Cercherete di vendervi come schiavi ai vostri nemici, ma nessuno vorrà comprarvi.
DEUTERONOMIO, 28:68
L’orrore economico. Vent’anni fa la scrittrice francese Viviane Forrester pubblicò L’horreur économique, un libro sul declino del lavoro che destò una forte impressione e provocò una discussione accanita in tutta Europa. Poi, come l’autrice stessa aveva previsto, le sue accuse caddero nel dimenticatoio e si tornò a parlare di lavoro con le menzogne di sempre. Quel libro è stato profetico e i vent’anni trascorsi dalla sua pubblicazione ne hanno confermato la forza. Benché la tragedia che esso prefigurava sia ormai viva e terribile sotto i nostri occhi, continuano imperterrite le sue mistificazioni.
Ci sono buone ragioni per iniziare attingendo alle idee della Forrester e aggiornando i termini dell’orrore cui lei si riferiva.
In cosa consiste questo orrore? Consiste nel fatto che tutta la nostra ricchezza, il nostro prestigio, la nostra rispettabilità, le nostre opportunità, le nostre tutele, qualsiasi forma di sopravvivenza, derivano dal nostro lavoro. Ma il lavoro viene negato a un numero crescente di individui che quindi sono gettati nella disperazione. La mancanza di lavoro non dipende da chi non ce l’ha, e tuttavia gli viene imputata come se fosse colpa sua. Una colpa di cui vergognarsi.
Ogni giorno ci viene raccontato che la disoccupazione è effetto di una crisi passeggera ma, nei fatti, la crisi non passa e, anche se passasse, nessuno ci assicura che, con essa, cesserebbe anche la disoccupazione. E mentre vengono contrabbandati come rimedi i più astrusi sotterfugi (come il Jobs Act o i voucher) di cui conosciamo in anticipo l’inefficacia, mentre vengono esibite statistiche ridicole (come un incremento dello 0,2%) di cui è lampante la futilità, milioni di persone si macerano in una sofferenza sorda, acuita dalla vergogna per il fallimento, benché incolpevole. Una vergogna che coinvolge, insieme al disoccupato, anche i suoi familiari: la madre che si umilia a implorare un lavoro purchessia per la propria figlia; il padre che inventa scuse penose per nascondere a se stesso e agli altri la disoccupazione del figlio («È in attesa di una risposta dalla Ibm»; «Sta seguendo un corso alla London School»; «Sta conseguendo un master ad Arcavacata»…).
Una mutazione epocale. Siamo in presenza di una mutazione epocale per cui riusciamo a produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano, eppure imputiamo ai disoccupati il peccato della loro disoccupazione come se, avendo voglia di trovare un impiego, tenessero a portata di mano un ottimo posto di lavoro che si ostinano colpevolmente a rifiutare. E, a furia di essere considerati colpevoli, finiscono per sentirsi tali, succubi di un’alienazione che rende inclini alla depressione.
Indurre alla vergogna i disoccupati e i loro familiari è un capolavoro del capitalismo, perché tramuta la rabbia in rassegnazione e garantisce pace al sistema. È dunque un elemento così imprescindibile del profitto che meriterebbe di essere quotato in Borsa.
Nessuno ha deciso la propria nascita e tuttavia, secondo questo sistema implacabile, dopo essere nato, ognuno deve dimostrare di meritare la vita. Non «ognuno», a dire il vero. Perché vi è un’infima minoranza, che detiene privilegi di ricchezza, potere e sapere, esonerata da questo obbligo, mentre la quasi totalità è tenuta a dimostrare giorno per giorno, attraverso il lavoro, la propria utilità al sistema, cioè al profitto. E se il sistema del profitto gli toglie il lavoro, cioè l’unica condizione necessaria alla sopravvivenza, impedendogli così di dimostrare la propria utilità, non è il colpevole sistema che deve vergognarsi, ma il disoccupato incolpevole.
Per alimentare questo paradosso, si perpetua una teatrale messa in scena che va dalle pompose proclamazioni costituzionali («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro») alla pretesa burocratica che milioni di disoccupati dimostrino agli uffici di collocamento, almeno una volta l’anno, di avere compiuto la ricerca «effettiva e permanente» di un lavoro che non troveranno mai per il semplice fatto che non esiste. E in questa farsa perversa si consuma l’esclusione, la decadenza, il confino, la deportazione di milioni di uomini e donne cui si chiede di scomparire letteralmente dalla società, di stare buoni nelle periferie sociali, di non osare proteste, di accucciarsi nel cantuccio riservato agli scarti umani, di convincersi di essere esodati non solo dal lavoro ma anche dalla vita, cioè superflui, dal momento che è inutile vivere se non si è vantaggiosi per il sistema.
La violenza della calma. Ma questi milioni di uomini e donne votano e, dunque, occorre estorcerne il consenso. Perciò si ricorre a continue, illusorie promesse di imminenti uscite dalla crisi, a un’altalena di micromutazioni del Pil che quanto prima – così si mente sapendo di mentire – riprenderà a crescere, a una sarabanda di leggi, leggine e decreti cui si finge di affidare la soluzione radicale del problema, a sbandierare le rare circostanze in cui si riesce a creare qualche migliaio di posti di lavoro, tacendo furbescamente dei milioni di disgraziati che restano disoccupati.
Intanto il sistema escogita mille sotterfugi (come i voucher) o affida agli stessi disoccupati il compito di crearne (come nel caso di Uber) per spremere fino allo spasimo le masse di senza lavoro, estraendone ogni tanto qualcuno dal mucchio per elargire lavoretti interstiziali, fugaci e sottopagati, ma non per questo gradevoli e tranquilli, necessari comunque a soddisfare le esigenze marginali del mercato e a tacitare gli esausti postulanti.
Con questa «violenza della calma», il sistema sottopone i disgraziati a una doccia scozzese di piccole speranze e piccole disperazioni con cui viene resa ineluttabile e accettata la massiccia esclusione dal mondo dei produttori, pur restando ammessi al mondo dei consumatori.
Questa grande rappresentazione teatrale del sistemaprofitto, sollecito nell’elaborare piani sociali, interventi cautelativi, politiche assistenziali, fa comunque salvo il presupposto fuori discussione che la povertà e la disoccupazione siano fenomeni eterni, scontati, fisiologici, intrinseci alla natura, al genere umano e a quel processo economico neoliberale che la «fine della storia» ha decretato vittorioso. Appurato e stabilito che la povertà non solo è inevitabile ma è crescente, nulla può impedire che masse sempre più numerose di giovani disoccupati vi caschino dentro. Se osano tergiversare nel loro retrocedere sul percorso della mobilità sociale, sono «choosy»; se recalcitrano, sono «mammoni»; se indugiano nel parcheggio universitario, sono «sfigati». Se poi emergono inattesi dalle fogne periferiche e dalla cupa depressione per sfogare la loro rabbia fracassando la vetrina di una banca di Piazza Affari o di una boutique di via Condotti, allora i telegiornali amplificheranno la notizia per settimane, illustrandola con immagini meticolose, mentre i solerti commentatori, con argomentazioni trite e ritrite, faranno a gara per vivisezionare le cause psicosociali di tanta perversione e per stigmatizzare la degenerazione immonda in cui colpevolmente si crogiola certa gioventù dei giorni nostri, viziata e ingrata verso chi ne tollera l’esistenza. Allora la buona borghesia, dimentica di essere andata al potere ghigliottinando 23.000 aristocratici durante la Rivoluzione francese, bollerà scandalizzata, senza se e senza ma, la violenza di chi avrà cercato di neutralizzare con le mazze, provocando qualche contusione, le cariche della polizia munita di idranti, fumogeni, blindati e manganelli, oltre che di armi da fuoco.
Secondo la Forrester, l’unica soluzione possibile per i disoccupati è «non stare al gioco». Purtroppo non ci dice come. Ed è questo che cercherò di ipotizzare io alla fine di questo libro.
Intanto, la macabra rappresentazione teatrale, che fa milioni di vittime reali, in carne e ossa, impone alcune regole al gioco, non scritte ma non per questo meno inflessibili. Prima fra tutte, che il profitto va perseguito e corteggiato, mai nominato; così pure non vanno mai nominate le classi (che non esistono più), la lotta di classe (estinta per sempre), la rivoluzione (sconfitta dalle riforme), lo sfruttamento (assorbito dalla crisi generale), i padroni (che sono la buona «parte viva» del Paese); meno che mai vanno pronunziati nomi come Marx, Marcuse o Hobsbawm. Tutti concetti ormai desueti e privi di senso; modernariato linguistico ormai archiviato dall’avvento postindustriale.
Un mondo a parte e al di sopra. Ogni progresso fa le sue vittime. E mentre alcuni si applicano accanitamente al progresso, trascurando le vittime, altri si arroccano nella difesa delle vittime disinteressandosi del progresso. Così, mentre il sistema del profitto veleggia verso un lavoro super tecnologico e super specializzato, perfezionando forme di sfruttamento fulminee, impalpabili e raffinatissime, dove padroni e schiavi si dissolvono in figure astratte e ubique come altrettante ombre di Banco, i difensori delle vittime restano ancorati a una visione oleografica del lavoro fatta di fabbriche e ciminiere, agenzie bancarie e impiegati, edilizia e muratori, dove i ruoli erano ben ripartiti e ben riconoscibili, gli esecutori erano indispensabili e tantissimi, gli strumenti di produzione e i prodotti potevano essere toccati, pesati e misurati. Il mondo analogico degli «atomi», sempre più sopravanzato dal mondo digitale dei «bit», per usare i termini inaugurati da Nicholas Negroponte.
Nella società postindustriale, avviata dalla Seconda guerra mondiale e consolidata negli anni Ottanta del secolo scorso, l’economia prende il sopravvento sulla politica, la finanza prende il sopravvento sull’economia, le agenzie di rating prendono il sopravvento sulla finanza, sicché la politica deve sottostare ai tempi del Nasdaq, primo esempio al mondo di mercato borsistico elettronico, dell’implacabile indice Dow Jones o di agenzie diaboliche come Fitch, Moody’s o Standard & Poor’s.
Questo mondo a parte e al di sopra, armato di cibernetica, di computer e di intelligenza artificiale, ha interposto distanze siderali con il vecchio mondo del lavoro, considerato come un rumore di fondo, una ferraglia di scioperi inutilmente chiassosi, di trattative e concertazioni vetero-proletarie; un mondo industriale che si intestardisce a esistere in un contesto postindustriale che non ha più bisogno del lavoro umano in quanto fornitore di oggetti materiali che i robot sanno produrre più velocemente, più impeccabilmente, senza rivendicazioni salariali, senza lamenti aggressivi, senza manifestazioni pericolose, senza pause per i bisogni corporali.
Perché mai questo mondo a parte e al di sopra, fatto di «manipolatori di simboli», come li chiama Robert Reich, capaci di estrarre dalle combinazioni virtuali i derivati finanziari spesso negoziati prima ancora di esistere, perché questo mondo del real time e dell’ubiquità dovrebbe tener conto delle masse di «incoscienti» che insistono, poveri maniaci, per occupare perimetri concreti, stabili, collocati, nei quali battere sui chiodi, stringere viti, trasportare della roba, classificare cose, calcolare dei numeri, impicciarsi di tutto, fare molto rumore per nulla, con circuiti lenti a misura del corpo, sforzi evidenti, cronologie e tempi già caduti nel dimenticatoio e poi con le loro vite, i loro bambini, le loro case, i loro cibi, i loro stipendi, il loro sesso, le loro malattie, i loro divertimenti, i loro diritti?
Il groviglio delle multinazionali. Il sistema postindustriale del profitto, che ha abolito il tempo e lo spazio delle transazioni, è dominato da multinazionali private che, a differenza degli Stati, non hanno intralci giuridici, non hanno responsabilità politiche, non hanno preoccupazioni elettorali, non hanno scrupoli nei confronti di coloro che schiacciano, si muovono a livello planetario, si articolano e si fondono in modo così aggrovigliato da sfuggire a ogni controllo dislocando e spostando velocemente ciascuna funzione nel continente più vantaggioso sotto il profilo della tassazione, degli incentivi, del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori.
Proprio mentre la Forrester scriveva queste cose, su «Le Monde» André Gorz e Jacques Robin denunziavano: «La delocalizzazione ha permesso alle società transnazionali di svincolarsi dalle leggi dello Stato-nazione, di svuotare quest’ultimo di significato per sottometterlo alle leggi dello Stato mondiale del capitale. Resistere voleva dire esporsi alle “sanzioni dei mercati”. Di quei mercati le cui leggi senza autori sottraggono le imprese al dominio delle leggi (politiche) che si danno le società umane». Intanto, già alla fine del XX secolo, sul solo mercato di Londra venivano scambiati ogni anno 75 trilioni di dollari, pari a 25 volte il valore di tutti i beni prodotti nel mondo in un anno. E, se la compagnia Cargill vendeva del mais a un industriale olandese, il grano era trasportato sul Mississippi, imbarcato a Baton Rouge e inviato a Rotterdam; ma, sulla carta e per il fisco, la merce seguiva una strada molto più complicata. Cargill vendeva il mais a Tradax International di Panama (Tradax era sempre una società Cargill). Tradax International di Panama assumeva temporaneamente Tradax di Ginevra come suo agente. Tradax di Ginevra avrebbe in seguito arrangiato la vendita con un commerciante di farine olandesi passando attraverso la sua filiale, ossia Tradax Olanda. Ogni profitto era riportato in conto di Tradax Panama, compagnia installata in quel paradiso fiscale, e Tradax Ginevra riceveva degli onorari per aver servito come intermediaria tra Tradax Panama e Tradax Olanda.
Percorsi non dissimili fanno oggi i prodotti e le fatture di Apple, che progetta in America, fabbrica in Cina, vende in tutto il mondo e fattura in un paio di paradisi fiscali. Persino il «Financial Times» ha dovuto ammettere che, «se oggi fosse vivo, Steve Jobs starebbe in galera».
Nella società postindustriale, di cui ormai è chiaro il profilo, solo una parte minima della popolazione terrestre troverà funzioni da svolgere, e si tratterà di funzioni prevalentemente creative, che richiedono enormi investimenti in formazione. Già oggi milioni di esseri umani non vengono procreati perché i loro genitori potenziali non saprebbero come allevarli e come sistemarli. Per non sotterrare ancora prima che nascano questi milioni di nostri consimili, occorrerebbe una politica visionaria, radicalmente diversa da quella del sistema-profitto basata sulla concorrenza, sulla competitività, sul consumismo, sulla flessibilità e che ripete all’infinito il leitmotiv del lavoro come priorità assoluta e della disoccupazione come «nostra maggiore preoccupazione».
Un mondo a parte e al di sotto. Il girone estremo, in cui scade il disoccupato quando gli viene meno anche il soccorso della famiglia e del welfare, è quello della mendicità, ossia dell’invisibilità sociale, della sventura assoluta, della morte civile prima della morte fisica.
Quel mendicante che scivola furtivo, vergognandosi di chiedere un euro al passante frettoloso, qualche mese fa preparava la tesi di laurea illudendosi di approdare di lì a poco a una vita migliore di quella che suo padre, piccolo borghese, ha condotto per anni, sacrificandosi per mantenerlo agli studi. Ora si metterà in fila – una fila che si allunga di giorno in giorno – alla mensa della Caritas per una scodella di minestra annacquata e poi imparerà a adocchiare la nicchia meno gelida da contendere agli altri miserabili, per dormirvi alla meno peggio, protetto dai cartoni.
Alla stessa fila della Caritas si accoda l’operaio che non ha più diritto al sussidio di disoccupazione, l’impiegato che ha ormai superato i termini previsti dalla cassa integrazione, il manager che fino a qualche mese fa si illudeva di essere immune dal licenziamento e poi è stato gettato sul lastrico da un momento all’altro, il lavoratore che mantiene ancora un impiego ma percepisce un salario assolutamente inadeguato alle pur misere esigenze della sua famiglia.
Poiché non siamo di fronte a una crisi violenta e breve, come accadeva in passato, ma di fronte a una decrescita di lunga durata, che gli economisti chiamano elegantemente «strutturale», ormai la povertà si riflette anche sulla generazione successiva perché, come dice Wright Mills, «non solo i figli dei ricchi ereditano la ricchezza con tutti i suoi vantaggi, ma i figli dei poveri ereditano la povertà con tutti i suoi svantaggi». Perciò dalla povertà economica discende la povertà educativa e, nel 30% dei casi, i figli dei nuovi poveri finiscono per abbandonare la scuola, castrandosi così anche dell’ultima speranza di mobilità sociale. Per la prima volta da duecento anni a questa parte, moltissimi giovani sono più poveri della generazione che li ha preceduti, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista culturale.
Puntare sulla crescita, quando la crescita non arriva, significa allargare le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Nel 2007, all’inizio della crisi, le dieci famiglie italiane più ricche avevano una fortuna pari a quella di 3,5 milioni di italiani poveri. Oggi, a dieci anni dall’inizio della crisi, le stesse dieci famiglie hanno una ricchezza pari a quella di 6 milioni di italiani poveri.
Quando cadde il muro di Berlino, Václav Havel mi disse che il comunismo aveva perso, ma il capitalismo non aveva vinto; perché il comunismo sa distribuire la ricchezza ma non la sa produrre, mentre il capitalismo sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire. Un’iniqua distribuzione della ricchezza, confluita in poche mani, deprime i consumi, prolunga la crisi e la peggiora, finendo per aggravare ulteriormente la povertà.
Docili e invisibili. Due cose interessano al sistema-profitto per quanto riguarda i poveri «assoluti» (e già in questa distinzione tra poveri assoluti e poveri relativi c’è tutto il cinismo ipocrita con cui l’organizzazione dominante cerca di esorcizzare la disperazione affogandola in formule burocratiche): che siano docili e invisibili. La docile non-ribellione è assicurata dalla stessa povertà, che infiacchisce il corpo e offusca la mente, inchiodando tutta la persona alla ricerca di risorse minime e indilazionabili, sicché non resta nessuna residua energia, nessuna ulteriore intelligenza da applicare a un progetto di lungo termine, dal momento che anche il medio termine è un lusso che il povero non può permettersi.
L’invisibilità è una delle due conditio sine qua non imposte al povero se vuole sopravvivere in un sistemaprofitto preoccupato di garantire ai suoi privilegiati la sicurezza urbana, la tranquillità della coscienza e la soavità dei sensi. Il povero, come spiega la Forrester, è tenuto a diventare «uno di quelli che, anche se visti, anche se sentiti, non vengono guardati, non vengono ascoltati, e che, del resto, tacciono». L’insistenza di un accattone che chiede l’obolo, la spudoratezza di un barbone che osa dormire sotto un portone borghese, la puzza di un pezzente che si permette di salire su un autobus di linea, rappresentano altrettante evasioni improprie dalla invisibilità, altrettante ferite al quieto vivere della borghesia e al rispetto per la sua agiatezza.
Ciò che va apprezzato nel povero, ciò che è legittimo pretendere da lui, ciò che egli è tenuto a coltivare in massimo grado, è la dignità. Il povero dignitoso – e tutti i poveri sono tenuti a esserlo – non importuna i passanti con le sue questue noiose, non si ripara dal freddo in luoghi impropri, non mette a dura prova l’olfatto dei passeggeri. Anche a costo di morire di fame, di astenersi dal dormire, di rinunziare ai mezzi pubblici.
Eppure tutti questi poveri, sempre più numerosi, sempre più giovani, hanno un corpo da nutrire e da far sopravvivere giorno per giorno. Essi, dice ancora la Forrester, «sono là con la loro età, le loro braccia, i loro capelli, le loro vene, la finezza complicata del loro sistema nervoso, il loro sesso, il loro stomaco. Con il loro tempo deteriorato. Con la loro nascita, per ciascuno l’inizio del mondo, la soglia del tempo che li ha portati dove sono». Gente delusa da tutto, ancora più disgraziata se osa nutrire qualche speranza pur sapendo con certezza che sarà vanificata. Gente tragicamente consapevole «della fine di sé avvenuta molto prima della morte, e che bisogna trascinarsi da vivi».
La fugace dimestichezza con questi nostri poveri, che la televisione, presa da un orgoglioso raptus di onestà informativa, a volte ci mostra tra una pubblicità di cibo per gatti e un quiz premiato con gettoni d’oro, rinvia la nostra mente a milioni di poveri ancora più poveri che sbarcano ogni giorno in Europa dopo chilometri di deserto, mesi di campi di concentramento, decimazioni sui barconi, e che saranno poi messi in ordine gerarchico a seconda se immigrati o rifugiati, cioè a seconda che fuggano da una morte per fame o da una morte per guerra, dal momento che, per l’impassibile cinismo del sistema-profitto, anche le morti, come tutte le merci, sono diverse tra loro e hanno prezzi diversi.
E, a loro volta, i fugaci fotogrammi di questi milioni di poveri più poveri ci fanno pensare ai miliardi di poverissimi asiatici, africani e sudamericani che noi, standocene in poltrona, guardiamo sui nostri teleschermi con subitanea ed emozionata indignazione, comunque soddisfatti di essere solo spettatori, e spettatori dominanti.
Tratto da: Domenico De Masi, Lavorare gratis, lavorare tutti, Perché il futuro è dei disoccupati