L’eclissi della memoria incombe su noi tutti, minaccia la convivenza civile, insidia il futuro, toglie respiro al presente. Se la città è la forma ideale e tipica delle comunità umane, Venezia è oggi, e non solo in Italia, il simbolo supremo di questa densità di significati, ma anche del suo declino. Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre piú necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtú che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia. Come ogni essere umano si caratterizza per quel che ha di irripetibile, ma può metterlo pienamente in luce, e a frutto, solo in un serrato confronto con i talenti e le esperienze degli altri, cosí è per le città: nell’infinita varietà delle loro vicende storiche, della forma urbana, dei linguaggi architettonici, dei materiali di cui sono costruite, dei paesaggi in cui s’innestano, ogni città è unica, e come tale vissuta e amata dai suoi abitanti. E su questo patrimonio dovrebbe costruire il proprio futuro. Ma ogni città è, anche, rappresentativa di uno sviluppo particolare, che dal gioco di somiglianze e differenze con altre città trae senso, forza e destino. Ogni città è il frutto di un enorme numero di scelte nel corso del tempo; scelte che a ogni bivio della sua storia avrebbero potuto essere diverse. Perciò ogni città ne contiene altre: le città che essa è stata, e che vi hanno lasciato impronte piú o meno marcate, ma anche le città potenziali che essa avrebbe potuto essere, e non fu, e che talvolta si vedono incarnate, per somiglianza o affinità, in altre città. La trama fisica della città e la morfologia del suo sito fanno tutt’uno con l’ordito delle sue istituzioni, degli eventi di cui fu ed è teatro, dei progetti e delle speranze che ospitò e che potrebbe ancora innescare. E il succedersi delle generazioni che hanno tessuto quella trama e quell’ordito è consustanziale a essi, li genera e ne è generato.
Nell’Italia delle cento città, la forma urbana è nata e rinata molte volte: nelle città greche ed etrusche, a Roma e nei suoi territori, in un lungo e fecondo Medio Evo, e in spettacolare sequenza e continuità dal Rinascimento a ieri. Si è rinnovata profondamente, spesso tuttavia conservando e riutilizzando mura, percorsi, templi, ponti vecchi di secoli, forti tracce di un passato troppo ricco per essere ignorato. Perciò vediamo ancora abbastanza, delle città italiane, da potervi riconoscere o immaginare strade simili o identiche a quelle in cui camminarono Virgilio, Dante, Ariosto. Riconosciamo, nel viaggio della mente dalle Alpi alla Sicilia, una incomparabile varietà di forme locali del vivere in città, ciascuna delle quali si incarnò poi non solo in palazzi e chiese e piazze, ma in istituzioni e pratiche di governo, dai re di Napoli alle repubbliche di Genova e di Venezia. E in quel variato scenario di città si svolse per generazioni un assiduo pensare e ripensare la natura della cittadinanza, leggendo il presente in controluce sul passato. Sappiamo riconoscere al primo sguardo uno scorcio di Palermo o di Napoli da uno di Genova o di Venezia, eppure in tanta sensazionale varietà cogliamo anche un filo unitario, italiano, per quello stesso gioco di rimandi e di fratellanze che nei versi del toscano Dante riscontra gli echi dei poeti siciliani, e nelle pagine del lombardo Manzoni addita il ricomporsi di una lingua letteraria su base toscana. Continuità nel tempo e varietà nello spazio sono i due poli fra i quali si muove la storia della città (cioè della civiltà) degli italiani: una storia che include l’industria e le arti, la musica e la poesia, la coltivazione dei campi e la miniatura dei manoscritti, il mestiere dell’architetto e quello del medico. In questo gioco di costanti e di varianti, quello che è riconoscibile della forma urbana “italiana”, e che ne ha fatto uno dei massimi modelli per gran parte del mondo, è specialmente la polarità città – campagna, che ripropone in modo sempre diverso il contrasto originario fra spazio naturale e spazio urbano, fra ordine della natura e ordine della cultura.
Perciò ogni città è viva narrazione della propria storia, ma anche volto e traduzione in pietra del popolo che la abita, la conserva e la trasforma. La città e il suo popolo sono una cosa sola, un solo nodo lega l’esperienza dei viventi e la memoria delle cose. Ma quale è il popolo di Venezia? Custodito dalle glorie di quella città Nobilissima, et singolare, come intitolava il suo libro il fiorentino Francesco Sansovino (1581), il popolo di Venezia sa a sua volta custodirne il cuore e l’essenza?
Il territorio del Comune di Venezia secondo l’attuale divisione amministrativa include anche una vasta area di terraferma, di cui fanno parte Marghera, Mestre e altre zone, fra cui l’aeroporto di Tessera. È qui che si è diretta negli ultimi decenni la popolazione, specialmente le generazioni piú giovani. Nonostante il movimento interno, in quest’area presa nel suo complesso la popolazione è calata di ben 10o 000 abitanti dal 1971 al 2011 (da 363 062 a 263 996). Ma se guardiamo (come è necessario) solo la popolazione residente del centro storico, i dati sono molto più drammatici.
Come si vede, una sola volta negli ultimi sei secoli Venezia conobbe un calo di popolazione comparabile a quello di oggi: e fu per la peste del 1630, dopo la quale ci volle piú di un secolo per tornare al livello di prima. Ugualmente devastante, anche se i dati demografici sono meno attendibili, era stata la peste del 1348, dopo la quale si calcola che la popolazione calò da circa 120 000 abitanti a 58 000: un po’ piú di oggi. Ma una nuova peste si è insediata a Venezia, dagli anni Settanta del Novecento in qua. Nel 1950, vi furono a Venezia 1924 nuovi nati, a fronte di 1932 morti (piú o meno altrettanti). Nel 2000, le proporzioni mutano completamente, passando a un forte saldo negativo: 404 nati, 1058 morti. Invecchiamento ed esodo dei residenti, disfacimento delle famiglie, bassa natalità, continua contrazione della popolazione disegnano il quadro di una città in fuga da se stessa. Si capisce cosí che, nella farmacia Morelli a campo San Bartolomeo, sia stato esposto un contatore che segna giorno per giorno il numero di abitanti di Venezia, in costante diminuzione.
Chi ha inscenato questo drammatico count down non è un’istituzione pubblica, ma un gruppo di cittadini. Uno di loro, Matteo Secchi, ha dichiarato: «Presto celebreremo il funerale di Venezia e porteremo una bara in corteo fino al Municipio». Per giunta, i veneziani che abitano il centro storico «non eleggono loro il sindaco perché i cittadini di Mestre (la terraferma del Comune) sono tre volte piú numerosi» (Giavazzi).
Chi è, dunque, il popolo di Venezia? Quale è mai la peste che lo va sterminando? Mentre la città si svuota, calano su di essa i ricchi e i famosi, pronti a comprare a costo altissimo una casa – status symbol da usare cinque giorni l’anno. Questo travaso di popolazione stravolge il mercato, creando un sistema di prezzi che espelle i veneziani dalla loro città e ne fa la capitale degli ectoplasmi della seconda casa, che si materializzano con gran pompa e mondanità, poi spariscono nel nulla per mesi. Sciamano intanto ogni anno per le strade e i canali di Venezia otto milioni di turisti per trentaquattro milioni di presenze, a fronte di una massima “capacità di carico” di 12 milioni (G. Tattara, Contare il crocerismo, 2014): in altri termini, per ogni persona che vive stabilmente a Venezia, ci sono piú o meno 600 visitatori volatili. Questa devastante sproporzione ha l’effetto di una bomba: altera profondamente la demografia e l’economia. Domina ormai la città una monocultura del turismo che esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire: di null’altro sembra piú capace Venezia che di generare bed & breakfast, ristoranti e alberghi, agenzie immobiliari, vendere prodotti “tipici” (dai vetri alle maschere), allestire Carnevali fasulli e darsi, malinconico belletto, un’aria di perpetua festa paesana. Rimuovendo dalla coscienza la peste che affligge, decimandolo, il tessuto sociale della città, la sua coesione e la sua cultura civile.
Eppure la monocultura del turismo che svuota Venezia del suo popolo continua a imperare, tanto che nemmeno le attuali 2400 strutture di accoglienza bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50 000 nel centro storico, coprendone la piú gran parte (Stella, «Corriere della sera», 25 gennaio 2014). Solo lungo il Canal Grande, “strada” speciale di una città speciale, dal 2000 hanno chiuso il Provveditorato agli studi, il CNR, alcuni uffici giudiziari, quelli dell’azienda dei trasporti, il consolato tedesco, la sede di Mediocredito, oltre a una ventina di unità immobiliari, ambulatori, magazzini; al loro posto hanno aperto 16 nuovi alberghi (piú di uno all’anno, 11 dal 2007) per un totale di 797 posti letto; dei quattro cantieri in corso, due sono hotel di lusso la cui apertura è prevista prima di Natale; per gli altri due, che saranno pronti nel 2016, la destinazione sarà la stessa.
Muore la commistione di funzioni della città storica, subentra la monocultura turistico-alberghiera.
Ma il popolo di Venezia non è quello dei turisti, nemmeno dei piú attenti che vi trascorrono qualche giorno o qualche settimana. Non è quello di chi possiede ma non abita la folla di seconde e terze e quarte case. Né gli uni né gli altri possono essere ciò che uomini e donne devono essere per una città: il sangue vivo che circola in quelle vene che sono strade e piazze; il custode e l’artefice della memoria; una comunità che identifica la forma fisica della città e la sua ragione etica, Le pietre e il popolo (come nel titolo di un libro di Tomaso Montanari). Il popolo di Venezia oggi può mai essere il drappello sempre piú sparuto dei residenti a Venezia, quasi superstiti di una deforestazione? Potranno esserlo, ma solo se non lasceremo soli quelli fra loro che sono impegnati in un «orgoglioso e disperato tentativo di sopravvivere, mentre la loro città è costantemente, quotidianamente invasa da milioni di stranieri che non possono farvi nessun vero investimento» (Polly Coles, The Politics of Washing. Real Life in Venice, 2014). Venezia rischia di restare presto senza popolo. Se vogliamo che questo non avvenga, anche noi non veneziani dobbiamo farci popolo di Venezia, custodi della sua bellezza e della sua memoria, pensosi del suo futuro. Dobbiamo esserlo nelle nostre rade visite, ma soprattutto tributandole l’omaggio che essa vuole da noi: una forte riflessione sulla forma-città che Venezia rappresenta al massimo livello, sullo stile di vita (e di cittadinanza) che vi si incarna, sulla necessità di elaborare un progetto perché il sangue – il popolo – torni ad animare le sue vene. Dobbiamo esserlo, perché pensando a Venezia possiamo capire qualcosa anche delle altre città, quelle dove viviamo. Del loro senso e del loro (del nostro) destino.
Tratto da: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore
daniela dice
Ma quale città italiana può affermare di avere ancora un proprio popolo, una comunità che conserva la propria memoria, la propria identità? L’Italia stessa non ha più popolo (tenendo presente, senza per questo crucciarsi, che la coscienza nazionale italiana esiste nella repubblica delle lettere). Non è che non siamo più capaci di ricordare chi siamo. La vera tragedia è che non vogliamo più ricordarlo, non vogliamo più essere ciò che eravamo. Preferiamo il nuovo all’eterno. E con Kavafis ci congratuliamo perché “oggi arrivano i barbari”…
nadia dice
eppure qualcosa c’è ancora qui e a macchia d’olio in questo meraviglioso paese ..