Dubbi circa la morte di Dio, ne ho molti; sulla morte del Cinema, nessuno. Non esistendo certificati, è difficile datarla.
Direi che la sua è stata una lunga, lunga vecchiaia, cominciata presto, con ritorni di giovinezza repentini (una quindicina d’anni di prodigi giapponesi, Kurosawa alla testa) e rallentamenti felici dell’inesorabile senescenza: oggi è unicamente un soggetto da evocazioni, come la rivoluzione dell’Ottantanove o quella del Diciassette. Aveva ragione Gordon Craig: il teatro non sarebbe stato messo da parte dal cinema trionfante, e infallibilmente, dopo qualche decennio ancora, avrebbe stravinto. Se non fosse per il teatro, nessuno di sera uscirebbe più di casa.
Dopo appena trentacinque anni, questo grande sordomuto si mise a parlare. Morì la sua irresistibile comicità, quel giorno; e poiché era comico, nel cinema, anche tutto quel che era serio (le vite di Gesù, il sadismo allusivo), si può dire che la sonorizzazione lo sciabolò mortalmente. Aveva tuttavia già accumulato qualche tesoro: all’epoca di Weimar e del delirio rivoluzionario bolscevico.
C’era, a volte, in quel mutismo una così forte nostalgia musicale da valere ben più d’ogni successiva «musica da film». Ejzenštejn concepì e realizzò come un autentico brano sinfonico la sequenza della scalinata di Odessa: il ritmo movimenti, il battito delle immagini, arrivano allo spettatore come folgorante corrispondenza acustica. Il regista creò anche il pentagramma: la scalinata, che nella realtà urbana non esisteva.
In quel crepuscolo, tra muto e sonoro, tra due modelli d’ombra, ecco una memorabile colonna sonora: di M, il capolavoro berlinese di Fritz Lang. Niente musica da film – farciture di volgarità, discariche di facilità, con rari azzeccamenti e fusioni –, solo sapiente orchestrazione di rumori urbani essenziali, di suoni necessari, di richiami, e l’inesorabile motivo del Peer Gynt di Grieg fischiettato da Lang stesso, per contrassegno del mostro.
La musica è, in ogni caso, un’esca, un modo di lusingare e di imburrare la tartina, una trappola, e va usata con parsimonia e con diffidenza. In una ventina d’anni, il sonoro bruciò tutte le possibili applicazioni della musica alle immagini, dopo non furono che ripetizioni: l’irrompere del cancan nel deserto di Atlantide di Pabst, il corale di Bach nella bottega dove il soldato uccide Michel Simon in Quai des brumes di Carné, qualche canzone del western, la battaglia sul ghiaccio illustrata da Prokofiev in Aleksandr Nevskij, restano memorabili feste dell’arte e della conoscenza.
Céline trattava il cinema, proprio nei suoi anni d’oro, da abbrutitoio pubblico; certo fu un potente addormentatore di menti, una tomba del pensiero, un vizio (da adolescenti, si andava al cinema più volte la settimana, bevendo tutto) e un tremendo martello, prima della televisione, per sfondare i crani con propagande bieche.
Tuttavia, in parte, lo assolverei. Nel mondo andava scomparendo la festa pubblica, tutto quel che era barlume superstite di dionisiaco smembrato, i balli delle ricorrenze agricole, gli addii delle mondine, il teatro di strada, i fuochi di San Giovanni; andare al cinema (la cassa, il biglietto strappato, la pesante cortina di velluto come passaggio del Lete), in quell’immenso agonizzare mondiale della festosità tradizionale, tamponava l’emorragia. È strano come anche il cinema più inquietante (il meglio era proprio l’inquietante, un alito in faccia di ambiguo, il profluvio di occulto risvegliato inconsciamente o calcolatamente dai giochi dell’Ombra) agisse in fondo, quasi sempre, da ipnotico, da calmante, non avesse altro effetto che il puro divertimento, fossero gli incubi di Metropolis o l’allegria di Lubitsch.
Il cinema fu mantello della Madonna della Misericordia per un mondo che non solo uccideva la festa ma si andava facendo sempre più vasocostrittore, zeppo di profughi, di deportati, di facce impietrite dallo spavento.
Dava gioia per poche lire, pochi franchi, pochi centesimi di dollaro.
Visse in modo passabilmente onesto finché mantenne questa funzione di surrogato della festa e di spaccio del divertimento nel senso più letterale, in cui uomini di eccezionale talento e volti che s’impressero in milioni di povere esistenze stupite pigliarono talvolta, qua e là, in mezzo alla moltitudine dei mestieranti, il comando, imponendo addirittura uno stile. È verissimo che favorì la crescita di un’umanità sempre meno pensante, però medicandola di tante incresciose mutilazioni, Dio, patria, libertà, avventura, gli spazi aperti, il lavoro indipendente, le campagne, la gloria militare, l’amore.
Ma da quanto tempo non dà più gioia e non è più neppure surrogato di gioia e di avventura, da quanto tempo il Dio ha abbandonato Antonio? Da allora, confini di tempo incerti, si può datarne la morte peggiore, la fine di quanto può giustificare una sopravvivenza. L’abbrutitoio mescolato di genialità e di carezza ipnotica, di rivelazioni del volto, deposito tuttora di paesaggi e luoghi perduti, si assolutizza, diventa pura volontà di abbrutire.
Assolutizzandosi come macchina d’abbrutimento (insieme a tante altre; non è la sola, fa la sua parte) e pura industria di morte, diventa un mort malfaisant, le distinzioni non servono più e il certificato di morte è scritto in ogni prodotto in circolazione.
Qualcuno che pareva morto, e invece era solo un po’ in disparte, si rivela sorprendentemente vitale: il Teatro d’Ombre.
«Ah sì, l’antenato del Cinema!».
Antenato per niente. È un teatro, ed è rimasto tale. Tutt’al più il cinema è frutto di una vaga copula tra Fotografia e Lanterna Magica animata. Ha anche un padre spirituale, però di vita più lunga della sua, di respiro più largo: buona parte del romanzo, del racconto dopo 1850, nel quale si agita uno spirito cinematico, una prurigine spermatica di movimento via via più veloce, associato all’immagine e alle trasformazioni delle città in labirinti di disperazione. Prendiamo Zola. Non ha solo generato dei film (tra cui qualche capolavoro, come La bête humaine di Renoir), fu padre del cinema più dei due siamesi Lumière… E non di muto, ma di sonoro, per la quantità dei suoni emessi da tutto quel mondo in movimento. Germinal è un’epopea cinematografica restando pagina: tolto di là non è riuscito ad essere che del cinema miserando, fino ai nostri giorni, e se si voglia un film realmente memorabile sulla Comune di Parigi, il capolavoro è nelle sequenze comunarde della Débâcle.
Per quanti film si siano fatti sullo Strano Caso del dottor Jekyll, il più geniale dei suoi registi si chiama Stevenson. In più c’è l’emozione puramente noetica, che il cinema è impotente a trasmettere.
I film che ho amato di più e che rivedrei almeno una volta all’anno saranno una ventina. Riducendo l’elenco a quattro resterebbero M di Lang, Les enfants du Paradis di Carné, Mezzogiorno di fuoco di Zinnemann e Dies irae di Dreyer. A questo darei il primato dell’emozione.
I più bei paesaggi me li regalò Antonioni con le sue visioni del Po e la metamorfosi dell’assurda inabitabile EUR in astratta cifra poetica nell’Eclisse. Le più struggenti dichiarazioni d’amore sono del nano di Nazarín di Buñuel che frenetico e radiante grida alla prostituta portata in galera: yo te estímo muchisimo e le getta un’arancia per la lunga marcia nel deserto, e dell’uomo del risciò, nel film di Hiroshi Inagaki, che ai piedi della donna di rango troppo superiore supplica di essere perdonato per il suo sentimento insensato.
L’esecuzione capitale più entusiasmante è in America America di Kazan (il bravo ragazzo armeno che uccide il bandito turco, che dopo averlo svaligiato non finiva di insultarlo) e la più commovente, superfluo dirlo, è nel finale di Casque d’or di Becker, canto del cigno del cinema di Francia. Il più intenso volto femminile fu l’inglesina Rita Tushingham. Maschere d’attore più impressionanti di Humphrey Bogart non ne nasceranno più.
Come logotipo animato il leone ruggente dentro il cerchio della Metro-Goldwyn-Mayer non ebbe né avrà uguali nel suscitare l’attesa appassionata, nel consegnare già stregato al film, quale che fosse, lo spettatore.
Per lo zaino dei ricordi ce n’è abbastanza. Guai aver visto tutto. O continuare, per monotona abitudine, a vedere.
Dappertutto chiudono sale: ed è bene. Molte, purtroppo, restano aperte, trasformate in macellerie del sesso. Ma al Duemila ne arriveranno meno che balene.
Il cinema non mi manca affatto: è giusto essere sazi, ormai, arcisazi, di immagini irreali in movimento artificiale, come di divenire. Lo vedo dannoso e nemico, alla pari delle industrie più inquinanti, turismo di massa, petrolchimico, nucleare.
Il risorgere, anche da noi, del Teatro d’Ombre, è significativo. Le sue figure sono ombre autentiche, non fotografate, non irreali. Hanno del religioso e il soffio energico dell’atemporalità.
E nella fotografia statica, documentaria, trovo contenute più poesia e più forza emozionante che nell’immagine cinematica. Il suo racconto è aperto, un piccolo spazio senza limiti per il sorgere e il dilatarsi del sogno.
1995
Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza Adelphi