Ho sempre avuto una predilezione per i piccoli giardini, in particolare per quelli di cui si parla poco o niente e che sono teneramente protetti dall’oblio o dalla negligenza degli uomini. Nei grandi parchi, non mi trovo a mio agio, specialmente se sono pieni di visitatori, perché in tal caso bisogna essere almeno in due per non sentirsi più soli di quanto si è in realtà. Quanto ai grandi giardini storici di cui l’Europa è ricchissima, mi annoiano in fretta. Scenari vuoti, dove soltanto qualche eco – un fruscio di foglie, che so? o lo stillicidio di una fontana che ci si è dimenticati di riparare, nelle parti più recondite – vi ricorda che siete in un luogo ancora vivo, un posto che un tempo fu un vero giardino.
Quante ore ho passato nel parco di Versailles, in mezzo alla folla, a domandarmi perché quelle prospettive grandiose che si perdevano nel cielo, quelle fontane che sputavano quantità inaudite d’acqua e quegli schieramenti spettacolari di migliaia d’alberi tutti identici, perfettamente potati, mi lasciavano assolutamente freddo! O nel giardino di Schönbrunn, a Vienna, davanti a impeccabili aiuole di begonie e centinaia di statue che mi guardavano fisso, sentendomi perso, come in mezzo a un labirinto sconfinato!
Ci sono ovviamente delle eccezioni. Non tutti i grandi giardini sono così poco accoglienti.
Per esempio, Painshill, nel Surrey. Uno dei parchi storici più visitati e più fotografati d’Inghilterra, su cui sono state scritte decine di monografie soporifere e tuttavia uno dei luoghi che mi hanno fatto capire meglio cos’è un giardino.
È però possibile che se Painshill ha lasciato in me un’impressione tanto profonda, così profonda che ho la sensazione di essermene allontanato soltanto l’altroieri, è perché non l’ho scoperto da semplice visitatore.
Ci ho vissuto. Da giardiniere, ovviamente.
*
Non avevo mai fatto domanda, prima di allora, per un vero posto di giardiniere.
Mi trovavo di nuovo a Londra a quel tempo (era la primavera del 1996) e mi chiedevo se sarei risalito nel nord del Paese, in Scozia, o più lontano ancora, verso l’Islanda. Un giorno, in un quotidiano, lessi che si cercava del personale nel quadro del progetto di restauro del parco di Painshill, nel sud del Paese. Le fotografie del sito erano promettenti.
Durante il colloquio di lavoro, mentii spudoratamente vantando un’esperienza nei giardini storici che mi mancava del tutto e, contro ogni aspettativa, fui assunto. Due giorni dopo eccomi con un’impeccabile divisa verde e bianca, un autentico giardiniere britannico.
Painshill, che posto!
Il primo giorno di lavoro il capogiardiniere mi lasciò un paio d’ore per scoprire il luogo. Mi trovai solo soletto davanti ai vasti prati orlati di boschi, dove pecore nere pascolavano in lontananza, assolutamente immobili. Camminavo in mezzo a grandi alberi centenari, rocce e ruscelli come in mezzo a un quadro a grandezza naturale. Aggirai un lago che poteva contenere – sembrava – l’intero cielo. Quanta grazia, in quella luce capace di guarire, ne ero sicuro, qualunque ferita, di sanare qualunque dolore! Rimasi seduto per un bel po’ nella grotta del parco, in mezzo a stalattiti scintillanti. Ammirai gli edifici antichi – il mausoleo romano, l’abbazia in rovina, la torre gotica – posti sulla sommità di una collina, in fondo a una valle o in mezzo alle fronde. Poco importava se i loro muri erano di gesso, come in uno scenario teatrale, dipinti per dare l’illusione della pietra. Al contrario, la loro ingenuità serviva soltanto a impreziosirli ai miei occhi, a renderli quasi più veri.
«Ecco un giardino creato da un poeta!» scrissi con entusiasmo nel mio taccuino la sera stessa, quando tutti gli altri giardinieri se ne furono tornati a casa e io rimasi solo nel parco. Ma un poeta che avesse scelto una forma di poesia senza parole, una poesia incarnata nello spazio, nella materia viva e fremente del mondo, passeggera come tutto ciò che vive.
*
Come scoprii più tardi in un opuscolo sul sito, il poeta in questione, colui che aveva trasformato quel pezzo di campagna inglese in giardino a partire dal 1738 era l’onorevole Charles Hamilton. Nobile di nascita, appassionato di piante rare, era noto per la sua amicizia con il poeta Alexander Pope, a sua volta amante di giardini, e per le feste sontuose che, nonostante la sua misantropia e il carattere burbero, dava spesso a Painshill, ma alle quali partecipava soltanto di rado.
Per sistemare il suo parco, il capolavoro della sua vita, il signor Hamilton spese tutte le sue ricchezze, che erano considerevoli. Ridotto in miseria, fu costretto a vendere Painshill, nel 1773, a un baronetto che si era appena comprato il titolo nobiliare. Morì pochi anni dopo, infelice e lontano dal suo paradiso perduto. In seguito, il parco cadde pian piano nell’oblio fino a quando l’Elmbridge Bourough Council decise di riacquistarlo e poi di restaurarlo. Povero Charles Hamilton, pensavo, come sarebbe contento di contemplare il suo bel parco in questo rinnovato splendore! Forse vedrebbe, in questa rinascita insperata, la prova di aver avuto ragione scrivendo, in una lettera a Pope, che il tempo «contrariamente a ciò che pensa la gente comune e quell’orribile signor Newton, non ha niente d’irrevocabile».
*
Di quei mesi a Painshill, ricordo soprattutto le ore passate a rastrellare i viali o a raccogliere le foglie, ore piuttosto felici durante le quali potevo guardare a piacimento il parco e interrogarmi sulla sua storia. Come aveva concepito il suo posto, Hamilton? Se ne curava personalmente, ogni tanto, o si limitava a dare ordini ai suoi operai e ai giardinieri? Andava a passeggio da solo, la sera, nelle parti più solitarie del parco, come amavo fare io? E a cosa pensava quando guardava crescere i giovani alberi delicati che aveva fatto venire dall’America o dall’Asia, che aveva piantato pieno di speranza ma, come tutti i giardinieri, in preda a mille dubbi? Ovviamente sapeva che non sarebbe vissuto così a lungo da vederli nella loro maturità, alti e belli come li sognava. Questo lo rattristava?
Un giorno, mi ritrovai a falciare l’erba in una delle parti più recondite del parco che non avevo ancora esplorato. Notai, in cima a una falesia diruta, un edificio in rovina: una casupola esagonale, in passato imbiancata a calce, con un tetto di paglia, posata su enormi ceppi di legno. Davanti all’ingresso, un gruppo di cinque o sei uomini erano intenti a studiare un’incisione, raffigurante l’edificio, che un anziano signore teneva srotolata fra le mani. Quest’ultimo, non c’era da sbagliarsi, era un universitario. Ne aveva tutti gli attributi: cravatta, panciotto, giacca di tweed e quell’aria benevola e un po’ ironica che hanno spesso gli studiosi inglesi. Probabilmente, pensai, uno storico. Aspettai che gli altri si allontanassero, prima di rivolgergli la parola. Nel mio inglese stentato gli domandai cosa stavano facendo. Mi spiegò che si accingevano a restaurare la dimora dell’eremita di Painshill.
«C’era un eremita nel parco?» domandai.
«Sì», mi rispose. «Non vero, ovviamente. Charles Hamilton non fu né il primo né l’ultimo dei grandi proprietari di parchi del suo tempo che si lasciò conquistare da quella eccentricità: pagare un povero diavolo per qualche anno perché abitasse in una casetta come questa o in una grotta. Si trattava, in sostanza, di eremiti ornamentali.»
La cosa mi sbalordì a tal punto che riuscii a spiccicare soltanto un: «Questa, poi…»
«Piacciono molto anche a me, certe storie», disse il professore, divertito. «D’altronde, ho scritto un libretto in proposito.»
Si avviò verso la sua auto, da cui tornò pochi istanti dopo con un grosso volume riccamente illustrato. Sulla copertina lessi il nome dello storico: «Jonathan Browne».1
«È per lei, giovanotto», mi disse con aria di malizia. «Sono sicuro che le darà un bel po’ di idee…»
*
È così che ho scoperto la storia del primo eremita di Painshill Park, che rimase lì soltanto dieci mesi e fu, verosimilmente, l’ultimo ad abitare la casupola soprelevata, giacché nessun documento attesta che altri «poveri diavoli» siano stati assunti da Hamilton dopo quella sfortunata esperienza.
Si chiamava Tom Page e quando rispose all’annuncio che il proprietario di Painshill aveva fatto mettere sul Times, il 10 aprile 1740, aveva soltanto trentun anni.
Perché aveva accettato un impiego così singolare? Nella sua opera, Browne (che, dietro la sua aria di serio studioso doveva nascondere una leggera propensione al romanzesco) avanza delle ipotesi in proposito, basandosi su alcune lettere in cui Charles Hamilton fa riferimento al suo giovane eremita ornamentale.
Fino a quel momento, Tom Page aveva avuto una vita piuttosto ordinaria. Dopo aver esercitato svariati mestieri, da quello di fornaio ad attore in un teatro londinese, era stato assunto da una banca della City. Qualche anno prima, dopo aver sposato una giovane di nome Celia, s’era indebitato per poter comprare un appartamento, piccolo ma civettuolo, a Longridge Road, vicino a Earl’s Court, nel centro di Londra.
Quando apparve l’annuncio di Hamilton, Tom aveva appena perso il lavoro, probabilmente in seguito alla crisi finanziaria che aveva colpito l’Inghilterra nel 1739. In miseria e perseguitato dai creditori, si trovò di fronte a una crudele alternativa: vendere il grazioso appartamento che piaceva tanto a sua moglie, o accettare il primo impiego che capitava. Secondo Browne, il problema principale di Tom era proprio Celia. Costei, figlia di un piccolo proprietario terriero, apparteneva a una classe superiore alla sua. Sposandolo, la ragazza aveva dunque accettato di scendere uno o due gradini della scala sociale. Come avrebbe potuto, sua moglie, accettare l’umiliazione di andare a vivere in un alloggio più piccolo, in un quartiere meno dignitoso, e di rinunciare al suo domestico? Ora, nel suo annuncio, Hamilton proponeva settecento sterline di stipendio annuo, che a quel tempo erano una bella sommetta.
Tom dovette esitare. Le condizioni del contratto erano quantomeno drastiche: non parlare con nessuno, per nessun motivo, soprattutto non con gli invitati di Hamilton che, durante le loro passeggiate, dovevano soltanto scorgere l’eremita, ogni tanto, in mezzo al bosco o attraverso le finestre del suo eremo; farsi crescere barba e unghie; passeggiare con una clessidra in mano, strumento indispensabile alle meditazioni filosofiche di ogni anacoreta che si rispetti; vestirsi con una vecchia palandrana di cammellotto; mangiare soltanto le zuppe, il pane e il formaggio che un servo gli avrebbe portato tutte le sere dal castello. Per giunta, Tom non conosceva probabilmente nulla della campagna e come ogni cittadino doveva provare un profondo orrore di fronte alla prospettiva di vivere in un silenzio interrotto unicamente dal vento o dai gridi degli uccelli. E dovette rabbrividire al pensiero delle lunghe notti da passare solo soletto in una capanna in mezzo ai boschi, senza il corpo dolce e caldo della sua Celia al fianco. Ma poteva davvero scegliere? Le possibilità di trovare un lavoro decoroso, in quel periodo di crisi, erano minime. E i giorni passavano. Così, una sera, si sedette alla scrivania. Prese un foglio, la penna e il calamaio. Mentre, nel salotto accanto, sua moglie cantava un’aria italiana o una romanza accompagnandosi al pianoforte, lui rispose all’annuncio del Times.
Così lo descrive l’onorevole Hamilton, in una lettera datata 16 maggio 1741, una settimana dopo il suo arrivo a Painshill, alla sua confidente, Lady Beauclerk:2
Il giovane eremita è di bell’aspetto, alto, capelli e occhi neri. Sono sicuro che lo trovereste di vostro gusto, mia cara amica… Ma è l’uomo che fa per me? Ha i lineamenti troppo fini e modi molto educati. Perfino un bambino capirebbe subito che non ha idea di cosa siano il digiuno o le privazioni. Non è grasso ma non si può dire che sia magro, e guarda la clessidra che gli ho affidato come un oggetto strano di cui non sa bene che fare. Ma imparerà. O almeno lo spero…
Così ebbe inizio la carriere di eremita di Tom Page.
*
Soltanto dopo qualche mese si cominciò a notare un cambiamento nel comportamento del giovanotto.
Le lettere che scrisse alla moglie non sono giunte fino a noi, sicché non abbiamo alcuna possibilità di sapere cosa accadde nella sua mente durante quei mesi vissuti nella solitudine più estrema. Possiamo però immaginarlo mentre passeggia in mezzo ai boschi, esitante da principio, poi sempre più familiare con i luoghi, stupendosi che si spendano tante energie per sistemare e mantenere un parco tanto grandioso quanto inutile. Lo vedo ai piedi del tempio gotico, dapprima ammirato, poi, dopo aver toccato il finto muro di pietre, perplesso. O immerso nell’acqua del grande lago, laddove un giorno una delle invitate del signor Hamilton si prese un bello spavento vedendolo fare il bagno quasi nudo, dato che si era liberato per un momento della sua palandrana di cammellotto che gli causava orrendi pruriti.
Adesso, naturalmente, Hamilton era soddisfatto: la presenza dell’eremita cominciava a dare i suoi frutti. Si dilettava al racconto degli incontri fra Tom e i suoi invitati, che contribui-
vano ad accrescere la fama del suo parco. E quando, durante una cena a Painshill, il reverendo Farebrother, noto per il suo rigore morale, si dichiarò turbato nel vedere un essere umano ridotto in un simile stato di schiavitù, per volontaria che fosse, e si rammaricò del fatto che quella moda si stesse diffondendo nella nobiltà inglese, pare che il signorotto gli avesse detto, in tono altero: «Mio caro Farebrother, non crede che la vista di un eremita che ha rinunciato al mondo, che vive in armonia con la natura come Adamo nel giardino creato per lui da Dio, non possa che elevare l’anima dei miei invitati durante la loro passeggiata igienica, ovvero dopo che hanno abusato della frivolezza delle conversazioni e del mio Porto?»
Fatto sta che Tom, con l’andar del tempo, somigliava sempre più a un vero eremita.
Dal canto mio, credo che all’inizio cercò soltanto di rispettare scrupolosamente il contratto. Si fece crescere la barba, si abituò alla palandrana di cammellotto e alla frugalità del cibo, poi dovette finire con l’identificarsi con il personaggio che recitava o col prendere gusto alla solitudine. Quanto alla clessidra, chi può dire l’effetto che è capace di produrre, nella mente di un giovane tagliato fuori dal suo mondo familiare e dall’agitazione incessante della città, il fatto di muoversi in compagnia di quell’unico oggetto di svago?
Un pomeriggio d’ottobre, mentre passeggiava nel suo parco per dare un’occhiata ai giovani abeti che aveva appena fatto piantare su un pendio che scendeva verso il lago, Hamilton s’imbatté a faccia a faccia con Tom. Lo sappiamo da una lettera a Lady Beauclerk:
Sul momento, stentai a riconoscerlo. Non lo vedevo da settimane. La sua barba aveva ora raggiunto una lunghezza ragguardevole. Si poteva davvero pensare che un eremita abitasse nel parco e che il mio Painshill fosse una Tebaide ai margini del mondo conosciuto. Me ne rallegrai: la sua parte, la recitava alla perfezione. Nondimeno, avevo notato qualcosa di nuovo nel suo modo di camminare: pareva che avesse dimenticato come si muovono gli uomini civili o – fatto ancor più singolare – era come se la cosa non lo riguardasse. Avvicinandomi (era seduto su un masso e guardava un punto invisibile al di sopra degli alberi, al di là del lago), mi accorsi che sorrideva. Mi parve il sorriso di un idiota. Era diventato pazzo?
Buongiorno signor Page, gli dissi, piantandomi davanti a lui.
Il giovane si alzò bruscamente, spaventato come una volpe che si sia lasciata sorprendere dai cani in un luogo troppo scoperto e si accinga a fuggire.
Restate qui, vi prego! gli ordinai. Vorrei scambiare due parole con voi. Faremo un’eccezione alla regola.
Poi, come se non sapessi più cosa dirgli, mi misi a esaminare la sua barba. Mi accorsi con stupore che era disseminata di peli bianchi, come la barba di un uomo che invecchia, e non quella di un ragazzone di trentun anni. Notai anche che aveva perso peso, al punto che la palandrana penzolante dalle sue spalle gli dava un aspetto ancor più macilento, e che i suoi piedi nudi erano coperti di callosità. E in quel momento accadde qualcosa di strano. Provai un sentimento inspiegabile per quel giovane, qualcosa di simile, mi parve, alla pietà. Sì, Lady Beauclerk, alla pietà! Non che mi sentissi in colpa, come avrebbe suggerito quel vecchio barbogio di Farebrother, ma fui colto da una pena improvvisa. Ero triste per quel pover’uomo che avevo sorpreso intento a sorridere senza motivo, solo, in contemplazione di un cielo vuoto. Cosa mi succedeva?
Ricordando che ero il suo padrone, ripresi il controllo e gli dissi: Sono contento di voi, Tom. Tuttavia, preferirei che adottaste un’aria più grave, che contemplaste il mondo e la vostra vita con sprezzo.
Sì, signor Hamilton, capisco, mi rispose, ritrovando di colpo i modi educati, ma come sorpreso dal suono della sua stessa voce. Il fatto è che qui, in questo bel parco creato da voi, vedete, ho finito col sentirmi proprio bene.
Teneva la clessidra fra le mani come un tesoro prezioso ma in posizione orizzontale e in perfetto equilibrio, in modo tale che la sabbia non scendeva più né da una parte né dall’altra…
Sfortunatamente, la lettera di Charles Hamilton si fermava qui. La pagina successiva mancava e, nonostante accurate ricerche, il professor Browne non era riuscito a rintracciarla. Così, il seguito della conversazione fra l’aristocratico creatore di Painshill Park e il suo eremita ornamentale potevo soltanto immaginarlo. Oh, avevo tutto il tempo per farlo! Mentre lavoravo nel giardino oppure la sera, sdraiato sul letto, quando gli altri giardinieri erano al pub e io non avevo niente di meglio da fare che fantasticare…
*
L’onorevole Hamilton sorrise per il modo in cui Tom custodiva gelosamente la sua clessidra. Avrebbe dovuto parlargli della lettera disperata che sua moglie, Celia, gli aveva inviato per chiedere notizie del marito, che da un po’ di tempo aveva smesso di scriverle. Non lo fece. Rimase in silenzio in piedi accanto al giovane.
«Sì, signore», disse Tom, «ho finito col trovarmi bene qui da voi. È come se qui non potesse succedermi niente di male.»
D’un tratto, si era incupito. Scambiando qualche parola con un altro essere umano per la prima volta dopo mesi, probabilmente aveva appena commisurato la distanza che ormai lo separava dai suoi creditori e dal salotto del suo appartamento di Earl’s Court, dove Celia era forse intenta a ricevere una delle sue amiche o a disegnare, allegra nonostante la sua preoccupazione per lui, mentre il fuoco crepitava nel caminetto.
«Sapete, signor Hamilton, quand’ero più giovane, ho lavorato come attore al Red Bull Theatre. Non l’ho mai raccontato a mia moglie, naturalmente, e in ogni modo è stato per qualche mese soltanto. Ero un pessimo attore. Però ricordo bene il sentimento che provavo mentre ero sul palco, in mezzo alle ombre, aspettando di pronunciare le due o tre battute che mi avevano affidato. Guardavo di soppiatto il pubblico – i volti delle persone sedute nelle prime file emergevano dal buio, illuminati dalla luce delle torce, pallidi e assorti – e l’oscurità che avvolgeva la sala. Immaginavo il mondo al di là dei muri del teatro, le strade di Londra con le finestre illuminate e la folla rumorosa che camminava sotto la luna. La vita, insomma, quella vera. Come sembrava tranquilla, vista da quel palcoscenico! E mi sentivo tranquillo anch’io, felice, come non lo ero mai stato prima e come non lo sono più stato. Fino a ora intendo, fino a Painshill.»
L’onorevole Hamilton, che aveva ascoltato attentamente, disse: «Vi sbagliate, Tom. È proprio il contrario. Nonostante tutti i suoi edifici di paccottiglia, il mio Painshill non è un teatro. E la vita non si trova fuori dai muri di cinta del giardino, nel vasto mondo che lo circonda, ma all’interno. Sì, amico mio, qui c’è la vita e, fuori, il sogno!»
Il pomeriggio d’autunno morente fiammeggiava intorno al vecchio misantropo e al suo eremita. L’inverno era quasi alle porte, ma per il momento le mille sfumature di rosso, di arancione e di giallo delle foglie del bosco li avvolgevano, perché tutto lo spazio era ormai pieno di colori che si mescolavano tra loro, in costante movimento. Anche il giardino si muoveva, molto lentamente ma in modo inconfutabile, e il misantropo e l’eremita lo sapevano. In piedi sul picco, somigliavano a due marinai che scrutino l’orizzonte dal ponte di una nave. Rivolgendosi a Tom, Hamilton capì perché si era sentito così triste per lui poco prima. Si domandò in che modo il giovane avrebbe ritrovato la via che doveva ricondurlo nel mondo, quel mondo da cui era fuggito senza volerlo, spinto solo dalla necessità. Cos’avrebbe detto alla sua giovane sposa, quando l’avesse rivista? Avrebbe provato di nuovo la gioia che diceva di provare adesso? Perché, naturalmente, Tom Page avrebbe lasciato Painshill… Oh, Hamilton l’avrebbe tenuto volentieri, sarebbero potuti anche diventare amici nonostante la differenza di rango. Perché no? A chi altri aveva parlato come aveva parlato a Tom, in quel pomeriggio d’autunno destinato a rimanere inciso nella sua memoria?
A tutto questo pensava il vecchio aristocratico, che non riusciva a liberarsi dell’allegra malinconia che gli stringeva il cuore.
1 Si tratta probabilmente di J. Browne, Ornamental Hermits in the English Landscape Gardens of the XVIIIth Century, Little Pluty Press, Londra, 1995.
2 Famosa libertina inglese del XVIII secolo, amica intima di Pope nonché di Charles Hamilton.
Tratto da: Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, Edizioni Ponte alle Grazie
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