«C’è un’isola vasta, Trinacria, ammassata sopra le membra di un gigante: sotto le sue grandi rocce essa tiene schiacciato Tifeo, che osò sperare d’impadronirsi della sede del cielo. Egli si agita, è vero, e spesso si dibatte per rialzarsi, ma sopra la sua mano destra sta Peloro, vicino all’Ausonia, sopra la sinistra tu, Pachino, Lilibeo gli comprime le gambe, sopra la testa grava l’Etna. Dal fondo, supino, Tifeo inferocito proietta sabbia e vomita fiamme dalla bocca. Spesso si sforza di smuovere il peso e di scrollarsi di dosso le città e le grandi montagne: allora la terra trema, e perfino il re dei morti muti ha paura che il suolo si squarci e che una larga voragine ne dischiuda i segreti e che la luce irrompendo semini terrore e confusione tra le ombre.
«“Proprio nel timore di una catastrofe di questo genere il sovrano era uscito dalla sua sede tenebrosa e su un cocchio tirato da cavalli neri faceva il giro della terra di Sicilia per ispezionarne le fondamenta. Si era ormai convinto che nessun punto pericolava, e si era tranquillizzato, quando Venere dall’alto del suo monte, l’Érice, lo vide che ancora vagava, e stretto a sé il suo alato figliolo disse: ‘Armi mie e mani mie, figlio, strumento della mia potenza, prendi quelle frecce con cui vinci tutti, o Cupido, e scagliane una veloce nel petto del dio a cui è toccato in sorte l’ultimo dei tre regni. Tu vinci e domi gli dèi del cielo e lo stesso Giove, tu vinci e domi le divinità del mare e anche colui che regna sulle divinità del mare. Perché il Tartaro deve fare eccezione? Perché non estendi l’impero tuo e di tua madre? Si tratta di un terzo del mondo! E invece in cielo, tanta è stata finora la mia pazienza, sono disprezzata, e col mio è sminuito anche il potere di Amore. Non vedi che Pàllade e Diana l’arciera non mi degnano? Anche la figlia di Cèrere, se lasciamo perdere, rimarrà vergine: nutre infatti le stesse aspirazioni. Tu però, per il nostro regno comune, se un poco ti sta a cuore, fai che la divina fanciulla si unisca allo zio’. Così disse Venere. E Cupido aprì la faretra, e ubbidendo alla madre, tra le sue mille frecce ne scelse una, ma una che più acuminata e più stabile e più sensibile alla corda non avrebbe potuto essere. Aiutandosi col ginocchio curvò l’arco flessibile, e con la canna uncinata colpì Plutone diritto nel cuore.
«“Non lontano dalle mura di Enna c’è un lago che si chiama Pergo; l’acqua è profonda. Neppure il Caistro sente cantare tanti cigni sopra le onde della sua corrente. Un bosco fa corona alle acque, cingendole da ogni lato, e con le sue fronde fa schermo, come con un velo, alle vampe del sole. Frescura donano i rami, fiori variopinti l’umido terreno. Qui la primavera è eterna. In questo bosco Prosèrpina si divertiva a cogliere viole o candidi gigli, ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e le falde della veste, e faceva con le compagne a chi ne coglieva di più, quando Plutone – fu quasi tutt’uno – la vide, se ne innamorò e la rapì. Tanto precipitosa fu quella passione. Atterrita, la divina fanciulla si mise a chiamare con mesta voce la madre e le compagne, ma soprattutto la madre, e poiché si stracciò l’orlo superiore della tunica, questa si allentò e i fiori raccolti caddero per terra: e tanta semplicità c’era nel suo cuore di vergine, che anche la perdita dei fiori le causò dispiacere. Il rapitore lanciò il cocchio incitando i cavalli, chiamandoli ciascuno per nome, scuotendo sui colli e sulle criniere le briglie dal cupo colore di ruggine; passò veloce sul profondo lago, sugli stagni dei Palíci, tra le esalazioni dello zolfo che erompe dalla terra e li fa ribollire, e per il luogo dove i Bacchíadi – originari di Corinto bagnata da due mari – avevano eretto le loro mura tra due porti di disuguale grandezza[1].
«“C’è tra la fonte Cíane e la fonte Aretusa che viene dall’Èlide, un tratto di mare che sta raccolto e racchiuso tra due strette lingue di terra. Qui appunto viveva – e da lei prese il nome anche quella laguna – Cíane, famosissima tra le ninfe di Sicilia. Dal centro dei gorghi essa emerse fino alla vita, riconobbe la fanciulla divina e disse: ‘Non passerete! Non puoi diventare genero di Cèrere se Cèrere non acconsente. Chiedere la dovevi, e non rapire. E se posso paragonare alle cose grandi le piccole, anch’io sono stata amata, da Anàpi, ma mi sono sposata dopo essere stata pregata, e non, come costei, terrorizzata’. Così disse, e allargando le braccia cercò di fermarli. Il figlio di Saturno non trattenne più la sua rabbia, e incitati i terribili cavalli, con braccio vigoroso tuffò lo scettro regale fino in fondo alla laguna. A quel colpo un varco si aprì nella terra fino al Tartaro e il cocchio sprofondò e scomparve nella voragine. Quanto a Cíane, addolorata per il rapimento della dea e perché la sua fonte era stata disprezzata e violata, si portò in silenzio dentro di sé una ferita di cui nessuno poteva consolarla: si strusse tutta in lacrime e si dissolse in quelle acque delle quali fino a poco prima era stata una grande divinità. Avresti visto le sue membra ammollirsi, le ossa flettersi, le unghie perdere durezza; e prima di tutto si liquefecero le parti più fini: i capelli azzurri, le dita, i piedi e le gambe. Più facile è infatti, per le parti sottili, trapassare in gelida acqua. Poi furono le spalle, il dorso, i fianchi, il petto ad andarsene, fino a svanire, in esili rivoli. Infine l’acqua subentrò al sangue vivo nelle vene in disfacimento, e non rimase più nulla che si potesse afferrare.
«“Intanto Cèrere, angosciata, cercava invano la figlia, per ogni terra, per ogni mare. Né l’Aurora, quando arrivò con i suoi capelli rugiadosi, né Vespero la videro mai riposarsi. Essa accese alle fiamme dell’Etna due torce di pino, e tenendone una in ciascuna mano vagò senza requie nella notte brinosa. […]
«“Troppo lungo sarebbe dire per quali terre e per quali mari la dea errò. Non aveva più mondo da girare. Ritornò in Sicilia, e mentre camminava scrutando per ogni dove, arrivò anche da Cíane. Costei, se non si fosse ormai trasformata, le avrebbe raccontato tutto, ma per quanto volesse parlare non aveva né bocca né lingua, non aveva più nulla con cui articolare parole. Ciò nonostante fornì un chiaro indizio, mostrando sul pelo dell’acqua la cintura – ben nota alla madre – che per caso proprio in quel punto era caduta a Prosèrpina nei sacri gorghi. Appena riconobbe la cintura, la dea, come se solo allora capisse che la figlia era stata rapita, si stracciò i capelli disadorni e ripetutamente si percosse il petto con le mani. Non lo sapeva ancora, dove fosse; comunque, inveì contro tutte le terre chiamandole ingrate e indegne del dono delle messi, soprattutto la Trinacria, dove aveva scoperto la traccia della disgrazia. E lì spezzò allora con mano crudele gli aratri che rivoltano le zolle, e furibonda fece morire insieme contadini e buoi campagnoli, comandò ai campi di tradire le speranze in essi riposte, e guastò i semi. La fertilità di quella regione, decantata in tutto il mondo, è smentita e distrutta: le messi muoiono appena germogliano, ammalandosi per troppo sole o per troppa pioggia, gli astri sfavorevoli e i venti le rovinano, gli uccelli ingordi beccano i semi nei solchi; il loglio e i rovi e la gramigna inestirpabile soffocano il frumento.
«“Allora Aretusa, amata dall’Alfeo, trasse fuori il capo dalle sue acque giunte dall’Èlide, si scostò dalla fronte verso gli orecchi le chiome stillanti, e disse: ‘O genitrice della vergine cercata per tutto il mondo, o genitrice delle messi, interrompi la tua immensa fatica e non adirarti e non essere violenta col suolo, che ti è fedele. Il suolo non ha nessuna colpa e per forza ha dovuto aprirsi davanti al rapitore. E non è che io ti supplichi per la mia patria: io non sono di qui; la mia patria è Pisa, nell’Èlide, e di laggiù provengo. Straniera sono, in Sicilia; ma questa regione mi è più cara di ogni altra: qui io Aretusa ho ora la mia casa, questo è il mio paese: e tu salvalo, mitissima dea. Perché io mi sia trasferita, perché, superando una così vasta distesa di mare, io mi sospinga fin qui ad Ortigia, lo narrerò in un momento più opportuno, quando tu non sarai più così afflitta ed avrai un volto più sereno. Per farmi passare, la terra mi dischiude un cammino, io scorro in caverne dentro le sue profondità, e qui levo fuori il capo e rivedo le stelle quasi dimenticate. Orbene, passando sotterra tra i gorghi dello Stige, ho visto laggiù, con i miei occhi, Prosèrpina: triste, sì, e ancora con l’aria un po’ spaventata, e tuttavia regina, signora del mondo buio, potente consorte del sovrano dell’Averno’.
«“All’udir queste cose la madre restò di sasso, rimase a lungo come paralizzata. Quando finalmente il tremendo stordimento passò, scacciato dal tremendo dolore, partì sul suo cocchio per le regioni del cielo. Lì, tutta rannuvolata in volto, piena di odio, si parò con i capelli scomposti dinanzi a Giove e disse: ‘Vengo a pregarti, Giove, per il sangue mio nonché tuo. Se io madre non conto nulla, commuoviti comunque per tua figlia; e spero che il fatto che l’abbia partorita io non t’induca a curartene di meno! Ecco che dopo tanto cercare l’ho ritrovata, se chiami ritrovare il perdere con più certezza, o se chiami ritrovare il sapere dove sia finita. Che sia stata rapita, pazienza! Purché lui la renda! Tua figlia non può infatti sposare un predone, anche se per caso come figlia mia lo potesse!’ Rispose Giove: ‘Tutti e due siamo legati da affetto e senso di responsabilità a questa figlia. Ma se vogliamo dare alle cose il loro vero nome, qui non si tratta di un’impresa malvagia, ma proprio di amore, e io non mi vergognerò di un genero così, naturalmente se tu acconsenti, o dea. Anche se gli mancasse il resto, che titolo essere fratello di Giove! Ma il resto poi non gli manca, e se mi è inferiore, è solo per il regno che gli è toccato in sorte. Comunque, se desideri tanto che si separino, Prosèrpina tornerà a vedere il cielo, ma ad una condizione ben precisa, che laggiù non abbia portato alla bocca nessun cibo. Così infatti hanno stabilito le Parche’. Così disse. Ma se Cèrere era decisa a recuperare sua figlia, questo il destino non lo permetteva, poiché la fanciulla aveva rotto il digiuno: nella sua semplicità, mentre si aggirava per un bell’orto, aveva colto da un ramo incurvato una melagrana e, staccatili dalla pallida buccia, ne aveva succhiato sette granelli. L’unico a vederla fu Ascàlafo, che a quanto si racconta era stato partorito nel folto di una tetra selva da Orfne – non certo la più sconosciuta tra le ninfe dell’Averno -, la quale lo aveva avuto dal suo diletto Acheronte. La vide e fece la spia, togliendole così, crudele, la possibilità di tornare. Mandò un gemito la regina dell’Èrebo, e fece del delatore un uccello del malaugurio: gli versò acqua del Flegetonte sul capo, e glielo mutò in una testa con becco, piume e occhi come fanali. Quello, sottratto alla sua propria forma, si avvolse in ali fulve come in un manto, s’ingrossò nella testa, piegò indentro le unghie allungatesi, e a fatica agitò le penne spuntategli sulle fiacche braccia. Diventò un uccellaccio, messaggero di prossima sventura, un pigro gufo, terribile presagio per i mortali.
«“Costui comunque, a quanto pare, si era meritato la punizione parlando troppo e facendo la spia. Ma voi, o figlie dell’Achelòo, com’è che avete penne e zampe da uccelli mentre portate visi di fanciulle? Forse perché, quando Prosèrpina raccoglieva fiori primaverili, eravate, dotte Sirene, nel numero delle sue compagne? Dopo che invano l’aveste cercata per tutta la terraferma, ecco che, perché anche il mare sapesse quanto eravate angosciate, esprimeste il desiderio di potervi soffermare sopra i flutti remigando con delle ali, e trovaste gli dèi bendisposti, e tutt’a un tratto vi vedeste gli arti farsi biondi di penne. Tuttavia, perché al vostro famoso canto, fatto per ammaliare le orecchie, perché alla vostra bocca, così dotata, non venisse a mancare la favella, vi rimasero volti di fanciulle e voce umana.
«“Quanto a Giove, facendo da mediatore tra il fratello e l’afflitta sorella, divide il giro dell’anno in due parti uguali: ora Prosèrpina, divenuta una divinità comune ai due regni, sta tanti mesi con la madre e altrettanti col marito. E subito essa cambia, di spirito e d’aspetto. Se fino a poco prima poteva apparire troppo cupa perfino a Plutone, ora sulla fronte le brilla la gioia; così il sole, già coperto da nubi piovose, si affaccia tra le nubi, vittorioso.
«“La benefica Cèrere, tranquillizzata per aver riottenuto la figlia, vuole ora sapere perché tu sia partita dall’Èlide, o Aretusa, perché tu sia una fonte sacra. Tacciono le acque, e dai loro gorghi profondi Aretusa trae fuori il capo, e strizzatisi con la mano i verdi capelli racconta dell’antico amore del fiume Alfeo: ‘Io ero una delle ninfe che stanno nell’Acaia, – dice, – e nessun’altra con più passione di me percorreva le forre, nessun’altra con più passione di me tendeva le reti. Ma sebbene non avessi mai aspirato ad avere la fama d’essere bella, sebbene fossi rude, avevo fama d’essere bella. Malgrado tante lodi, il mio aspetto non m’inorgogliva, e mentre le altre di solito ne godono, io, semplice e scontrosa, arrossivo delle mie doti fisiche, e, se piacevo, mi pareva una colpa. Stanca tornavo, ricordo, dalla foresta di Stinfàlo. C’era afa, e il peso dell’afa era raddoppiato dalla fatica. Capitai ad un fiume senza un vortice, che se ne andava senza un mormorio, trasparente fino al fondo, tanto che attraverso l’acqua si poteva contare ogni sassolino, tanto che a stento avresti creduto che scorresse. Pallidi salici e pioppi nutriti dall’acqua davano alle rive in declivio un naturale riparo di ombre. Mi accostai, e dapprima mi bagnai la pianta del piede, poi la caviglia, e non contenta di questo mi spogliai e appesi i molli veli a un ramo pendente di salice, e m’immersi nell’acqua, nuda. Mentre battevo e traevo a me l’acqua guizzando in mille modi, levando e rituffando le braccia, sentii venire da sotto i gorghi uno strano bisbiglio, e atterrita risalii sul bordo della riva più vicina. – Dove vai così in fretta, Aretusa? -, e ancora – Dove vai così in fretta? -, mi aveva detto, con voce roca, l’Alfeo dalle sue acque. Fuggii così com’ero, senza vesti: le vesti erano rimaste sull’altra sponda. Tanto di più lui m’incalzava e s’infiammava, e poiché ero nuda, gli sembravo più pronta. Così io correvo, così lui m’inseguiva spietato, come le colombe fuggono con ali trepidanti davanti allo sparviero, e come lo sparviero si avventa contro le trepidanti colombe. Fino alle porte di Orcòmeno, fino a Psofíde e al Cilene e ai dirupi del Mènalo e al gelido Erimanto e ad Èlide riuscii a correre; e lui non mi raggiungeva. Ma correre più a lungo, io, meno resistente, non potevo, e lui reggeva a una lunga fatica. E tuttavia corsi per campi, per monti coperti di alberi, e anche per rocce e rupi, per dove una via non c’era. Avevo il sole alle spalle: davanti ai piedi, vidi un’ombra allungarsi e precedermi, a meno che non fosse la mia paura a vederla, ma è certo che il rumore dei passi mi atterriva e sulla benda che mi teneva i capelli arrivava il soffio potente del suo respiro affannoso. Sfinita dalla fatica: – Aiuto mi prende! – dico. – Aiuta, Diana Dictinna, la tua scudiera, da te incaricata tante volte di portarti l’arco e le frecce rinchiuse nella faretra -. La dea si commosse, e staccata una nube da uno spesso banco di nubi, la gettò su di me. La foschia mi nasconde e Alfeo scruta di qua e di là e non riesce a capacitarsi e mi cerca intorno alla nuvola cava, e due volte gira ignaro intorno al punto dove la dea mi ha nascosto, e due volte chiama – Aretusa! Aretusa! – In che stato d’animo ero io, poverina? Non forse in quello di un’agnella se per caso sente de lupi ringhiare intorno all’alto ovile, o di una lepre che appiattata in un cespuglio vede i musi ostili dei cani e non osa fare il minimo movimento? E tuttavia lui non se ne va, e infatti più in là non vede nessuna orma di piedi: sorveglia la nuvola e il posto. Un sudore freddo, trovandomi così assediata, mi pervade le membra, da tutto il corpo mi cadono gocce azzurrine, e se sposto un po’ il piede, si forma una pozza, dai capelli cola una rugiada, e in meno di quanto non impieghi ora a raccontartelo, mi muto in acqua. Ma allora il fiume riconosce nell’acqua l’amata, e lasciato l’aspetto umano che aveva preso, torna ad essere quello che è, una corrente, per mescolarsi a me. La dea di Delo fece uno squarcio nel terreno, e io sprofondando in buie caverne arrivo fino a Ortigia, che mi è cara perché deve il suo nome alla mia dea, e qui per la prima volta rispunto fuori all’aria, da sottoterra’. […]»
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Torino 1979
Opera in quindici libri composta tra il 3 e l’8 d. C.