Teodor Cerić

Ora lei mi chiede di scrivere un articolo, in aggiunta a quelli che ho già inviato alla sua rivista. Sul mio giardino. Vuole che le spieghi com’è nato, quali vegetali vi ho piantato e come, dice lei, è «strutturato lo spazio». Vorrebbe sapere se ha un nome, se è aperto sul paesaggio o chiuso in se stesso, se è selvatico o ben ordinato, e altre cose dello stesso genere. Per giunta, lei è sicuro che esso sia abitato da un genius loci. I giardini dei poeti, mi scrive, lo sono sempre…

Sono dispiaciuto di dover deluderla. Non posso scrivere niente sul mio giardino.
Il suo genius loci, non so bene cosa sia. Se si tratta semplicemente di quella musica che mi sembra di sentire a volte, quando, posata la zappa, mi siedo sotto una quercia e chiudo gli occhi, sappia che sparisce non appena tento – un vecchio riflesso di studente di cui, alla mia età, non mi sono ancora completamente liberato – di capire cosa dice. Questa musica è soltanto vento, lei lo sa. È il canto degli uccelli e il rumore delle auto lontane, è la pioggia che cade sulle foglie degli alberi, con le pause di silenzio durante i canicolari pomeriggi estivi. Si tratta soltanto delle energie presenti nella natura, che si concentrano in un giardino. È ovunque, questa musica, e non si ferma mai, anche se la si sente soltanto a tratti, vale a dire nei pochi momenti di grazia che la vita ci concede.
Così, quando questo accade, ormai mi limito ad ascoltare. Perché abbiamo poco tempo da perdere, non è vero? Ed essere qui (è la lezione del giardino, quella che io – testone – devo tornare a imparare ogni giorno) non è cosa da poco. Il più piccolo uccellino lo sa. Il più piccolo sasso sul bordo della strada lo proclama, quando il sole lo scalda o il gelo lo spacca a metà. Loro, che sanno soltanto essere presenti alla vita.
No, non c’è tempo da perdere. Ecco perché evito quanto più posso le distrazioni che ci distolgono da ciò che è semplice e immediato. E le parole, quando si vuol fare poesia o quando le si usa per cogliere la realtà, come direbbero i filosofi, sono la peggiore delle distrazioni. Non ho niente contro le parole, si rassicuri, è soltanto che ci rinchiudono un po’ di più in noi stessi, quando ci avevano promesso il contrario. Ci tagliano fuori dal mondo, quando è verso il mondo che noi tendevamo le braccia. Le «presenze terrestri» di cui parla la nostra amica comune,1 quelle sorgenti vive che scaturiscono costantemente nella natura, esigono da noi uno sguardo amorevole, non chiedono di essere dette; ancor meno, capite. Una parola o due, tutt’al più, come quando i bambini dicono «Bello» o «Buono».

Lei mi fa notare che io ho pur scritto parecchi articoli per la sua rivista. È vero. Sappia però che me ne pento. Li ho scritti, credo, spinto dalla gratitudine che provo ancora per quei giardini che in passato, quando mi sono ritrovato solo, senza più punti di riferimento (a parte i poeti che avevo amato da studente e il peso dei miei ricordi), mi hanno fatto intravedere la possibilità di un luogo, su questa terra, dove mi sarei sentito come se fossi tornato, finalmente, a casa. Uno spazio che le guerre avessero risparmiato. Scrivere su quei giardini, mi sembrava, insomma, un atto dovuto.
A meno che non fosse per una ragione meno nobile.
L’illusione più temibile della scrittura è quella che consiste nel farci credere che essa può abrogare lo spazio, e anche il tempo, rendere di nuovo presente ciò che non lo è più, o raggiungibile ciò che è perso per sempre. Credo di aver ceduto alla tentazione. Ed è vero che, mentre cercavo di far rinascere quei giardini sulla pagina, li ritrovavo là dove li avevo lasciati, li percorrevo di nuovo, con la stessa gioia, come se fossi ancora il giovane cane randagio di quegli anni o come se quei luoghi non fossero invecchiati. Un’illusione, ma così piacevole! Sì, mi pento di quegli articoli, ma non del tutto.

Ciò che posso dirle sul mio giardino è che non ha niente di straordinario, soprattutto per lei che è abituato ai giardini di Francia, di cui ben conosco la raffinatezza. All’interno del suo muro di cinta, vi sono alberi, c’è erba che in questo momento, al di là della finestra del mio studio, si muove appena alla brezza della sera, ci sono fiori, rospi che fra poco si metteranno a gracidare tutti insieme, facendo tremare la casa, ridestando nel mio petto una felicità ma anche un sentimento strano, una sorta di turbamento a cui non riesco ancora ad abituarmi.
Cos’altro dire?
Che è un figlio della nostalgia, sì, ma di una nostalgia esente da ogni rimpianto e che non ci relega nel passato. Che, al contrario, ci àncora al presente, come se fossimo – che so? – un albero, con le radici ben affondate nell’oscurità della terra e la testa esposta ai quattro venti. Forse lei lo sa: i giardini – tutti i giardini, dal parco di Versailles al più piccolo orticello di periferia – nascono dall’amore più disperato che esista, l’amore per una vita che non si è conosciuta ma che ci è familiare, cara come una madre perduta, e che non smette mai di chiamarci. Da un desiderio che lì, in mezzo alle piante, si placa, non brucia più, diventa, al contrario, una promessa.
E, come qualsiasi altro giardino, il mio si limita a passare. È la forma che avrà preso il mondo, per qualche tempo, in questo recesso oscuro dell’Europa che pochi anni di guerra hanno devastato. Sparirà, come tutto ciò che è vissuto e ha espresso, per un momento, il canto incessante della terra, gioioso, talvolta doloroso… Sì, quella musica di cui le parlavo poco fa e che prosegue, mentre scrivo, al di là della mia finestra aperta.

Sparirà, ma per il momento è qui. Lo ritrovo ogni mattina, quando esco di casa all’alba e immancabilmente mi fermo, sbalordito, davanti a tanta grazia che appare per me, soltanto per me, uscendo dalle tenebre. Lo guardo fremere, come una bestia selvaggia della foresta che, per non so quale miracolo, abbia acconsentito a lasciarsi addomesticare. Dico a me stesso che, acquattato nel buio della notte, aspettava che mi svegliassi. Un’illusione, forse. O forse no. Come che sia, il solo gesto di cui sono capace allora è spegnere la sigaretta e andare subito a prendere i miei attrezzi da giardino nella rimessa.
Dato che mi è fedele, devo essergli fedele a mia volta, e aiutarlo a essere ancora più bello, a manifestare lo splendore del mondo con maggior forza, con una voce ancora più chiara. Come se un giorno quella voce potesse diventare finalmente la mia.
Non è forse questa – mi dica – la promessa del giardino? Non è questa la speranza più segreta dell’uomo? Tornare alla terra, fare di nuovo corpo con essa, e parlare finalmente la sua lingua… no, essere la sua lingua. Una nota fra le altre in questa musica senza inizio né fine.

1 Cerić si riferisce qui a un testo della scrittrice francese Claude Dourguin apparso nella rivista Jardins. Cfr. «Présences terrestres», in Jardins n. 5, marzo 2014.

Tratto da: Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, Edizioni Ponte alle Grazie

One thought on “Teodor Cerić

  1. adorabile Marco Martella di lui ho già letto ” e il giardino creo l’uomo” oggi faro un salto in libreria. grazie Alessio

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