Un soffio di vita

Ci sarà un anno in cui ci sarà un mese in cui ci sarà una settimana in cui ci sarà un giorno in cui ci sarà un’ora in cui ci sarà un minuto in cui ci sarà un secondo e dentro a quel secondo ci sarà il non tempo sacro della morte trasfigurata.  C.Lispector

«Voglio scrivere movimento puro» Questo non è un lamento, è un grido di uccello rapace. Iridato e inquieto. Il bacio sul volto morto. Scrivo come se fosse in gioco la vita di qualcuno. Probabilmente la mia stessa vita. Vivere è una specie di follia che la morte commette. Che vivano i morti perché viviamo in loro. D’improvviso le cose non hanno più bisogno di avere un senso. Mi accontento di essere. Tu sei? Sono sicuro di sì. Il non senso delle cose suscita in me un sorriso compiaciuto. Senza dubbio tutto deve continuare a essere quello che è.

Oggi è un giorno da nulla. Oggi è tempo zero. Esiste per caso un numero che non è nulla? Che è meno di zero? Che comincia in ciò che non è mai cominciato perché era da sempre? Ed era prima di sempre? Mi appiglio a questa assenza vitale e ringiovanisco interamente, al contempo contenuto e totale. Rotondo senza inizio né fine, sono il punto prima dello zero e del punto finale. Dallo zero all’infinito camminerò senza fermarmi. Ma allo stesso tempo tutto è così passeggero. Io sono sempre esistito e di colpo non ero più. Il giorno là fuori scorre a caso e ci sono abissi di silenzio in me. L’ombra della mia anima è il corpo. Il corpo è l’ombra della mia anima. Questo libro è l’ombra di me. Chiedo il permesso di passare. Mi sento in colpa se non vi obbedisco. Sono felice nel momento sbagliato. Infelice quando tutti ballano. Mi hanno detto che gli storpi esultano e mi hanno anche detto che i ciechi gioiscono. È che i poveretti si compensano l’un l’altro.

La vita non è mai stata così al presente come oggi: in un batter d’occhio è il futuro. Tempo per me significa disgregazione della materia. L’imputridimento di ciò che è organico, come se il tempo fosse un verme dentro a un frutto e andasse rubandogli l’intera polpa. Il tempo non esiste. Ciò che chiamiamo tempo è il movimento di evoluzione delle cose, ma il tempo in sé non esiste. Oppure esiste, immutabile, e in esso ci trasferiamo. Il tempo passa troppo in fretta e la vita è così corta. Dunque – affinché io non venga inghiottito dalla voracità delle ore e dalle novità che fanno passare il tempo in fretta – coltivo un certo tedio. Mi assaporo così ogni detestabile minuto. E coltivo inoltre il silenzio vuoto dell’eternità della specie. Voglio vivere molti minuti in un solo minuto. Voglio moltiplicarmi per arrivare ad abbracciare territori desertici che diano un’idea di immobilità eterna. Nell’eternità il tempo non esiste. Notte e giorno sono opposti perché sono il tempo e il tempo non si divide. Da ora in avanti il tempo sarà sempre al presente. Oggi è oggi. Nutro meraviglia e insieme sospetto per quanto mi vien dato. E domani avrò nuovamente un oggi. Vivere l’oggi ha qualcosa di doloroso e struggente. Il parossismo della più sottile ed estrema nota di violino insistente. Ma esiste l’abitudine e l’abitudine anestetizza. Il pungiglione d’ape dell’oggi in fiore. Grazie a Dio, ho di che cibarmi. Il nostro pane quotidiano.

Vorrei scrivere un libro. Ma dove sono le parole? I significati si sono svuotati. Come dei sordomuti, comunichiamo con le mani. Vorrei mi si concedesse di scrivere a ritmo arpeggiato e agreste i rottami della parola. E liberarmi dall’essere discorsivo. Così: inquinamento.

Scrivo o non scrivo?

Saper desistere. Abbandonare o non abbandonare – ecco, spesso, il dilemma di un giocatore. L’arte di abbandonare non si insegna. E non è affatto rara la situazione angosciosa in cui devo decidere se ha senso continuare a giocare. Sarò capace di abbandonare nobilmente? O sono di quelli che continuano testardamente a giocare sperando che succeda qualcosa? Per esempio, la fine del mondo? O qualsiasi altra cosa, come la mia morte improvvisa, ipotesi che renderebbe superflua la mia scelta.

Non voglio scommettere su me stesso. Un fatto. Che cos’è che diventa un fatto? Devo interessarmi agli accadimenti? Forse mi abbasserò al punto da riempire la pagina di informazioni sui «fatti»? Devo immaginare una storia o dare libero corso all’ispirazione caotica? Parecchia falsa ispirazione. E se poi arriva quella vera e io non me ne accorgo? Sarà poi così orribile volersi avvicinare, dentro di sé, al limpido io? Solo quando l’io smette di esistere, di rivendicare qualcosa, quando comincia a far parte dell’albero della vita – sì, è per raggiungere questo fine che lotto. Dimenticarsi di sé e tuttavia vivere molto intensamente.

Ho paura di scrivere. È molto pericoloso. Chi ci ha provato, lo sa. Pericolo di interferire con ciò che è nascosto – e il mondo non è in superficie, si trova nascosto nelle sue radici sommerse nelle profondità del mare. Per scrivere devo collocarmi nel vuoto. È in questo vuoto che esisto intuitivamente. Ma è un vuoto terribilmente pericoloso: da esso spremo sangue. Sono uno scrittore che teme le trappole delle parole: le parole che dico ne celano altre – quali sono? Forse le dirò. Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo.

Meditazione leggera e tenera sul nulla. Scrivo come se fossi quasi completamente liberato dal mio corpo. Come se levitasse. Il mio spirito è vuoto a causa di tanta felicità. L’intima libertà che provo si può paragonare solo a una cavalcata senza meta per i campi. Sono libero, senza meta. Sarà forse il raggiungimento della libertà la mia meta? Non c’è una ruga nel mio spirito che non si espanda in spume leggere. Ho smesso di essere tormentato. Questa è la grazia.

Sto ascoltando della musica. Debussy usa la spuma del mare che va a morire sulla sabbia, fluendo e rifluendo. Bach è matematico. Mozart è il divino impersonale. Chopin racconta la sua vita più intima. Schönberg, attraverso il suo io, raggiunge l’io classico di tutti. Beethoven è l’emulsione umana in tempesta che cerca il divino e lo raggiunge solo nella morte. Quanto a me, che non chiedo musica, arrivo alle soglie della parola nuova. Senza il coraggio di rivelarla. Il mio vocabolario è triste e a volte wagneriano-polifonico-paranoico. Scrivo molto semplice e molto nudo. Per questo fa male. Sono un paesaggio grigio e azzurro. Stagliato nella fonte prosciugata e nella luce fredda.

Voglio scrivere in modo squallido e strutturale come il risultato di squadre, compassi e angoli acuti di uno stretto ed enigmatico triangolo.

«Scrivere» esiste di per sé? No. È soltanto il riflesso di qualcosa che pone domande. Io lavoro con l’inatteso. Scrivo come scrivo senza sapere come o perché – per fatalità di voce. Il mio timbro sono io. Scrivere è un’investigazione. È così:

Mi starò forse tradendo? Starò deviando il corso di un fiume? Devo avere fiducia in questo fiume copioso. O starò forse mettendo una barriera nel corso del fiume? Provo ad aprire le chiuse, voglio vedere l’acqua scorrere con impeto. Voglio che ogni frase di questo libro sia un climax.

Devo avere pazienza perché i frutti saranno sorprendenti.

Questo è un libro silenzioso. E parla, parla piano.

Questo è un libro fresco – appena venuto fuori dal nulla. Eseguito al pianoforte delicatamente e con fermezza, e tutte le note sono limpide e perfette, le une ben distinte dalle altre. Questo libro è un piccione viaggiatore. Io scrivo per nulla e per nessuno. Se qualcuno mi leggerà sarà di sua iniziativa e a suo rischio. Io non faccio letteratura: semplicemente vivo nel corso del tempo. Il risultato inevitabile del fatto che vivo è l’atto di scrivere. Mi sono perso di vista da così tanti anni che esito nel cercare di trovarmi. Ho paura di iniziare. Esistere a volte mi dà la tachicardia. Ho così tanta paura di essere io. Sono così pericoloso. Mi hanno dato un nome e mi hanno alienato da me stesso.

Sento che non sto ancora scrivendo. Intuisco e desidero una lingua più fantasiosa, più precisa, con maggior rapimento, in grado di creare spirali per aria.

Ogni nuovo libro è un viaggio. Solo che è un viaggio a occhi bendati per mari mai scoperti prima d’ora – il bavaglio sugli occhi, il terrore dell’oscurità è assoluto. Quando mi coglie un’ispirazione, muoio di paura perché so che viaggerò di nuovo e da solo in un mondo che mi respinge. Ma non ne hanno colpa i miei personaggi e io li tratto meglio che posso. Loro non provengono da nessun luogo. Sono l’ispirazione. E ispirazione non è follia. È Dio. Il mio problema è la paura di impazzire. Devo controllarmi. Esistono leggi che governano la comunicazione. L’impersonalità è una condizione. La separatezza e l’ignoranza sono la pecca in senso generale. E la follia è la tentazione di essere totalmente il potere. Le mie limitazioni sono la materia prima che va lavorata fino a raggiungere l’obiettivo.

Io vivo senza pelle, ecco perché cerco di dare la pelle dura ai miei personaggi. Solo che poi non resisto e li faccio piangere per un nonnulla.

Radici semoventi che non sono piantate o la radice di un dente? Perché anch’io sciolgo i miei ormeggi: uccido ciò che mi turba, e il bene e il male mi turbano, e vado definitivamente incontro a un mondo che è dentro di me, io che scrivo per liberarmi dal peso difficile dell’essere sé stessi.

In ogni parola batte un cuore. Scrivere è ricerca di intima verità della vita. Vita che mi turba e mi fa tremare il cuore, quando soffre per l’incommensurabile dolore che sembra necessario alla mia maturazione – maturazione? Fino ad ora ne sono vissuto senza!

È vero. Ma sembra arrivato il momento di accettare appieno la misteriosa vita di chi un giorno morirà. Devo iniziare ad accettarmi e a non provare l’orrore punitivo che provo ogni volta che cado, poiché quando cado è anche la razza umana a cadere insieme a me. Accettarmi incondizionatamente? È far violenza alla mia vita. Ogni cambiamento, ogni nuovo progetto è causa di stupore: il mio cuore è stupito. È perché ogni mia parola ha un cuore in cui circola il sangue.

Tutto ciò che qui scrivo è forgiato nel silenzio e nella penombra. Ci vedo poco, non sento quasi nulla. In conclusione, mi immergo in me fino al punto in cui nasce lo spirito che mi abita. La mia fonte è oscura. Scrivo perché non so che fare di me. Cioè: non so che fare del mio spirito. Il corpo dice molto, ma le leggi dello spirito le ignoro: esso vaga. Il mio pensiero, quando formula parole nella mente, senza che io poi parli o scriva, questo mio pensiero di parole è preceduto da una fulminea visione del pensiero stesso, senza parole – le parole seguiranno, quasi immediatamente, con uno scarto spaziale di meno di un millimetro. Prima di pensare, quindi, ho già pensato. Supponendo che il compositore di una sinfonia possieda solamente il «pensiero prima del pensiero», ciò che si vede in questa rapidissima idea muta è poco più di un’atmosfera? No. In verità è un’atmosfera che, già colorata dal simbolo, mi fa sentire l’aria dell’atmosfera da dove tutto proviene. Il pre-pensiero è in bianco e nero. Il pensiero con parole ha altri colori. Il pre-pensiero è il pre-istante. Il pre-pensiero è il passato immediato dell’istante. Pensare è la concretizzazione, la materializzazione di ciò che si è prepensato. In verità il pre-pensare è ciò che ci guida, perché è intimamente legato al mio muto inconscio. Il pre-pensare non è razionale. È quasi vergine.

A volte la sensazione di pre-pensare è un’agonia: è la tortuosa creazione che si dibatte nelle tenebre e che si libera solo dopo aver pensato – con parole.

Voi mi obbligate allo sforzo tremendo di scrivere; e dunque, permesso, mio caro, lasciami passare. Sono serio e onesto e se non dico la verità è perché è proibita. Io non adopero il proibito, lo libero. Le cose ubbidiscono al soffio vitale. Si nasce per gioire. E gioire è già nascere. Finché siamo feti, gioiamo del conforto totale del ventre materno. Quanto a me, che ne so. Quello che ho mi entra nella pelle e mi fa agire sensualmente. Voglio la verità che mi viene data soltanto attraverso il suo contrario, la menzogna. E non sopporto il quotidiano. Dev’essere per questo che scrivo. La mia vita è un unico giorno. Ed è così che il passato è per me presente e futuro. Tutto in una sola vertigine. E la dolcezza è così intensa che mi fa un insopportabile solletico nell’anima. Vivere è magico e totalmente inspiegabile. Comprendo meglio la morte. Essere quotidiano è un vizio. Che cosa sono io? Sono un pensiero. Possiedo il soffio? lo possiedo? ma chi è che lo possiede? chi è che parla per me? possiedo un corpo e uno spirito? io sono un io? «È esattamente così, tu sei un io» mi risponde terribilmente il mondo. E ne provo orrore. Dio non deve mai essere pensato, altrimenti Lui fugge o io fuggo. Dio dev’essere ignorato e sentito. Allora Lui agisce. Mi chiedo: perché Dio chiede così tanto di essere amato da noi? Risposta possibile: perché in questo modo amiamo noi stessi, e amandoci ci perdoniamo. E quanto abbiamo bisogno del perdono. Perché la vita stessa arriva già mescolata con l’errore.

Il risultato di tutto ciò è che dovrò creare un personaggio – più o meno come fanno i romanzieri – e attraverso la sua creazione conoscere. Perché da solo non ci riesco: la solitudine, la stessa che esiste in ognuno di noi, mi spinge a inventare. E ci sarà un altro modo di salvarsi? a parte quello di creare le proprie realtà? Ho la forza necessaria, come ce l’hanno tutti – è vero o no che finiamo per creare quella fragile e folle realtà che è la civiltà? Questa civiltà a stento guidata dal sogno. Ogni mia invenzione mi suona come una preghiera laica – è questa l’intensità del mio sentire, scrivo per comprendere. Ho scelto me e il mio personaggio – Ângela Pralini – per tentare, attraverso noi due, di comprendere questa vita che non ha definizione. Vita non ha aggettivo. È una mistura dentro uno strano crogiolo, ma che consiste, in ultima analisi, nel respirare. E a volte nell’ansimare. E a volte nel respirare appena. Sì. Ma a volte c’è anche la profonda boccata d’aria che arriva fino al tenue freddo dello spirito, per il momento ancora legato al corpo.

Vorrei iniziare un’esperienza e non soltanto essere vittima di un’esperienza da me non scelta, semplicemente accaduta. Di qui, la mia invenzione di un personaggio. Inoltre voglio spezzare, oltre all’enigma del personaggio, l’enigma delle cose.

Questo, immagino, sarà un libro che sembrerà composto di detriti di libro. Ma in verità si tratta di raffigurare le mie fulminee visioni e quelle del mio personaggio Ângela. Potrei prendere ogni singola visione e dissertarne per pagine e pagine. Ma accade che l’essenza della cosa a volte si trovi solo nella visione. Ogni appunto, sia nel mio diario sia nel diario che ho fatto scrivere ad Ângela, mi provoca un piccolo spavento. Ogni appunto è scritto al presente. L’istante già è fatto di frammenti.

Non voglio attribuire un falso futuro a ogni visione di un attimo. Tutto accade esattamente nel momento in cui viene scritto o letto. Questo brano qui, in verità, nella sua forma originaria, è stato scritto dopo aver riletto il libro, perché mentre procedevo non avevo ben chiara la nozione del cammino da intraprendere. Nel frattempo, senza dare grandi spiegazioni logiche, mi ostinavo precisamente a mantenere l’aspetto frammentario tanto in Ângela quanto in me.

La mia vita è fatta di frammenti e lo stesso accade ad Ângela. La mia vita possiede un vero intreccio. Ma sarebbe la storia della corteccia di un albero e non dell’albero. Un sacco di fatti che solo la sensazione potrebbe spiegare. Mi accorgo che, senza volere, quello che io scrivo e che Ângela scrive sono dei brani per così dire sparsi, sebbene all’interno di un contesto di…

È così che questa volta prende forma il mio libro. E, siccome provo rispetto per ciò che viene da me a me, è proprio così che scrivo.

Tratto da: Clarice Lispector, Un soffio di vita, Adelphi eBook