorabilità, indagato le complicazioni? E il rimedio come può consistere nel farsene clarum et distinctum conceptum? Pervenuti a un’idea chiara e distinta delle loro curiose titillationes, Gilles de Rais o il rapitore di bambini del Rummelplatz se ne starebbero calmi e buoni? L’idea chiara e distinta è l’effetto normale della guarigione, non il rimedio per guarire. E la conoscenza spinoziana non porta che alla visione della concatenazione necessaria, dell’immanente divinità di tutto, e a dire: sono così perché sono così. Non si tratta di idee imbrogliate da chiarire, o la divina necessità si permetterebbe qualche scherzo. E a un amante disperato l’Ethica serve quanto un trattato sulle gambe a un amputato. L’amputato vuole le sue gambe, non un’idea adeguata del taglio delle gambe. Sublime, armoniosissima Natura Morta del Seicento Olandese, l’Ethica può guarire soltanto un piccolo numero di sani.
Tratto da: Guido Ceronetti, La vita apparente
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