«[…] Il viaggio fu piacevolissimo. I cavalli, quattro animali robusti, tarchiati e sazi, battevano con ritmo forte la buona strada non ancora polverosa. Passavano a tratti, accanto alla vettura, rovine di rocce dalle cui connessure spuntavano erbe e fiori; pali del telegrafo correvano in senso inverso, boschi montani salivano, graziose curve presto raggiunte e oltrepassate intrattenevano l’interesse dei gitanti. In lontananze soleggiate si elevavano cime ancora coperte di neve. Si lasciavano i dintorni della nota valle, e gli occhi si rallegravano alla vista dei nuovi panorami. Ben presto le carrozze si fermarono al margine del bosco. Da là si doveva proseguire a piedi e raggiungere così la meta, una meta con la quale, già da tempo, i sensi dei gitanti stavano in contatto, un contatto dapprima debole e incosciente, ma che, via via, diveniva più forte. Non appena tacque il rotolio delle carrozze, tutti udirono un rumore lontano, un leggero gorgoglio, uno scrosciare, un rombare che, a volte, improvvisamente cessava per ricominciare subito dopo. I gitanti si sollecitavano a vicenda a porgervi orecchio per distinguerlo ed ogni tanto, quasi costretti da una forza ignota, si fermavano ad ascoltarlo.
– Ora, – disse Settembrini, che non era nuovo del luogo, – non è niente, è una cascatella timidetta, ma vedranno sul posto; in questa stagione è addirittura brutale, si preparino; non sentiremo più neppure le nostre parole.
Così si addentrarono nel bosco per una strada cosparsa di umidi aghi di pino. Mynheer Peeperkorn camminava davanti agli altri appoggiato al braccio della sua compagna di viaggio, col cappello calcato sulla fronte, col suo passo curiosamente dinoccolato. Dietro a loro veniva Giovanni Castorp, senza cappello come tutti gli altri compagni; con le mani in tasca, fischiettava sottovoce guardando intorno a sé. Seguivano Naphta e Settembrini, poi Ferge con Wehsal. Chiudeva il gruppo il Malese, solo, con la cesta della merenda. I gitanti parlavano del bosco.
Quel bosco non era come gli altri, offriva un aspetto pittorescamente strano, anzi addirittura esotico. Vi abbondava una specie di lichene muschioso che pendeva da tutti gli alberi. In lunghe barbe di colore incerto quella vegetazione parassita copriva addirittura le piante, cosicché non si vedevano quasi più gli aghi dei pini ma soltanto festoni di muschio. Era una deformazione pesante e bizzarra, una vista magica e morbosa. Il bosco non stava bene, era ammalato di quel voluttuoso lichene che minacciava di soffocarlo, tutti i componenti del piccolo gruppo che stavano attraversandolo erano della stessa opinione. Intanto la meta si avvicinava, il gorgoglio diventava via via uno scroscio e la predizione di Settembrini pareva avverarsi.
Una svolta nella strada rese visibile il burrone boscoso e roccioso sormontato da un ponte, ove l’acqua andava a cascare. Nell’atto in cui questa vista si presentò agli occhi dei gitanti essi ne udirono anche il rumore in tutta la sua forza. Era uno spettacolo infernale. Le masse d’acqua cadevano in linea retta unendosi in una sola cascata alta sette od otto metri e di larghezza proporzionata, poi precipitavano giù per le rocce. Precipitavano con un fragore insensato nel quale parevano mescolarsi ogni volta rumori e suoni: echeggiare di un tuono, ruggiti, urli, strombettii, scoppi, schianti, rimbombo e suono di campane. Era una cosa che sbalordiva, che levava di senno. I gitanti s’erano avvicinati all’orlo sdrucciolevole della roccia. Sfiorati da un’aria umida, spruzzati, avvolti nel polverio dell’acqua, con le orecchie ovattate di rumore, scambiando sguardi e scotendo la testa con sorrisi intimiditi, contemplavano lo spettacolo di quella continua catastrofe fatta di spuma e di fragore, il cui rombare pazzo ed eccessivo li assordava, suscitava in essi un senso di timore ed era causa di illusioni sensorie. Difatti essi credevano di udire dietro a sé, sopra di sé, ad ogni lato, richiami e ammonimenti, trombe e rozze voci maschili.
Schierati dietro a Mynheer Peeperkorn (la signora Chauchat era fra gli altri cinque gitanti) tutti guardavano la cascata. Non la vedevano in viso, ma la scorgevano scoprire il capo fiammeggiante ed allargare il petto nella frescura. Si intesero fra di loro per mezzo di segni e sguardi, perché in realtà le parole, anche se gridate all’orecchio, sarebbero rimaste soverchiate dal tremendo scrosciare. Le loro labbra formulavano esclamazioni di meraviglia e di ammirazione che rimanevano senza suono. Giovanni Castorp, Settembrini e Ferge si misero d’accordo a segni per salire sulla sommità del burrone nel cui fondo si trovavano, e di raggiungere il ponticello superiore per guardare da là le acque. La strada non era scomoda. Una fila di gradini stretti, scavati nella roccia, conduceva come ad una specie di piano superiore del bosco; essi li salirono in fila indiana, raggiunsero il ponte e da là, sospesi sopra la curva della cascata, appoggiati al parapetto, fecero cenni di saluto agli amici rimasti in basso. Poi discesero a fatica dall’altra parte e giunsero al di là della cascata, donde un altro ponte li portò nuovamente in cospetto dei rimasti.
I cenni si riferivano ormai al rifocillamento vespertino. Da varie parti si propose, sempre con lo stesso mezzo, di ritirarsi un poco dalla zona di rumore per gustare la merenda con l’udito libero dall’oppressione di quel fragore che rendeva sordi e muti. Ma si dovette riconoscere che la volontà di Peeperkorn era contraria. Egli scosse il capo, puntò ripetutamente l’indice verso il fondo e le sue labbra irregolari staccandosi a fatica l’una dall’altra formularono un “qui”. Che cosa si poteva fare? In simili questioni egli era padrone e signore. La forza della sua personalità si sarebbe imposta anche se egli non fosse stato, come lo era sempre, ideatore e direttore dell’impresa. Mynheer voleva rifocillarsi in cospetto della cascata, in mezzo al fragore ed ai tuoni; quest’era la sua capricciosa imposizione. Chi non voleva sottomettersi doveva rinunciare allo spuntino. Quasi tutti erano scontenti. Il signor Settembrini, che in quel modo vedeva tolta la possibilità di un nuovo scambio di chiacchiere democratiche e signorili a un tempo, o anche di una buona disputa, sbatté, col suo gesto caratteristico di disperazione e rassegnazione, la mano sulla testa. Il Malese si affrettò ad eseguire gli ordini del padrone. Due seggioline pieghevoli furono da lui messe a disposizione di Mynheer e di Madame, lungo la parete rocciosa. Poi egli depose ai loro piedi il contenuto della cesta: tazzine e bicchieri, bottiglie, thermos, dolciumi e vino. Fu fatta la ripartizione, poi, chi sedette sopra un masso, chi sul parapetto del ponticello, con la tazzina di caffè caldo in mano e il piatto sulle ginocchia. E si fece merenda in silenzio in mezzo al fragore.
Peeperkorn, col bavero del soprabito rialzato, aveva deposto il cappello in terra accanto a sé, e beveva in un bicchiere d’argento ornato di monogramma. Ad un tratto cominciò a parlare. Uomo strano! Era impossibile che egli distinguesse la sua propria voce, figuriamoci dunque se gli altri potevano udire anche una sola sillaba di quelle che egli pronunciava e che rimanevano senza suono. Ciononostante alzò l’indice; tenendo il bicchiere nella destra, tese il braccio sinistro con la mano alzata verticalmente ed aperta in tutta la sua ampiezza. Si vide allora il suo viso regale muoversi parlando, la sua bocca formulare parole che restavano senza suono come se egli le avesse pronunciate in una stanza vuota d’aria. Tutti credevano che egli interrompesse subito la sua vana impresa e lo osservarono con un sorriso imbarazzato, ma Peeperkorn continuò a parlare nel fragore che tutto inghiottiva. Costringendo all’attenzione, con gli ampi gesti della sinistra fissava, spalancandoli oltre misura, gli occhi piccoli pallidi e stanchi, ora sull’uno ora sull’altro degli ascoltatori così che colui al quale si rivolgeva era costretto a fargli cenni d’assenso ed a portare la mano all’orecchio come se ciò avesse potuto in qualche modo migliorare la situazione. Ad un certo momento si alzò in piedi. Col bicchiere in mano, nel suo soprabito da viaggio tutto gualcito e lungo fino ai piedi, a capo scoperto, con la fronte alta, solcata da arabeschi di rughe e circondata da ciocche impetuose di capelli bianchi, egli si staccava netto sul grigiore della roccia e moveva il viso, davanti al quale teneva, simile a un docente, il cerchio formato dal pollice e dal medio e sormontato dalle unghie lanceolate delle altre dita. Muniva così del segno avvincente dell’esattezza l’inintelligibilità del suo brindisi muto. Dai suoi gesti e dall’atteggiamento delle sue labbra si capivano singole parole, quelle che tanto spesso pronunciava, e cioè: “perfettamente” e “definito”, nient’altro. Si vide la sua testa inclinarsi da un lato, l’amarezza dipingersi sulle sue labbra, si vide l’immagine vivente del dolore. Poi di nuovo gli fiorì nella guancia la fossetta voluttuosa, egli fu tutto baldanza sibaritica e rievocò la visione del sacerdote pagano che, a sottane rialzate, balla con sacra scostumatezza davanti all’altare del sacrificio. Alzò poi il bicchiere, e davanti agli occhi dei suoi ospiti lo portò, descrivendo un semicerchio, alla bocca e lo vuotò in due o tre sorsi fino all’ultima goccia, cosicché il fondo si trovò rivolto completamente in alto. Indi lo porse al Malese che ricevette il recipiente con una mano sul petto; e dette il segnale della partenza.
Tutti si inchinarono verso di lui ringraziandolo e disponendosi a seguire i suoi ordini. Chi era seduto per terra saltò in piedi, chi si trovava sul parapetto del ponte scivolò giù. Il Malese in tubino raccolse i resti del pasto, piatti e bicchieri. In fila indiana, come erano venuti, i gitanti ripercorsero l’umido sentiero cosparso di aghi di pino, in mezzo al bosco, reso irriconoscibile dai festoni di lichene, e tornarono sulla strada dove erano le carrozze ad aspettarli. […]»
tratto da: Thomas Mann, La montagna incantata, trad. it. Bice Giachetti-Sorteni, Milano 1985.
Titolo originale Der Zauberberg; prima edizione Berlino 1924. © 1930 dall’Oglio editore
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