Ci sono stupidaggini per ogni età, ma la vecchiaia è quella costretta a trangugiarne di più. Il nostro stomaco si restringe agli alimenti per allargare la disponibilità ad accogliere scemenze. Faccio un piccolissimo elenco delle più vergognose: «Non è vero che sei vecchio»; «Alla tua età si fanno ancora una quantità di cose»; «L’importante è mantenersi attivi»; «Chi è attivo è sempre giovane»; «Settantacinque? Signora, ma Lei è una ragazzina!»; «Lavorare coi giovani: ecco il segreto»; «Ha solo i guai dell’età, ma che testa lucida!»; «Che faccia piena di salute!». Sulla rimozione della parola «vecchio», «vecchiaia», una vera amputazione del linguaggio (surrogati: «anziano», «persona anziana», «terza età»), l’ottimismo totalitario è particolarmente duro. I vecchi stessi oggi sono terrorizzati dalla parola «vecchio», che i loro antenati vecchi non ebbero mai timore di usare e di udire.
La refrattarietà al luogo comune è causa di grandi sofferenze. Non c’è parola pronunciata che non lo sia, in questa strage definitiva della comunicazione orale autentica; soltanto la parola scritta di un certo tipo consente delle tregue. Dopo sessanta, settant’anni di attraversamento avanti e indietro dell’inferno del luogo comune, s’invoca la barca di Caronte, che ci porti al sicuro, e torna indietro senza di noi. Ogni volta che vedo una bocca, davanti a me, che sta per aprirsi, negli incontri e nei casi ordinari, i reni mi avvertono che dovrò, al colpo secco del luogo comune che mi verrà sparato, essere pronto a replicare con un colpo perfettamente uguale, e ho la sensazione d’angoscia di non possedere altra scorta, a portata di labbra, che di deboli, arrese ironie. Ma i buoni spari di battute di piombo, che fermando l’attacco di ottimismo ti fanno risorgere dai morti, dove sono finiti? Quella bocca di fronte a me, spietata, me li ha fatti smarrire. «Fui giovane e ora vecchio» dice il salmo 37: ho ascoltato e pronunciato miliardi di miliardi di parole, e soltanto poche decine non saranno stati luoghi comuni.
Anche tripartire o quadripartire la vita, che è unità indivisibile, è lavoro di luogo comune. Non c’è giovinezza non penetrata di vecchiaia, né vecchiaia smorbata di giovinezza. Il paragone con la «giornata», e il ritmo quotidiano del sole, ci ha profondamente sviati: l’infanzia non è un’alba, la giovinezza non è il mezzogiorno, la vecchiaia non è un tramonto. Siamo forse dei soli? Il sole che si leva è un astro decrepitissimo e quando tramonta è invecchiato in modo assolutamente insignificante, e il mezzogiorno è la sua ora più maligna. Nell’unità microcosmica uomo, nascita-morte, infanzia-vecchiaia sono uno spettro bianco di contemporaneità non frammentabili, un mistero del tempo che si rinnega come tempo, e su quel bianco sono scritti dei dati d’anagrafe, inventati per non tornare svegli.
La memoria, creatrice delle distanze nel tempo (i ricordi, «mi ricordo di…», gli «allora», eccetera), è in realtà la più bella prova dell’unità temporale assoluta perché rivela come presente dei fatti e degli oggetti che se fossero stati realmente perduti non avremmo mai ritrovato, perché semplicemente mai esistiti. È una delle infinite passività di fronte ai fenomeni, credere che il vecchio, in cui sono frequenti le lacune, perda la memoria: è molto più giusto dire che la «memoria ci abbandona», perché la sua verità ultima non sono sprazzi luminosi ma il buio. Si può dire che la memoria è sorella del nulla, sebbene sia quel che ci fa più vivi; però, se il nulla non fosse che figlio della memoria?
In tutte le rappresentazioni dei morti (verità di visione: le più vere che abbiamo), i morti non compaiono mai con vuoti di memoria: nella dissoluzione della carne, la memoria sussiste come unità indivisibile senza tempo. Incontrando delle «anime» ritenute morte, Dante non incontra che delle memorie, tutte memorie viventi, in pena come Francesca o beate come Piccarda o Cacciaguida, e da queste memorie vive di storicamente morti è irradiata sul «poema sacro» una luce di presente inscalfibile. I morti perdono la memoria (la memoria non s’incarna più nelle ombre) man mano che il finito invade il tempo storico come presagio e sintomo, direbbe un vecchio cristiano, di Anticristo. In una parola poetica in cui l’infinito non è che un travestimento del finito, un «coro di morti» non racconta che la propria nudità di memoria («Che fu quel punto acerbo, / che di vita ebbe nome?», Leopardi, Ruysch), mentre in un’altra parola, che pure gli è posteriore, impregnata d’infinito reale, i morti hanno «dei grandi dolori» (Baudelaire, La servante au grand cœur), e tornano ad essere, o ancora sono, delle «memorie», le quali sono sempre dolorose, la concentrazione di tutti i dolori di una e di molte vite.
Forse qui tocchiamo qualcosa di essenziale circa la patologia dell’idea di vecchiaia in Occidente, alla fine del ventesimo secolo.
Trattandosi di un’idea spruzzata al titanio di ottimismo resistente a tutto, non può che nascondere dei visceri devastati.
Si martella con brutalità e mellifluità che la vecchiaia non è un male, per il terrore che lo sia troppo. Anche chi la sperimenta come male, e grande male, è spietatamente obbligato a pensare il contrario. Nella morte di Dio tutti i terrori sconfinano, non ci sono dighe.
Sbarrata ogni conoscenza dell’unità di essenza, in cui le «stagioni» della vita si dissolvono in un presente unico, la vecchiaia, capovolta da male accertato in smorfie di pseudobene, si trova circondata, nel riflesso sociale, da una solida recinzione di pericolo. Qui la frontiera dell’andata-in-pensione traccia una linea di fumo e fuoco: al di qua il brulichio festoso e incessante, al di là la simulazione, la cessazione, l’abbandono con esumazioni festive, un riposo maledetto, la pioggia di farmaci per fermare il tempo, lo scalciare dell’anima nel cerchio e nell’esclusione. Si attenua fortemente la stessa infamia connessa con l’assassinio: si piange nel suk dei giornali per il trentenne «padre di due figli» che viene ucciso, ma neppure una goccia di questa pietà del coccodrillo è versata se la vittima è un «nonno di quattro nipoti». Già Raskolnikov, persuadendosi ad uccidere la vecchia usuraia, pensava: «Non è che una vecchia».
Appena esaurite, intorno alla «anziana signora» uccisa a coltellate, le formalità solite, tutte le premure si concentrano su chi gliele ha inferte, tanto più quando sia di età giovanissima. Non ricordo di aver letto una sola riga di compassione per la vecchia maestra orribilmente massacrata dalla sedicenne Paula Cooper in un sobborgo di Chicago, mentre a favore dell’assassina condannata alla sedia elettrica si commosse l’universo, con diluvi di petizioni e di firme: due facce della stessa indifferenza al male.
Che cosa nasconde tanta benevolenza facile per un assassino giovane, e il buttare via subito l’immagine curva e semicieca di una vittima ottantenne? E l’assenza di orrore, fino ad un’infastidita indulgenza, per dei giovani parricidi coscienti (sempre più numerosi) che si instaura su una rapida soppressione del ricordo dei padri (neppure tanto vecchi!) da loro uccisi? Mancando il senso dell’unità e indivisibilità temporale dell’esistenza, un tempo è ritenuto «migliore» e «con più diritti», per tacita connivenza di tutti: la giovinezza – illusione romantica (Leopardi) che porta, nei giudizi, ad assolvere i più giovani, a concedergli ogni specie di attenuanti, e nelle famiglie a «permettergli tutto» (anche l’uccisione dei parenti).
Per dare a questo il nome di pietà bisognerebbe definirla pietà satanica, ispirata dal Malo. La pietà vera non rinuncia al senso del giusto, addolcisce il castigo ma non l’ostacola. Ci vengono protratti i giorni, per esporre indifese file e file di corpi indeboliti alle aggressioni e agli insulti di giovani furie imbarbarite.
1991
Tratto da: Guido Ceronetti, Cara incertezza