“Ghetto” è una parola veneziana, poi diventata universale. Significava “fonderia”, e fu in quell’area, dismessa quando le sue funzioni produttive si spostarono all’Arsenale, che gli ebrei vennero insediati nel 1516. In un saggio ammirevole (nel volume Lo straniero, trad. it. 2014), Richard Sennett ha scritto che l’esperienza degli ebrei nel ghetto veneziano indicò un modo per legare cultura e diritti politici destinato a durare nel tempo […] La segregazione si trasformò in un valore umano positivo, come se i segregati fossero stati risparmiati da un contagio […] e la fede in una comunità organica consolidò il collegamento fra diritti economici e libertà di parola.
In quella che era allora «la città piú cosmopolita d’Europa», anzi «la prima città globale del mondo moderno», la comunità del ghetto seppe sviluppare «un senso di solidarietà reciproca» e «forme di rappresentanza collettiva» imperniate sulla consapevolezza dei propri diritti. Questo «paradosso della forma urbana» di Venezia (una comunità di esclusi che elabora una forte autocoscienza) è secondo Sennett la chiave per intendere il formarsi di «pratiche sociali che trascendono le formulazioni giuridiche e l’egemonia dello Stato»: la capacità discorsiva degli esseri umani diventa l’arma decisiva per rivendicare «il diritto di parola e l’organizzazione dello spazio delle loro vite». La libertà di parola tende a coincidere con il diritto alla città.
Oggi un cieco presentismo prono al dominio dei mercati marginalizza ogni dissenso respingendolo in nuovi ghetti. Per esempio, quello dei veneziani che non solo resistono nel centro storico ma lo difendono dalla monocultura del turismo e dalle mode di un’architettura corriva; o quello di chi, a Venezia e fuori, rivendica la pluralità dei modelli del vivere urbano e la qualità della forma urbis storica. Questa condizione minoritaria, da stranieri «risparmiati dal contagio» della cultura dominante, può diventare una forza. Ma lo sarà solo se l’assediata comunità dei pochi saprà acquistare consapevolezza, sviluppare solidarietà sociale e capacità progettuale, esercitare il diritto di parola. Le pratiche sociali sviluppate dalle associazioni di cittadini, la rivendicazione del diritto alla città (a scala mondiale), la consapevolezza degli alti orizzonti della Costituzione (a scala italiana), la conoscenza locale dei problemi di Venezia e la diffusione delle informazioni, la capacità argomentativa, il nesso fra diritti economici dei cittadini (come singoli e come comunità) e “capitale civico” accumulato nel tempo: è a partire da queste parole d’ordine che è possibile, a Venezia come altrove, ricreare uno spazio comunitario, una rinnovata coscienza di sé, una città che sia corpo e anima, spazio della cittadinanza, visione del futuro.
“Città fra le città”, Venezia è paradigma della città storica, ma anche della città moderna (per esempio Manhattan). È una “macchina per pensare” l’idea di città e le pratiche della cittadinanza, la vita urbana come sedimentazione storica, come esperienza dell’oggi, come progetto di un domani possibile. I suoi problemi hanno una complessità senza pari per il rapporto con l’ambiente circostante, per la sproporzione fra la suprema importanza della città storica e la cronica incapacità delle pubbliche amministrazioni, per il declino demografico, economico, culturale che l’affligge. Tuttavia, guardare a Venezia pensando solo a Venezia è sviante: i processi che vi sono in atto, in particolare lo svilimento e spopolamento della città storica, la retorica di una modernità standardizzata e l’ossessione del lucro, si ritrovano identici anche altrove. Come un malato particolarmente grave, Venezia esibisce piú di altre città le piaghe di un morbo assai diffuso; come un malato particolarmente famoso, attira piú di ogni altra l’attenzione del mondo. Perciò quel che accade a Venezia richiede speciale vigilanza come sintomo e laboratorio del destino delle città storiche.
Venezia è sommo esempio di un equilibrio profondamente turbato fra centro e periferia, fra natura e cultura (fra città e Laguna); ma anche dell’avidità e della corruzione che trasformano i problemi della città in occasione di profitto privato. La terribile alluvione del 1966 ne mise in evidenza la fragilità davanti a maree e acque alte; nacque cosí nel 1976 l’idea di proteggerla con un sistema di dighe mobili da collocarsi alle bocche di porto, il MoSE. Presentata allora come una tecnologia avanzatissima, questa “grande opera” è invecchiata prima di nascere, ma invecchiando ha messo in evidenza un perverso rapporto tra politica e imprese. Ha offerto ai governi il destro di proclamarne la trionfale inaugurazione: inderogabilmente entro il 1995, annunciò Craxi nel 1986. Ma nel 2014 siamo ancora lontani dalla fine dei lavori, e intanto la politica ha ignorato non solo i dubbi di esperti e associazioni, ma perfino il parere negativo della Commissione di impatto ambientale (1998). Oggi sappiamo perché, grazie alle recentissime rivelazioni sulla corruzione e lo spreco di risorse pubbliche che il MoSE ha innescato. Le indagini hanno coinvolto il sindaco in carica (Orsoni), un ex presidente della Regione Veneto ed ex ministro dei Beni culturali (Galan), l’antico Magistrato alle Acque, la Corte dei Conti, il Consorzio di imprese Venezia Nuova, a cui i lavori del MoSE sono stati affidati in regime di monopolio, e numerosi altri politici, pubblici ufficiali, istituzioni, professionisti, imprese. Insomma, il MoSE è stato
voluto piú dalle imprese cui è stato concesso di costruirlo in condizioni di monopolio e dai politici e funzionari pubblici che ne traggono grande e illecito beneficio, che dai cittadini veneziani per la cui protezione è stato progettato e costruito […] Nel frattempo il MoSE ha inghiottito 6,2 miliardi di euro di denaro pubblico, un terzo dei 18,7 miliardi spesi per le opere di salvaguardia della Laguna dal 1984, cui andranno aggiunti altri 1,5 miliardi per la manutenzione. Ne doveva costare meno di 2 […] e la nostra stima è che i maggiori costi dovuti al “peccato originale” di aver affidato i lavori in monopolio ammontino a oltre 2 miliardi di euro.
Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri, a cui si devono queste parole (nel loro impeccabile Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, 2014), rilevano che illegalità e corruzione non bastano a spiegare quanto è accaduto: «infrazione delle regole e corruzione delle regole non sono fenomeni indipendenti l’uno dall’altro», anzi «le leggi sono state corrotte per arricchire imprese e politica». In «assenza di qualunque considerazione reale sulla fragilità di questo delicato territorio», l’alleanza di politici e imprese ha perseguito un solo «scopo, quello di massimizzare la rendita di cui ci si può appropriare vendendo il nome di Venezia». Il rapporto costi – benefici, all’inizio favorevole, è ora capovolto, e i vantaggi del MoSE saranno in ogni caso nettamente inferiori al suo costo. L’enormità dei fenomeni corruttivi ha perfino indotto il governo Renzi a decretare dopo oltre cinque secoli di vita la soppressione (giugno 2014) del già glorioso Magistrato alle Acque, che aveva resistito alla fine della Serenissima, al governo austro-ungarico, ai mutamenti di regime dell’Italia unita.
Eppure, chi vuole continuare a mungere la vacca grassa dei finanziamenti pubblici ha già predisposto, dopo la fine dei lavori, non solo le ricche miniere della manutenzione dello stesso MoSE, ma anche una nuova “grande opera” da 2,8 miliardi di euro, il “porto offshore”. In prima linea le stesse imprese del MoSE, con la stessa concordanza d’amorosi sensi rigorosamente bipartisan: «l’offshore farà da catalizzatore allo sviluppo della città» (Renato Brunetta, Forza Italia); «Venezia non deve rinunciare allo sviluppo, bisogna uscire dalla trappola della conservazione» (Pier Paolo Baretta, Pd).
Il nuovo porto comprenderà un terminal petroli con banchine di 2000 mq che accoglieranno fino a tre superpetroliere, un terminal per i container, una diga lunga quattro chilometri, realizzati con soldi pubblici grazie alla Legge Speciale del 1984, una legge che autorizza interventi finalizzati alla tutela di Venezia e dei suoi beni paesaggistici e culturali (Giavazzi-Barbieri).
«Uscire dalla trappola della conservazione», dunque, vuol dire usare una legge di tutela per poter «tutto aprire e sventrare, scavare canali rettilinei, cementificare sponde e alzare capannoni» (Italia Nostra). La vicenda MoSE mostra che i problemi di Venezia sono serviti da pretesto per sbandierare la retorica della salvaguardia, ma in realtà hanno innescato giganteschi meccanismi di rapina, gli stessi che sono all’opera anche per altre piú o meno pretestuose “grandi opere”, tanto è vero che «le indagini della magistratura su Expo 2015 hanno coinvolto le medesime imprese messe sotto accusa per il MoSE» (Giavazzi-Barbieri).
Nella corruzione della vita pubblica come su cento altri fronti, Venezia è dunque un caso di scuola. Non solo a Venezia ma anche altrove la città storica si svuota e le istituzioni favoriscono la monocultura turistico-alberghiera e l’aumento dei prezzi delle case, scatenando una sorta di “pulizia etnica” di classe che espelle dalle città i giovani e i meno abbienti. Non solo a Venezia ma anche altrove le «velleità di architetti indegni di questo nome» (Tafuri) inseguono facili guadagni gonfiando le periferie, accettando qualsiasi commissione anche a costo di deturpare i centri storici, adeguandosi pedissequamente alla retorica dei grattacieli. Non solo a Venezia ma anche altrove la comunità dei cittadini è straniera in casa propria, perché la città e il territorio sono intesi come terreno di caccia e di rapina. Non solo a Venezia ma anche altrove declina ogni forma di lavoro creativo, “generazioni perdute” di giovani sono costrette a emigrare, langue la coscienza civile, viene esiliato il diritto alla città. Piú di ogni altra città storica, Venezia «lancia al mondo della modernità una provocazione insopportabile» (Tafuri); e proprio per questo è vittima, negli studi di architettura, di una vivisezione che la tratta come un gigantesco preparato anatomico da ridurre all’osso, per sperimentarvi spericolate decostruzioni (ne parla Teresa Stoppani, Paradigm Islands: Manhattan and Venice, 2011). Ma de-costruire Venezia (concettualmente) come una città di forme fluide e a-storiche da leggersi alla luce di un’estetica presentista è il primo passo per de-costruirla (cioè distruggerla) fisicamente. L’impegno etico dell’architetto dev’essere precisamente l’opposto: non pensare nemmeno per un istante la forma della città senza lo stile di vita, il lavoro, il futuro dei suoi cittadini. E proprio per questo pensare Venezia vuol dire pensare la città storica, anzi qualsiasi città.
Pensare la città è un esercizio non solo della mente, ma della democrazia e della politica, che richiede conoscenza del presente, ma anche uno sguardo lungo sul passato e sul futuro. La città di oggi è una mappa intricata e fluida da cui bisogna partire per capire – primo – come la città è fatta e – secondo – come la si può rifare […] Tanto piú l’immagine che trarremo dall’oggi sarà negativa, tanto piú occorrerà proiettarci una possibile immagine positiva verso cui tendere […] senza perdere di vista quale è stato l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo tutta la sua storia, quello che l’ha distinta dalle altre città e le ha dato un senso. Ogni città ha un suo “programma” implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città evocando i nomi degli dèi che avevano presieduto alla sua fondazione […] nomi che erano personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano o d’elementi ambientali (un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione), che dovevano garantire la sua persistenza attraverso tutte le trasformazioni successive, come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi […] ma deve, al momento giusto, ritrovare i suoi dèi (Italo Calvino, Gli dèi della città, 1975).
Gli dèi di Venezia sono piú esigenti di quelli d’ogni altra città, perché piú vario e produttivo fu qui l’agire degli uomini nella storia, e soprattutto perché piú grande è qui la sfida dell’ambiente naturale, la sua simbiosi con la città. Perciò questa città preziosa, unica, difficile nel suo singolarissimo rapporto con le acque e con la terraferma, in controtendenza perché “naturalmente” pedonale e senza automobili, è il simbolo massimo, a livello planetario, della misura umana della città antica. Perciò essa ci provoca e ci interroga: dobbiamo preservare questa esperienza dello spazio, o diluirla assoggettandola al pensiero unico che vorrebbe imporre un solo modello di neocittà identiche in tutto il mondo?
Nulla è cosí mainstream, politicamente corretto, socialmente obbligato quanto esaltare e praticare la diversità. Diversità di genere, di orientamento sessuale, di religione, di cultura… Ma questa diversità, che vale moltissimo a livello delle scelte individuali, vale assai meno per le città, che sono invece dominate da una crescente smania di omogeneizzarsi. Incarnazione della città storica e dei suoi stili di vita, Venezia è la cartina di tornasole del processo di dissoluzione dell’antica forma urbis, condannata ormai a una condizione residuale. Anche il suo spopolarsi, pilotato dalle istituzioni che dovrebbero impedirlo, ha uno scopo inconfessato ma evidente: cancellarne la diversità, riducendo gli spazi creati per la conversazione civile a passivo scenario del turismo. A Venezia come altrove, per salvare la città storica non basta riattivare la memoria del passato né assaporare il gusto del presente. Non basta nemmeno protestare: la mossa decisiva è riattivare la pratica della cittadinanza e il diritto alla città, elaborando un progetto che preservi l’unicità di questa (come di ogni altra) città e che abbia come regole inaggirabili non solo la cura del contesto e dell’ambiente, ma anche la priorità del valore d’uso della città sul valore di scambio, la funzione sociale della proprietà, il diritto dei cittadini al lavoro creativo, il diritto dei piú giovani alla casa e al futuro.
Città di antico cosmopolitismo, Venezia può essere anche terreno di prova di una concezione inclusiva della cittadinanza che sia adeguata al nostro tempo. Se la città è produzione di uno spazio sociale e culturale, teatro dei pensieri e dei diritti, laboratorio del futuro, è piú che mai importante concepire le pratiche di cittadinanza anche in funzione dei nuovi italiani che, venendo dall’Europa o da altri continenti, fanno parte del tessuto civile della nostra società. Il loro numero crescente e il loro rilievo demografico ne fanno attori essenziali nella città (e nell’Italia) di domani: nulla del nostro patrimonio e del nostro paesaggio potrà essere salvato se anche questi nuovi italiani non ne saranno consapevoli, se la scuola e la comunità non sapranno trasmettere lo spirito della città a chi ne abita il corpo. L’ingannevole cosmopolitismo delle folle di turisti che invadono Venezia non contribuisce in nulla a creare questi nuovi, necessari orizzonti di una cittadinanza che non sia solo ius sanguinis, e nemmeno soltanto ius soli, ma (secondo una felice espressione usata recentemente da Michela Murgia) ius voluntatis, la consapevole volontà di sentirsi cittadini. Per Socrate (nel Critone) la cittadinanza è un patto fra il cittadino e la sua patria, implica una scelta e comporta obblighi: chi resta nella polis (nella comunità) deve seguirne le leggi, o se no adoprarsi perché vengano cambiate. Questa concezione, che ad Atene era legata alla condizione di cittadino nativo (non-schiavo, non-forestiero) dev’essere oggi riempita di nuovo contenuto, estendersi agli immigrati che scelgano di restare, farne membri di una stessa comunità di saperi e d’intenti.
Di un nuovo patto di cittadinanza c’è bisogno, a Venezia e non solo, sia per chi provenga da famiglie del luogo, sia per chi venga da lontano. E un nuovo patto di cittadinanza, a Venezia, deve cominciare da un forte impegno di chi se ne sente cittadino per stimolare le istituzioni e i politici a uno sguardo creativo sulla città. Far vivere la città storica, proiettarla nel futuro vuol dire elaborare nuove politiche per invertire la logica perversa dell’esodo favorendo la residenzialità dei giovani con forti incentivi anche fiscali. Vuol dire arrestare lo sfrenato riuso turistico-alberghiero degli edifici e la proliferazione delle seconde case. Vuol dire incoraggiare le attività produttive e le manifatture, sostenendo il lavoro creativo e moltiplicandone le possibilità e le occasioni. Vuol dire ricongiungere città storica, Laguna e terraferma differenziando le funzioni, rilanciando i suoli agricoli e le valli da pesca, riutilizzando gli edifici vuoti o in rovina, incentivando la ricerca e la formazione professionale e universitaria, favorendo la residenzialità degli studenti. Vuol dire cercare modelli, analizzare situazioni, valutare opzioni, prendere iniziative di qualità come la Biennale o le università, e non (come le istituzioni pubbliche hanno spesso fatto in questi anni) mettersi al servizio delle “incoercibili forze del mercato”. Vuol dire sancire come prima regola del gioco il diritto alla città e la priorità del bene comune.
Se pensiamo Venezia come paradigma della città storica, anche la sua bellezza può diventare un argomento. La bellezza non è una merce, ma un patrimonio spirituale. Non possiamo accettare un processo per cui il bello si trasforma in semplici “cose”, il bosco sacro è ridotto a legname, le immagini diventano cose che hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono; gli ideali che non si possono ridurre a realtà facilmente comprensibile si considerano finzioni, e ogni rapporto con essi appare gioco gratuito, servitú verso gli oggetti o superstizione (Hegel, Fede e sapere, 1802).
Pensare la città storica vuol dire pensare la comunità umana, il diritto al lavoro e il diritto alla città. Amministratori, committenti, architetti devono rinunciare a qualsiasi architettura di sopraffazione, affermare coi progetti e coi fatti che una modernità non violenta è possibile. Ai veneziani, ma anche ai cittadini del mondo che hanno a cuore Venezia, spetta un compito vitale e una grave responsabilità: mostrare e dimostrare che la diversità e la bellezza non sono una pesante eredità del passato, ma uno straordinario dono per vivere il presente e una straordinaria dote per costruire e garantire il futuro. Mostrare e dimostrare che Venezia, per esistere nel nostro secolo, non deve diventare Chongqing, anzi deve esserne la negazione. Che nel mondo in cui viviamo c’è posto per la diversità di modelli urbani, di culture, di stili di vita; e che quello elaborato a Venezia ha diritto di cittadinanza, di stare al mondo non solo oggi ma anche domani. Perché se Venezia muore non sarà solo Venezia a morire: morrà l’idea stessa di città, la forma della città come aperto e vario spazio di vita sociale, come creazione di civiltà, come impegno e promessa di democrazia.
Tratto da: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore